Quando ormai stava per uscire dall'ospedale di Padova dove era stato operato di tumore, improvvisamente, per embolo polmonare, P. Fantin terminava la sua generosa vita missionaria. Aveva 60 anni.
Quarto di 8 fratelli, quattro maschi e quattro femmine, Giovanni proveniva da una famiglia profondamente cristiana. Due delle sue sorelle, suor Leonina (comboniana) e suor Alessandra (elisabettina), seguirono il Signore nella vita religiosa prolungando la già lunga fila di zii e cugini che avevano battuto la stessa strada.
Papà Alessandro era agricoltore e mamma Leonina Colussi casalinga. Possedevano una buona campagna per cui erano considerati benestanti. Un motivo di più per largheggiare in beneficenza nei confronti dei poveri che non si allontanavano mai da casa Fantin con le mani vuote.
Fervoroso chierichetto e membro dell'Azione Cattolica, di tanto in tanto Giovanni diceva: "Voglio andare missionario come lo zio Pio". Ma intanto venne la guerra a scombussolare i piani e a far perdere tempo al nostro giovinetto. Nel 1944 Giovanni e la sua famiglia sperimentarono la vita dei profughi. Abbandonato il paese, trovarono riparo a San Lorenzo dove rimasero fino al "cessato pericolo".
Terminata la quarta elementare a 11 anni, Giovanni entrò tra i Comboniani di Padova per la quinta che, in pratica, non frequentò.
Il 6 agosto 1946 il parroco scrisse al superiore di Padova: "Ha fatto la 4 con abbastanza buon profitto e credo che potrebbe riuscire negli studi. È nipote da parte di madre del defunto P. Pio Colussi e del fratello Giovanni. È di carattere generoso e docile, si accosta alla comunione quotidianamente, i suoi genitori sono buoni cristiani e persone onorate. Dall'infanzia ha l'idea di farsi missionario".
La sua vocazione, dunque, oltre che alla grazia di Dio, è da attribuirsi all'esempio dello zio P. Pio Colussi.
"I suoi compagni preferiti - dice la sorella suor Leonina - erano quelli che esprimevano il desiderio di diventare sacerdoti. Erano tempi in cui, a Casarsa, diventare sacerdote era una cosa quasi normale per un ragazzo.
Come tipo - prosegue la sorella - era calmo, riflessivo, un po' timido. Solo quando si trattava di difendere la verità si faceva sentire, e la timidezza spariva del tutto. Ricordo che, fin da piccolo, voleva bene ai poveri e agli ammalati. Quando andava a trovarli stava per ore a far loro compagnia. Il dono della chiamata da parte del Signore lo ha avuto da sempre, fin dal seno materno. A pochi giorni dalla nascita, la mamma si accorse che l'indice della mano sinistra rimaneva chiuso. Piangendo disse: 'Se sarà sacerdote come farà a dire Dominus vobiscum?'".
Fin da piccolo aveva la dote di pacificatore. Ricordo - prosegue la sorella - che lasciava perdere tante sue ragioni pur di assicurare la pace e la concordia tra i compagni e i fratelli".
Nella sua vocazione ebbe una parte importante il parroco Don Giovanni Maria Stefanini. Era un santo ed era dotato di un particolare fiuto soprannaturale per 'sentire' le vocazioni nei suoi ragazzi. E poi sapeva coltivarle e seguirle.
Quando veniva a casa per le vacanze era sempre determinato a ripartire sereno e contento. Il papà, davanti a noi fratelli, lo invitava a rimanere in famiglia; ciò era bello perché lo rendeva libero nella scelta".
All'ombra della croce
Quando Giovanni lasciò la casa paterna per il seminario (4 ottobre 1946), i fratelli e i genitori sentirono il dolore del distacco, e anche il ragazzino lo sentì, perché la sua era una famiglia unita, tuttavia la speranza di avere un futuro missionario costituì per i primi una gioia che sorpassò di gran lunga la sofferenza della separazione e diede al secondo la forza di partire.
Essendo il seminario comboniano di Padova sinistrato a causa dei bombardamenti, i ragazzi andarono a Luvigliano, tra i Colli Euganei, dove poterono continuare gli studi in attesa di tornare in città.
In seminario Giovanni si applicò con la miglior buona volontà, ma le elementari fatte tra scappa e fuggi a causa della guerra e la quinta rabberciata in qualche mese influirono sul suo rendimento scolastico. Solo la sua pietà, la sua mitezza e un fortissimo attaccamento alla vocazione gli diedero la forza di proseguire nonostante le difficoltà. Ma le sofferenze per il nostro seminarista erano solo all'inizio.
Il 14 giugno 1949 - Giovanni stava facendo gli esami di terza media - sua mamma, di appena 41 anni, morì improvvisamente. Fu un colpo che stordì il giovane seminarista tanto che gli compromise gli esami e gli fece perdere l'anno scolastico.
"Tuttavia - scrive la sorella - ebbe la forza di incoraggiare noi fratelli con parole di fede, dimostrando una maturità spirituale superiore alla sua età".
Nonostante lo smacco della bocciatura, Giovanni non si perse di coraggio e ripeté la terza, accettando quella che per lui costituiva una scottante umiliazione. La accettò senza protestare, anzi ringraziando i superiori che gli concedevano di andare avanti. Teniamo presente che, a quei tempi, chi era bocciato, normalmente doveva uscire dal seminario e tornarsene a casa.
Indubbiamente tutte queste "prove" accentuavano la sua insicurezza, la sua timidezza e lo portavano quasi ad isolarsi.
A Brescia per il ginnasio
Solo il 5 ottobre 1950 poté raggiungere il seminario comboniano di Brescia per la quarta e quinta ginnasio. Giovanni era un ragazzo provato dalla sofferenza, e questa lo aveva maturato per cui, tra i compagni, era considerato un saggio. Era un tipo che parlava poco, che non alzava la voce, che preferiva stare un passo indietro per lasciare spazio agli altri. Quanto a vita di seminario era esemplare: osservava il silenzio, stava in fila quando si doveva stare in fila, si applicava nella scuola e pregava volentieri. Nel gioco preferiva fare da secondo o da terzo, lasciando ad altri le parti da protagonista.
Per questo suo atteggiamento era caro ai compagni - e chi scrive è stato suo compagno - non altrettanto a qualche professore che, nelle interrogazioni sembrava averlo preso di mira.
E successe che anche a Brescia dovette ripetere un anno. Se non fu mandato via il merito fu di P. Ernesto Calderola, superiore, che amava i ragazzi e, più che degli scienziati o dei letterati, vedeva in essi dei futuri missionari. E in Fantin il futuro e bravo missionario si vedeva a mille miglia di distanza.
Mi pare di vederlo ancora oggi, accanto al muretto che c'era in fondo al cortile di Brescia, mentre dagli occhi gli scendevano abbondanti lacrime, ma lui non si lamentava, non protestava... e i compagni stretti intorno a fargli coraggio con dolci espressioni nei suoi confronti e con pesanti improperi all'indirizzo di chi - secondo loro - era stato la causa di tanta sofferenza.
Quella seconda bocciatura apparve anche ai ragazzi una palese ingiustizia, come tale era apparsa agli assistenti e al superiore stesso. Infatti Gianni fu bocciato per una sola materia. Per inciso dobbiamo dire che l'intransigente professore, autore di questa e di altre imprese simili, alcuni anni dopo lasciò la Congregazione con grande sollievo di chi gli viveva accanto.
Giovanni fece gli esami di ammissione al liceo presso il liceo-ginnasio parificato annesso al Collegio vescovile Barbarigo di Padova, e fu promosso.
"In P. Gianni - scrive la sorella - ho sempre ammirato la sua fedeltà e coerenza alla vocazione sacerdotale e missionaria. Coerenza e fedeltà che lo hanno salvato da tanti momenti brutti".
Alla fine del ginnasio il superiore scrisse sulla cartella personale di Giovanni: "Indole mite e buono. Talvolta incerto e poco sicuro di sé. Fa più con l'incoraggiamento che con i rimproveri. Molto impegnato nei suoi doveri ed attaccatissimo alla vocazione per la quale ha sofferto molto con generosità e spirito di sacrificio. Promette bene".
Novizio
Il 18 settembre 1953 Giovanni, con un nutrito gruppo di compagni provenienti dal seminario missionario di Brescia, entrò nel noviziato di Gozzano (Novara) dove era maestro P. Pietro Rossi.
La vita in quel vecchio seminario diocesano e poi noviziato dei Gesuiti (solo nel 1947 era stato acquistato dai Comboniani) si presentò subito alquanto dura: freddo, umidità e mancanza assoluta di quelle comodità che oggi appaiono indispensabili. Alcuni novizi si ammalarono e, tra questi, anche Giovanni che non era mai stato un asso di salute.
Il primo novembre 1953, dopo un corso di esercizi di 8 giorni, fece la vestizione religiosa che segna l'inizio ufficiale del noviziato. "Non si nota nulla di particolare - scrisse il padre maestro all'inizio del noviziato. - È un giovane comune. Non ha grandi entusiasmi, tuttavia attende con serietà e serenità al suo cammino spirituale. È un novizio che sa sacrificarsi, anche se molto timido e di salute precaria. Sta approfondendo le motivazioni della sua vocazione".
Dopo due anni di lavoro spirituale, il padre maestro poteva scrivere: "Ha raggiunto notevole serenità riguardo alla sua vocazione. Si impegna molto bene nella preghiera. Porta sempre con sé la sua timidezza, incertezza e riservatezza che possono causargli qualche momento di scoraggiamento. È modesto, caritatevole e retto. La salute è sempre poco buona, e crea nei formatori una certa perplessità, anche se si comporta come se stesse bene".
Verso il sacerdozio
Il 9 settembre 1955 emise la professione religiosa e venne trasferito a Verona per la seconda liceo (la prima era stata fatta durante il secondo anno di noviziato).
Lo scolasticato a Verona fu particolarmente impegnativo: si trattava di concordare un'intensa vita di studio con la vita di preghiera propria dei religiosi e i mille lavori per tenere in ordine la casa.
Fortunatamente in quel periodo era superiore P. Gino Albrigo, reduce dalla missione che, come P. Calderola a Brescia, vedeva i giovani alle sue cure affidati quali futuri missionari. Questa visione gli consentiva di ridimensionare tante cose e di mettersi qualche volta contro le aspettative degli insegnanti piuttosto esigenti.
Alla vita di studio e di preghiera, si abbinava anche una discreta attività ricreativa fatta di partite al pallone e di belle passeggiate che servivano a distendere lo spirito e a rilassare i nervi.
"È un buon soggetto - scrisse P. Albrigo alla fine del liceo che comprendeva anche la quarta classe, quella di filosofia. - Contrariamente alle apparenze, è debole di salute. Obbediente e serio, ama la preghiera. In filosofia ha dimostrato un'intelligenza sopra il comune".
Con questa credenziale, Giovanni, nel settembre del 1958 passò a Venegono Superiore per la teologia.
Il sacerdozio era alle porte, lo studio delle materie che riguardano Dio, Gesù Cristo e la Madonna, trovarono una felice risonanza del cuore di Giovanni, per cui tutto gli apparve più facile.
I giudizi al termine del corso teologico ripetono quelli già formulati in noviziato con qualche accentuazione sulla "maggior maturità umana e la serietà e fedeltà ai suoi impegni".
P. Baj, con la sua solita incisività, scrisse: "Intelligente, caritatevole, di sacrificio, ammirevole in tutto". Venne ordinato sacerdote nel Duomo di Milano dal card. Montini il 7 aprile 1962. Erano presenti il papà, la sorella Fernanda, il fratello Sergio, Renzo e altri familiari, parenti e amici.
L'8 aprile (domenica di Passione) celebrò la prima Messa in Lugugnano e il 29 aprile (domenica in albis) a Casarsa.
Vicerettore a Padova e padre spirituale a Trento
La prima destinazione di P. Giovanni Fantin fu il seminario comboniano di Padova dove avrebbe svolto il ruolo di vicerettore. Vi rimase dal 1962 al 1964.
Ammaestrato alla scuola della sofferenza, dimostrò subito di capire i ragazzi e di condividere da amico e da fratello i loro problemi.
"P. Giovanni sapeva ascoltarci - dice uno di loro - e dimostrava di dare importanza alle nostre parole. Questo era molto importante per noi".
"Avevamo la netta sensazione che ci amava - dice un altro. - Anche quando ci richiamava per qualche marachella lo faceva con garbo, quasi con sofferenza. Si vedeva che parlava per il nostro bene".
Già a Padova i superiori notarono quanto a P. Giovanni stesse a cuore la formazione spirituale, più che la disciplina, dei futuri missionari. Stava attento perché ai ragazzi non venisse mai meno l'opportunità di confessarsi, di accostare il padre spirituale e di dialogare con il superiore.
Nel 1964, essendo venuto a mancare il padre spirituale nel seminario comboniano di Trento, i superiori pensarono subito a P. Giovanni. Sì, forse la direzione spirituale si confaceva maggiormente alla sua indole di uomo mite, che quasi rifuggiva dalle osservazione e tanto meno dalle punizioni.
Rimase a Trento, in quel delicato ufficio, per ben cinque anni, fino al 1969, anno in cui ricevette il via per l'Ecuador. Dopo sette anni di Messa, sentiva l'esigenza di partire per la missione. Avrebbe preferito l'Africa, ma poi si mostrò entusiasta anche dell'America latina che, per certi aspetti, si presentava più impegnativa rispetto all'Africa stessa.
A S. Lorenzo
Diciannove marzo 1970 "Salida in barco Donizetti desde Genova hasta Guayaquil (Ecuador)", scrisse P. Giovanni su una specie di diario.
Quasi subito fu inviato al "campo" di S. Lorenzo, una quasi-parrocchia in mezzo ai fiumi dove per muoversi occorreva il barcone. C'era la scuola, c'era l'ospedale, c'erano le scuole artigianali... insomma, un centro di notevole importanza dove il lavoro non mancava. E neanche le difficoltà mancavano, ma la carica interiore che animava il Padre gli faceva superare i disagi che poteva incontrare.
Per uno di salute cagionevole come P. Fantin, S. Lorenzo non pareva il posto ideale, tuttavia egli, facendo sempre finta di stare bene, si buttò nel ministero spicciolo e si trovò subito a suo agio, sia per la sua innata capacità di approccio con le persone, sia perché, trovandosi con gente semplice, superava più facilmente il complesso di timidezza che si portava dentro.
"Amava moltissimo la gente locale - scrive un confratello - aveva una grande capacità di ascolto. E anche la gente lo amava perché si sentiva da lui benvoluta".
Durante questo periodo due grosse croci penetrarono come un pugnale il suo cuore: la morte tragica di suo fratello Pietro (30 maggio 1970) e la morte di mons. Angelo Barbisotti, vicario apostolico di Esmeraldas.
Pur restando in quell'angolino sperduto di S. Lorenzo, P. Fantin si fece presto stimare dai confratelli che trovavano in lui un uomo prudente, che rifletteva prima di dare una risposta, un religioso attaccato alla preghiera dalla quale traeva la forza e l'ispirazione delle sue iniziative.
Provinciale dal cuore buono
Quando venne il tempo del sondaggio per l'elezione del provinciale dell'Ecuador, la maggioranza dei voti confluì sul nome di P. Fantin. Egli rimase stupito e meravigliato. Primo, non gli pareva di avere i numeri per quell'incarico; secondo, era in Ecuador da appena due anni e mezzo e non aveva una sufficiente conoscenza dei problemi della zona.
Il suo primo impulso fu quello di rifiutare l'ufficio ma un confratello gli fece capire che se era stato votato significava che il Signore lo voleva proprio Provinciale, quindi era inutile, anzi dannoso, recalcitrare.
P. Giovanni accettò. Era l'8 febbraio 1973. Primo compito del nuovo Provinciale fu quello di preparare l'ingresso in Esmeraldas del nuovo vescovo mons. Enrico Bartolucci che sostituiva il defunto mons. Barbisotti.
Verso la fine del 1974 P. Giovanni e il suo Consiglio trasferirono la sede del Provinciale da La Merced a Quinindè per facilitare i contatti con i confratelli.
Uno dei punti forza del provincialato di P. Fantin, vorrei dire il principale, fu quello di stare vicino ai confratelli. Voleva vederli spesso, parlare con loro, condividere problemi e preoccupazioni e non era contento finché non li sapeva sereni. Se i confratelli lo rielessero per altre tre volte allo stesso ufficio, significa che fece proprio bene.
Questo super lavoro, però, incise sulla sua salute per cui, nel gennaio del 1975 rientrò in Italia, dalla quale era assente da cinque anni, per un po' di vacanza.
Dal giugno all'ottobre del 1975 partecipò al decimo Capitolo generale della Congregazione, e nel novembre dello stesso anno era nuovamente in Ecuador. La sede provinciale subì un ulteriore spostamento e finì nella capitale, Quito.
Alla scadenza del tempo, P. Fantin venne rieletto provinciale. I tempi cambiavano e anche le persone si erano rinnovate mettendo sul tappeto problemi sempre nuovi e molto spesso di non facile soluzione. Il Concilio aveva mosso tante idee e qualche testa si era surriscaldata. Poi c'era il problema del personale sempre troppo scarso rispetto ai bisogni dell'Ecuador (ma era così anche per le altre missioni) con i conseguenti fraterni "litigi" con i superiori che - poveri loro - i missionari non potevano fabbricarli.
Il terremoto del Friuli del maggio 1976 fece passare qualche notte insonne a P. Giovanni. Il suo paese era proprio in prossimità dell'epicentro del scisma. Un telegramma da Roma che gli annunciava "Tua famiglia tutta salva" lo tranquillizzò.
Intanto i problemi in Ecuador si acuivano per cui Fantin, non ritenendosi all'altezza della situazione, chiese di essere trasferito. Il P. Generale gli fece la proposta di andare in Spagna come formatore.
"Se posso esprimere un mio parere - scrisse P. Fantin - ti dico che sento il bisogno di un lavoro pastorale, se non in Ecuador almeno in un Paese dell'America latina.
8 anni in seminario, 3 nel campo di San Lorenzo, 5 Regionale. Cioè 13 anni lontano dalla gente. Ciò mi fa paura", scrisse.
"Umanità squisita, un compagno di viaggio ideale - scrisse P. Balasso. - Quante volte entrava nella mia stanza e ci fermavamo per fare il punto della situazione: speranze, idee, frustrazioni, progetti. E, cosa abbastanza rara, sapeva chiedere scusa ai confratelli".
Tappa a Limone
Nel giugno del 1978 P. Giovanni era nuovamente in Italia con una buona dose di stanchezza in corpo e i nervi tesi. I superiori lo mandarono a riposare nella Casa del Fondatore, a Limone sul Garda. Segretamente pensavano che, dopo essersi ambientato, avrebbe potuto sostituire P. Bertuzzi come superiore della comunità. P. Giovanni venne a conoscenza di questo progetto e protestò: "Non dovrei dare credito a queste voci, sarebbe una mancanza di fiducia verso di voi, ma il sospetto che l'obbedienza si faccia manovra, mi disturba... Dicono che questo sarebbe il nuovo sistema: procedere per passi. No, non va. Comunque vedrò di recuperare la fiducia là dove mi manca!".
Limone: posto ottimo, distensivo, con panorami stupendi ma... piuttosto isolato, cominciò a fare più male che bene al nostro missionario desideroso di movimento, di persone con cui parlare.
Il 30 novembre 1978, dopo appena cinque mesi di permanenza, P. Fantin era stanco di tanta "beata solitudo", e scrisse ai superiori: "Non me la sento più di stare a Limone. Non ho la vocazione di eremita. Vi supplico di lasciarmi partire presto per la missione".
Queste parole erano il segno evidente che la salute era rifiorita e che il timore della nomina a superiore di Limone si approssimava.
Il 19 agosto 1979 P. Giovanni fece il suo ingresso in S. Pablo de Portoviejo (Ecuador) come parroco.
La nuova evangelizzazione
P. Fantin aveva capito che per incarnare il Vangelo tra la sua gente, doveva adattarsi agli usi, ai costumi e alla cultura del posto. Solo così il cristianesimo sarebbe stato sentito e vissuto come un valore proprio e non come una cosa importata.
"Mi interessa farvi sapere - scrisse - che sto camminando verso un rito afro-ecuadoriano. Stiamo facendo dei passi sicuri e chiari. La cultura religiosa della nostra gente ha due radici: la africana e la ecuadoriana. Vogliamo salvare il salvabile ed esprimerlo in gesti, segni, simboli, canti, strumenti e parole proprie della cultura locale. Fra tutti i gruppi neri in Ecuador, forse noi siamo all'avanguardia".
Quindi P. Giovanni era contento quando la gente accompagnava le funzioni liturgiche, e la stessa celebrazione della Messa, facendo un gran rumore al suono dei bombo e dei conuno. Anche i bambini di neanche un anno accompagnavano il ritmo muovendo mani e piedi. E i grandi parevano elettrizzati. Tra i popoli latino-americani quando è festa è festa.
Scrive P. Raffaele Savoia: "Nel primo periodo di Portoviejo si è sentito felice di poter iniziare una missione nuova perché si trattava di un territorio smembrato da un'altra parrocchia ed era considerata una delle peggiori tanto che molti assicuravano che non si sarebbe cavato niente di buono.
Dopo un po' divenne una delle migliori parrocchie. Se i comboniani avessero seguito l'esempio di P. Giovanni e lo stile con cui aveva cominciato, oggi l'Ecuador sarebbe un esempio di nuova evangelizzazione a livello nazionale. Ma quel metodo era sembrato troppo radicale".
Povero tra i poveri
"È stato il primo ad andare a vivere in un locale in affitto e a non voler mezzi potenti per evangelizzare - prosegue P. Savoia. - Si riempiva di polvere e di fango, su per quelle colline di povertà della zona di San Pablo... e sapeva che cosa erano la fame e la sete. Più che per i sacramenti, insisteva per la Parola di Dio. Era soddisfatto in mezzo a tante fatiche.
Ma per non disgustare i confratelli che non condividevano le sue idee, preferì perdere pur di salvare la pace e l'amicizia.
Anche con le autorità civili e religiose è stato onesto e retto, come un vero friulano, anche se gli costò i calcoli al fegato.
Ebbe momenti difficili, di sofferenza con chi soffriva l'incomprensione e perfino la calunnia. Coloro che hanno cercato nuove strade, nuove presenze di Chiesa, lo hanno avuto vicino.
Comprendeva molto bene le miserie umane, i limiti, e le debolezze, ma voleva sempre aprire nuovi orizzonti, dar respiro, animare. Ha saputo pagare di persona. Prima di esigere dagli altri, esigeva da se stesso. Se c'era da dire una parola di correzione, la diceva. L'amicizia, per lui, prima di tutto era sincerità".
Animatore
"Quando veniva in Italia - scrive suo fratello Renzo - parlava dei suoi ecuadoriani con il cuore in mano, per loro viveva e agiva".
"Secondo me - aggiunge la sorella suor Alessandra - ha cercato il bene spirituale e materiale della sua gente come vero rappresentante della bontà e misericordia di Dio. In Italia, e specialmente a Casarsa - ha sempre avuto contatti epistolari con molta gente di buona volontà, in particolare i giovani del 'gruppo missionario'. Sapeva coinvolgerli nell'interesse missionario. Gran parte del tempo dedicato alle vacanze era riservato all'animazione missionaria-vocazionale. Escogitava ogni mezzo pur di fare il bene".
"Per me è una grande soddisfazione - aveva scritto ai giovani di Casarsa nel 1970 - potermi mettere in contatto con dei giovani. Ne sento la necessità. I giovani, quando ci parlano e ci pensano, ci entusiasmano nelle nostre attività".
Vent'anni dopo, in un fax inviato ai giovani della parrocchia riuniti per una veglia di preghiera, si chiedeva "se non fosse giunto il momento, anche per i giovani casarsesi, di dare ai poveri e agli umili di cuore non solo tempo, lavoro, iniziative, volontariato, denaro e sofferenze, ma anche la vita".
In una lettera aggiungeva: "La solidarietà non va ridotta a un atto economico. Molti missionari e missionarie ci hanno lasciato dopo aver dato se stessi per la causa del Vangelo. Ora si dovranno intraprendere nuove iniziative perché si rilanci tra noi, in paese, la preghiera missionaria, di solidarietà con il mondo. Inoltre non deve mancare la riflessione missionaria, attraverso la testimonianza. E, infine, la distribuzione dei nostri beni agli altri, gesto indispensabile di conversione all'umanità sofferente e alla Chiesa dei poveri... La mia vita è negli altri e per gli altri. Le radici della mia realizzazione sono qui".
"E che dire della su disponibilità! - prosegue Renzo. - Ascoltava, consigliava, confortava, leniva ogni sofferenza. Quando parlava con una persona non palesava mai fretta. Per noi familiari era il perno di riferimento. Partecipavamo attivamente alla sua missione, lo sentivamo sempre entusiasta per il bene che si poteva compiere, sapeva cogliere il positivo che ogni persona ha, anche e specialmente i suoi ecuadoriani. Li amava nel vero senso della parola. È sempre ripartito per la missione con gioia e serenità. Amava ripetere: 'Un istituto missionario è vivo tanto quanto si parte per la missione'".
Provinciale per la terza volta
La vita a S. Pablo scorreva serena, immerso nel lavoro pastorale che tanto gli piaceva, a contatto con la gente, specie con i ragazzi che gli erano sempre attorno e che con lui facevano meraviglie.
Ma ecco che il primo luglio 1981 dovette mettersi per la terza volta sulle spalle la croce di provinciale.
Dopo tre anni, nel 1984, allo scadere del suo mandato, ebbe la proposta di diventare formatore del Centro per Fratelli di Calì, in Colombia. Pur dichiarandosi pronto all'obbedienza, P. Giovanni rifece i suoi conti: "Sono 18 anni che mi trovo lontano dal popolo, su 22 di sacerdozio. Comincio a sentire una certa ripugnanza dei problemi inerenti all'esercizio dell'autorità. Ho bisogno di aria e di spazio. Comunque sappi che avrai da me obbedienza, qualunque essa sia, dovesse anche costarmi (5 maggio 1984)".
"Anche se non sei più provinciale, la tua presenza in Ecuador è preziosa - gli rispose il P. Generale - e hai dato alla Congregazione molto più di tanti altri" e fu inviato come parroco nella missione di El Carmen (luglio 1984).
Si illudeva P. Giovanni di trascorre in mezzo alla gente che tanto amava e verso la quale si sentiva portato, un bel po' di anni. L'anno dopo, invece, fu chiamato in Italia per dedicarsi all'animazione vocazionale.
Come erano cambiati i tempi in Italia rispetto agli anni in cui egli era ragazzo! Si sentiva proprio un osso fuori posto per cui, dopo cinque mesi, era nuovamente a El Carmen a fare il parroco. Vi rimase dal 1985 al 1990. Furono anni belli anche se funestati dalla morte del papà (agosto 1989) e dello zio comboniano Pio Colussi (dicembre 1989).
Provinciale per la quarta volta
Il due settembre 1989 gli vennero comunicati i risultati della votazione per il Provinciale. Era ancora lui! Insieme all'Ecuador c'era anche la Colombia che avrebbe dovuto visitare spesso sottoponendosi a viaggi disagevoli e lunghi.
"So che non mi rimane una via d'uscita - scrisse al P. Generale (Pierli) - anche se motivi per farlo ce ne sarebbero a sufficienza. Siccome sembra si tratti di volontà di Dio, non mi resta che riprendere ancora una volta il cammino. I miei pensieri erano altri. Li sto già abbandonando, per assumere dentro di me, gradualmente, questo tipo di servizio. Di più non dico. Se il Signore mi vede adatto, penserà lui ad assistermi. Se non mi vede adatto, penserà ancora lui a togliermi". E qui P. Fantin fece una profezia, segno che aveva la capacità di conoscere a fondo gli uomini. "Ti pregherei - continuò scrivendo al P. Generale - di lasciare qui P. Arellano. È necessario: ieri come provinciale, domani con un altro ruolo molto importante". Oggi P. Arellano è vescovo di Esmeraldas.
Il primo amore
Nel 1993, allo scadere del suo triennio come P. Provinciale, Fantin tornò a S. Lorenzo, il suo primo amore in terra ecuadoriana. Il Signore lo voleva lì per prepararlo all'incontro con lui, che sarebbe avvenuto due anni dopo.
"Quando seppe del tumore che lo minava - scrisse P. Savoia -provò paura, ma la fede ebbe subito il sopravvento. È partito per l'Italia per curarsi molto sereno, abbandonato alla volontà del Signore. Ora lo immagino in Cielo a continuare le sue lunghe discussioni con mons. Bartolucci e rideranno insieme. Noi, intanto, li consideriamo due protettori dell'Ecuador".
Le ultime battute
Rientrato in Italia, andò a Padova per farsi curare. Il caso non appariva dei più difficili per cui c'erano serie speranze che, fatta l'operazione, P. Giovanni avrebbe potuto tornare alla sua missione sottoponendosi a controlli periodici.
Il Padre visse la sua malattia e l'operazione con serenità. Per coloro che andavano a trovarlo aveva sempre una battuta umoristica, un sorriso, un incoraggiamento.
Nei suoi appunti, intanto, scriveva: "Dio sta chiamando in Gesù incarnato e crocifisso, in Gesù porta aperta della Trinità, nel silenzio della sua Parola, nella vita e nella morte, nella salute e nella malattia, nell'umiliazione e nel trionfo, nella solitudine e nell'amicizia".
Poi, improvvisamente, mentre parlava con un amico, si accasciò. Un micidiale embolo polmonare, di fronte al quale non ci fu niente da fare, lo stroncò in pochi minuti.
Non ci volevano credere
La gente di S. Pablo, di S. Lorenzo, di El Carmen, di Quito alla notizia della morte di P. Giovanni non voleva crederci. Poi ha cominciato a far memoria della vita del padre Juanito, così lo chiamava la gente con amore, del suo andare di casa in casa, della sua capacità di ascolto e dei motivi di speranza che sapeva trasmettere, della sua condivisione piena di amore e semplicità con la gente, in particolare con i più poveri da un punto di vista materiale e spirituale.
Molti lo hanno pianto come si piange un fratello e hanno indossato il vestito da lutto come partecipazione al grande dolore che colpì la cittadinanza.
Alla Messa di suffragio a S. Pablo, celebrata da mons. Lorenzo Voltolini, c'era tanta gente. E poi è seguita una novena di preghiere. Nel trigesimo della morte, nella chiesa di S. Pablo che egli aveva costruito, fu posta una lapide con queste parole: "A padre Juan Fantin, missionario comboniano, primo parroco di S. Pablo, messaggero di pace, luce e guida nella formazione cristiana e nella promozione umana. La parrocchia ringrazia e ricorda".
Dopo la Messa la gente si è trasferita al centro parrocchiale a lui dedicato, dove è stata posta una grande foto di P. Giovanni e dove è stato scoperto un gran quadro con P. Giovanni insieme alla sua gente. L'applauso è stato lungo e spontaneo.
A S. Lorenzo la municipalità ha indetto tre giorni di lutto cittadino. Nelle scuole e nei collegi la bandiera era a mezz'asta e la Messa funebre dovette essere celebrata all'aperto per la troppa folla.
All'offertorio sono stati portati all'altare i ricordi di P. Giovanni: le sue scarpe, il suo zaino, il cappello, un quadro della Madonna che aveva in stanza, il suo libro di preghiere.
I giovani avevano preparato cartelloni con l'immagine di P. Giovanni e scritte con espressioni di affetto. E anche alle partite di calcio del campionato le squadre giocarono col lutto al braccio.
Anche in Italia il cordoglio fu grande. Mons. Sennen Corrà, vescovo di Concordia e Pordenone chiamò P. Giovanni "missionario generoso specialmente tra i più poveri dell'Ecuador dove ha profuso le sue grandi doti di natura e di grazia".
Davvero sessant'anni sono troppo pochi per un missionario come P. Giovanni, ma il Signore ha i suoi tempi e certamente sono quelli giusti.
Ora riposa nel cimitero di Casarsa accompagnato dal cordoglio di tutta la popolazione che vede in P. Giovanni un altro valido protettore della parrocchia.
Egli lascia l'esempio di un missionario contento della propria vocazione, perfettamente realizzato e sinceramente amato dalla gente e dai confratelli, consumato dallo zelo per la diffusione del messaggio evangelico specialmente tra i più poveri, proprio come Mons. Comboni di cui si sentiva figlio legittimo. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Da Mccj Bulletin n. 192, luglio 1996, pp. 76-83
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He was about to leave the hospital at Padova where he had been operated on for a tumour, when suddenly, because of a blood clot on the lung, Fr. Fantin ended his generous missionary life. He was 60.
The fourth of 8 children, four of each kind, Giovanni came from a deeply religious family. Two of his sisters, Leonina (Comboni Sisters) and Alessandra became nuns, thus prolonging, with him, the long line of uncles and cousins that had followed the Lord in the same way.
Their father, Alessandro, was a farmer, and their mother, Leonina Colussi, a home-maker. They had some good land, and were considered well-to-do. It was another reason for being generous to the poor, who were frequent callers at the Fantin home, and never left empty-handed.
An eager altar-boy and member of Catholic Action, Giovanni would say, from time to time, that he wanted to be a missionary like his uncle Pio. Then came the War to overturn plans and cause some delay. In 1944 the family learned what it was like to be refugees: they left their home and went to stay in San Lorenzo until the "all clear" sounded.
At 11, when he had completed his fourth year of primary school, Giovanni joined the Comboni seminary at Padova, though he did not actually do the fifth year.
"His favourite friends," writes his sister Leonina, "were boys that spoke of the same desire to be priests. They were times when, in Casarsa, to become a priest was almost the normal thing to do for a boy.
In character he was calm, thoughtful and a bit timid. He only raised his voice when it was a question of defending the truth, and then his timidity disappeared entirely. I remember that, even as a child, he loved the poor and the sick. When he went to visit them he would stay for hours to keep them company. He had the mark of the Lord's call on him, right from his mother's womb. A few days after his birth, his mother noticed that the index finger of his left hand was curled in, and she wept: ."
He was also a peacemaker from his early years. "I remember," his sister continues, "that he would easily drop all his arguments to preserve peace and concord with his friends or his siblings".
The Parish Priest, don Giovanni Maria Stefanini, played an important part in his vocation. He was a holy priest, with a supernatural "sixth sense" to recognise vocations among the children. And he would follow them up with care".
In the shadow of the Cross
Giovanni left home for the seminary the first time on 4th October 1946. The junior seminary in Padova had been damaged in the bombing, so the lads went to Luvigliano in the Euganeian Hills, to study while they waited for repairs to be completed.
On June 14 1949, during the third-year tests, his mother suddenly died, only 41 years old. The shock was enormous; Giovanni was so dazed that the exams were a disaster, and he had to repeat the year. It was not until October 5 1950 that he reached Brescia for the final two years of his middle school.
Novice
On 18th September 1953 Giovanni, with a large group of companions from the missionary juniorate of Brescia, entered the Novitiate at Gozzano (Novara), where Fr. Pietro Rossi was Novice Master.
Life was grim in that old building that had been diocesan seminary and then Jesuit novitiate before being bought by the Comboni Missionaries in 1947: cold, damp, and absolutely none of the comforts taken for granted nowadays. Some of the novices were poorly, among them Giovanni, whose health had never been robust.
On 8th December 1953, following a retreat, they received the religious habit, marking their official entry into the Novitiate.
After two years of this spiritual process, the Novice Master was able to write: "He has reached a high level of serenity with regard to his vocation. He is very committed to prayer. Still with his shyness, insecurity and reserve, that cause a few moments of discouragement. He is modest, charitable and upright. His health is still imperfect, and raises some doubts in the formators, even though he always behaves as though he is perfectly well."
Towards the priesthood
On September 9 1955 he made his Religious Profession and moved to Verona for the second year of Upper School (the first having been completed in the Novitiate).
Luckily, Fr. Gino Albrigo was superior at the time, just back from the missions. Like Fr. Calderola in Brescia, he looked on the young men entrusted to him as future missionaries. This point of view allowed him to put many things into another perspective, and led him to oppose some of the too strict demands of teachers. And in addition to the life of study and prayer there were recreational activities, mainly football and long walks, that helped to relieve tensions and restore serenity.
"He's good," wrote Fr. Albrigo at the end of the period in Verona, which included a year of Philosophy. "Despite appearances, his health is not strong. He is obedient, serious and prayerful. He has shown an above-average intelligence in Philosophy."
With these credentials Giovanni went to Venegono Superiore for Theology in September 1958.
He was ordained in Milan Cathedral by Cardinal Montini on 7 April 1962.
At Padova and Trento
Fr. Fantin's first appointment was to the junior seminary in Padova, as Vice-rector. He was there until 1964.
"We felt quite clearly that he loved us," says one of the boys of that time. "Even when he scolded us for some prank, he did it gently, with a kind of pain. It was clear it was for our good."
In 1964, when a vacancy arose in our junior seminary in Trento, the superiors thought of Fr. Giovanni at once. This would certainly suit his mild character more, since he did not like telling boys off, and even less punishing them. He spent five years in this delicate office, until he was assigned to Ecuador, in 1969. After seven years of priesthood, he felt the need to go to the missions, and would have preferred Africa; but he soon became enthusiastic over Latin America where, in some ways, he saw a greater challenge even than in Africa.
At S. Lorenzo
"Salida in barco Donizetti desde Genova hasta Guayaquil (Ecuador)", he wrote in a kind of diary on 19 march 1970.
He was appointed almost immediately to the "camp" of S. Lorenzo, a quasi-parish with rivers on all sides, so travel was by boat. There was a school and a hospital and several craft schools, so the place was important enough, and there was plenty to do. Plenty of problems too, but his inner strength and freshness helped him to overcome all the obstacles he met with.
Maybe S. Lorenzo was not the right place for someone not in the best of health, but Fr. Fantin threw himself into pastoral ministry, with never a complaint. He found himself at home very quickly, both because he had a natural gift of approaching people and, because they were simple people like himself, he was not affected the shyness that he felt inside.
During this period he suffered two losses that were very painful to him: the tragic death of his brother Pietro (30 May 1970) and the death of Bishop Angelo Barbisotti, Vicar Apostolic of Esmeraldas.
A good-hearted Provincial Superior
Fr. Giovanni accepted election on 8 February 1973. His first task as new Provincial was to prepare for the entrance into Esmeraldas of the new Bishop, Enrico Bartolucci, who had been nominated to succeed the late Bishop Barbisotti. Then, towards the end of 1974, he and his Council moved the Provincial residence from La Merced to Quinindé, to make contacts with confreres easier.
One of his strong points - indeed, I would say the strongest - was his close contact with confreres. He wanted to meet them often, talk and share their problems and preoccupations. He was not happy until he saw them content. If they re-elected him to office three more times, it means that he was doing well.
The Provincial Residence moved again in 1975, this time to the capital of Ecuador, Quito.
He was re-elected Provincial at the end of his term of office. Times had changed, and so had personnel, bringing a lot of new problems, many of which did not have easy answers. The Vatican Council had brought in a lot of new ideas, and some people, of course, went over the toP. But there was the constant problem - shared with other missions - of never having enough personnel for all the needs of Ecuador, with the consequent fraternal "squabbles" with his superiors who, of course, could not furnish the missionaries he needed!
But the problems did not diminish or become less intense, and Fr. Giovanni, feeling he could not handle the situation, asked for a transfer. The Superior General proposed a period in Spain as formator. "If I can express my opinion," he replied, "I tell you that I need pastoral work; if not in Ecuador, then in a Latin American country. I have been 8 years in seminaries, 3 in San Lorenzo and now 5 as Regional. That means 13 years away from the people It frightens me."
Of these years as Provincial Fr. Balasso writes: "Exquisite humanity; a great travelling companion. He came into my room numerous times, and we would put the world to rights: hopes, ideas, frustrations, projects... And, a rare gift, he was able to ask confreres for their forgiveness."
Pause at Limone
Fr. Giovanni was back in Italy in June 1978, tired and tense. The superiors sent him to recuperate at the home of the Founder, Limone sul Garda.
Limone was a wonderful place: restful, with stupendous views, but rather isolated. This caused our missionary problems: he wanted to be active and have people to talk to. By 30 November, after a bare five months' residence, he was tired of the "blessed solitude", and wrote to the superiors: "I cannot stay at Limone any longer. I do not have the vocation to be a hermit. Please let me go back to the missions." The words were a clear sign that his health had improved, as well as of his fear that his nomination as superior of Limone was not too far off.
On 19 August 1979, he arrived at S. Pablo de Portoviejo (Ecuador), as Parish Priest.
New evangelization
Fr. Fantin had realised that the "incarnation" of the Gospel in the people required an adaptation to the traditions, customs and culture of the place. It was the only way Christianity could be felt and lived as a value proper to the people, and not as something that has been imported.
"I want to inform you," he wrote, "that I am moving towards an Afro-Ecuadorian rite. We are taking steps that are both careful and clear. Our people's religious culture has two roots: African and Ecuadorian. We want to recuperate whatever we can, and express it in gestures, signs, symbols, songs, instruments and words that are part of the local culture. Of all the groups of black people in Ecuador, perhaps we are the most advanced."
Fr. Raffaello Savoia writes: "After a while it became one of the best parishes. If the Comboni Missionaries had followed the example of Fr. Giovanni, and the style with which he began, Ecuador today would be an example of new evangelisation at a national level. Unfortunately, his methods seemed a bit too radical."
Poor among the poor
"He was the first to live in rented accommodation and to do without powerful means for evangelisation," continues Fr. Savoia. "He would get covered in mud or dust, up and down those poverty-stricken hills in the San Pablo areas... and he knew what hunger and thirst were. Rather than the sacraments, he insisted on the Word of God. And despite all the hard work, he was content.
He understood human weakness very well: the limitations, the failings; but he always wanted to open new horizons, give new scope, animate people. He put himself on the line. What he demanded of others he demanded first of himself. He would correct people, if he had to; because for him the first thing in friendship had to be frankness, sincerity."
Animator
"Whenever he came back to Italy," writes his brother Renzo, "he would talk about his people in Ecuador with candour and love: he lived and worked for them."
"It is a great satisfaction," he himself wrote to the youth group in 1970, "to keep in touch with young people. I feel the need to do so. When young people talk to us and think of us, it renews our enthusiasm in our work".
He was not afraid of challenging their generosity. In a fax to a group holding a prayer vigil he wrote: "Hasn't the time come, even for young people of Casarsa, to give to the poor and the humble not only time, work, initiatives, voluntary activities, money and sacrifices, but also life itself? My life is in others and for others: this is the root of my fulfilment."
Provincial for the third time
Life in S. Pablo was going on peacefully, deep in the pastoral work he loved, in touch with the people, especially the youth who were always around him, and with whom he could do wonders. But he was elected Provincial for the third time, and had to take up this cross again on 1st July 1981.
When his mandate ended in 1984, he was sent to the mission of El Carmen, as parish priest.
But if he thought he was going to spend a good few years among the people he loved so much, and towards whom he felt drawn, it was an illusion. The following year he was called back to Italy for vocation work.
Times had changed greatly in Italy from when he was a boy! He felt like the proverbial fish out of water, and five months later he was back in El Carmen as PP: he managed close on five years there. During that time he lost his father (August 1989) and his missionary uncle, Fr. Pio Colussi MCCJ (December 1989).
Fourth term as Provincial
On 2nd September 1989 he was informed of the result of the voting for Provincial: he had come up again!
The final stages
In 1993, when his three-year mandate expired, Fr. Fantin went back to San Lorenzo, his first love in Ecuador. The Lord wanted him there to start preparing him for their special encounter, two years later.
On his arrival in Italy he went to Padova for treatment. His case did not seem terribly serious, and there were good hopes that, after the operation, he could return to his mission, and undergo periodical check-ups. He himself was serene during his time in hospital, both before and after the operation. He always had a ready joke for visitors, or a smile and a word of encouragement.
In some personal notes he wrote: "God calls in Jesus, incarnate and crucified; in Jesus, the open door of the Trinity. In the silence of his Word, in life and in death, in health and sickness, in humiliation and triumph, in solitude and in friendshiP."
Then one day, while talking to a friend, he suddenly collapsed. An embolism in the lung, about which nothing could be done, ended his life in a few minutes.
They couldn't believe it
When the news of Fr. Giovanni's death reached the people of S. Pablo, S. Lorenzo, El Carmen, Quito, they just could not believe it. Then they began to recall how "P Juanito" used to live and walk among them: his house-to-house calls, what a good listener he was, the hope he could inspire, his sharing with them, and especially with those who were poorest, both spiritually and materially.
Many dressed in mourning and wept for him as for a brother. At the Requiem Mass celebrated by BP. Lorenzo Voltolino at S. Pablo, there was a great crowd. A month after his death a plaque was unveiled in the church, with the words: "To Padre Juan, comboni missionary, first parish priest of S. Pablo, messenger of peace, light and guide of Christian formation and human development. In loving memory. The parish".
The Town Council decreed three days of mourning, and flags flew at half-mast.
The Requiem was held in the open because of the crowds. At the offertory some of his personal items were brought up in the procession: his boots, his haversack, his hat, a picture of Our Lady from his room and his prayer book.
Just sixty years would seem too few for a missionary like Fr. Giovanni. But the Lord has His times, and they are always right. Now Giovanni rests in Casarsa cemetery, remembered by all. He leaves an example of a missionary who loved his vocation, was fulfilled in his life and loved by confreres and people. He gave his all in his zeal for the spreading of the Gospel message, particularly among the poor, like Bishop Comboni, of whom he was a true son.