La figura alta e scarna di p. Santo Pizzocolo, che si aggirava silenziosa e sorridente tra le corsie dell'ospedale di Lacor (Uganda), era ormai diventata un simbolo di bontà, anzi, di tenerezza per gli ammalati, molti dei quali allo stato terminale causa l'AIDS.
Da molti anni ormai, da quando le forze non gli consentivano più le fatiche della prima linea, era diventato il cappellano dell'ospedale. E che cappellano! Sempre presente, sempre pronto e disponibile, sempre dolce e comprensivo. Nessun cristiano lasciò questo mondo senza il conforto dei sacramenti. p. Santo era irresistibile per quella carica interiore che gli veniva dalla grazia di Dio di cui era pieno, traboccante. Anche le sofferenze più atroci, con p. Santo accanto al letto, erano tollerabile e il paradiso, di cui parlava così bene come se ci fosse stato, diventava desiderabile per chi si vedeva sfuggire la vita.
Questo suo modo di fare non era assolutamente esibizionismo o professionalità, bensì profonda convinzione che si manifesterà splendidamente, quando arriverà anche per lui il momento supremo.
Un infanzia dura
Quarto di cinque fratelli, due maschi e tre femmine, p. Pizzocolo è nato a Villa di Castel Goffredo (Mantova) il 31 agosto 1915. La famiglia possedeva alcuni campi e una modesta osteria che consentiva alla famiglia un qualcosa di mezzo tra la modesta agiatezza e la dignitosa povertà. La presenza in casa di un paio di zii consentiva al nucleo familiare di mandare avanti la campagna e la stalla anche quando papà Bortolo dovette partire per la guerra che era scoppiata poco prima che Santo venisse al mondo. Nel 1919 il papà morì nell'ospedale militare di Mantova, distrutto nei polmoni dalle fatiche della trincea. Due mesi dopo, nacque l'ultima figlia.
Mamma Adelaide Ferrari, donna di grande fede e pari coraggio, si strinse attorno i piccoli orfani e, indicando il quadro della Madonna, disse: "Lei ci aiuterà a farcela. Il papà è morto come un santo, accettando dalle mani di Dio la disgrazia che si abbatteva sulla sua vita e sulla nostra famiglia".
Santo crebbe sereno, laborioso, piuttosto calmo, quasi timido. Quando arrivò all'età giusta, divenne chierichetto e compagno di giochi di tanti compagni che contribuirono a infondergli un po' di vivacità.
Dopo la messa domenicale, correva con i compagni all'oratorio dove don Aldo Moratti organizzava giochi sempre intessuti di saggi consigli e opportune preghiere. Alcuni di quei ragazzi, affascinati dalla sua gioia di essere prete, diventarono sacerdoti.
Dopo la sesta elementare a Casalpoglio, una frazione di Castel Goffredo, dove Santo diede prova di un'intelligenza superiore alla media, la mamma e gli zii, pur consapevoli dello sforzo al quale si sottoponevano, proposero al ragazzino di frequentare le medie ad Asola. Cosa che fece solo in parte perché il Signore aveva già messo gli occhi su quel ragazzino mite, remissivo di fronte alle intemperanze dei compagni, sempre disponibile al perdono e all'aiuto di chi era più povero di lui. La vocazione alla vita sacerdotale, intanto, andava delineandosi sempre più chiaramente e il parroco, don Francesco Orsatti, che aveva occhi lunghi quanto a discernimento dei suoi chierichetti, gli disse che, se voleva prepararsi agli esami di latino per entrare in seminario, gli avrebbe dato volentieri delle lezioni insieme a un altro ragazzo che voleva percorrere la stessa strada.
Studiare latino durante l'estate, quando il sole, l'aria, le ombre generose dei gelsi invitavano a dimenticare i libri e i quaderni, non era cosa facile. Eppure i due non sentirono eccessivamente la fatica, animati com'erano dal desiderio di diventare sacerdoti.
Prima dell'inizio del nuovo anno scolastico i due, Santo Pizzocolo e Pietro Chilesi, raggiunsero la villa delle vacanze del seminario a Sailetto e diedero il loro esame con ottimo risultato.
Un mese dopo (ottobre 1930), i due amici si trovarono nel seminario diocesano di Mantova con la veste talare indosso. Mamma Adelaide si sentì il cuore gonfio di gioia, ma si guardò bene dall'esprimerla esternamente per paura di influenzare il figlio. Intanto intensificava le preghiere e i sacrifici per la perseveranza del figlio e per pagare la retta mensile anche se, come orfano di guerra, godeva di una borsa di studio.
Ti seguirò
Dal seminario di Mantova, di tanto in tanto passavano missionari ardenti che parlavano di Africa con un entusiasmo tale di smuovere anche i più apatici. Nella bibliotechina le riviste e i libri che parlavano di missione erano i più logorati, il prorettore, mons. Carlo Calciolari, era un'anima aperta che accoglieva la vocazione missionaria in qualcuno dei suoi seminaristi come un segno della benedizione di Dio sul seminario e sulla diocesi.
Un giorno Santo manifestò all'amico Chilesi il desiderio di farsi missionario.
"E io ti seguirò", fu la risposta. Ma il Signore aveva disposto diversamente: Santo sarebbe partito e don Pietro Chilesi sarebbe diventato il missionario di retrovia che avrebbe sostenuto l'opera del compagno in una maniera che ha lasciato un segno indelebile tra i sacerdoti e la popolazione della diocesi di Mantova.
Il "ti seguirò", invece, risuonò sempre più chiaramente nel cuore e nella mente di Santo Pizzocolo. Un "ti seguirò" rivolto al Signore che lo chiamava alla vita missionaria. Intanto gli anni passavano. Le medie, i ginnasio, il liceo si sfilavano dalla sua vita di giovane sempre più deciso a portare il Vangelo in Africa.
Un giorno notò che il suo compagno, futuro don Rinaldo di Castiglione, aveva un bel crocifisso. Glielo prese e, al suo posto, lasciò un biglietto con scritto: "Lasciamelo, sarà il mio crocifisso di missionario".
Il padre spirituale, che gli aveva detto di andare adagio, di procedere con i piedi di piombo in una faccenda tanto importante, finalmente gli disse che ormai era giunto il momento di prendere la penna in mano per scrivere.
La prima lettera di Santo scritta al superiore generale dei Comboniani, porta la data del 3 gennaio 1937. Da essa ci si rende conto che il giovane è maturo...
"Dopo aver a lungo riflettuto sulla mia vocazione, mi sembra d'aver conosciuto che il Signore mi chiama all'apostolato missionario. In questo affare così importante e decisivo, non mi sono comportato con leggerezza, no: ho pregato molto il Signore perché mi illumini con la sua divina grazia, ho domandato consiglio, mi sono lasciato guidare dal padre spirituale. Credo, insomma, che basti ciò che ho fatto per essere certo che in questa mia decisione c'è la volontà di Dio...
Ho desiderato farmi missionario nella Congregazione dei Figli del Sacro Cuore ancora dalla terza ginnasiale, e questo mio desiderio aumentò sempre, tanto da diventare un tormento che non mi lascia mai. Il movente che mi spinge alle missioni non è altro che la salvezza delle infelici anime dell'Africa centrale. Però se l'obbedienza m'impedisse di avvicinarmi a queste anime, sarei pronto anche al sacrificio".
Poi aggiunge che ha già ottenuto il permesso dalla mamma e dai fratelli "i quali tutti mi lasciano libero anche se con un po' di rammarico".
Come un libro aperto
In una seconda lettera, datata 31 gennaio 1937, dice che, in un primo tempo desiderava farsi salesiano ma poi "ho visto che la vita salesiana non è confacente al mio carattere calmo e poco movimentato", Poi riassume i motivi che lo spingono alla vita missionaria: "La mia santificazione con l'esercizio di ogni virtù, specialmente di una mortificazione eroica e, se piacerà al Signore, con il martirio nel fiore degli anni. Il secondo per la conversione degli infelici africani che stanno per essere ancor più soggetti al demonio a causa di un'intensificata propaganda musulmana e protestante".
Parlando poi della sua pietà afferma: "Ho distrazioni, ma le caccio prontamente e in questi ultimi anni mi sono sforzato di raggiungere quel raccoglimento anche esterno che si addice a un ministro di Dio. Quanto alla castità, il mio padre spirituale mi assicura che non c'è mai stato nulla di grave, anche se alle volte sento forte la tentazione".
"Quanto al mio carattere, come le ho detto, sono calmo, serio, poco loquace e non facilmente entusiasmabile esternamente. è ben difficile che faccia un'azione senza il controllo della mia coscienza. Quindi quando faccio il male sono più colpevole degli altri, perché agisco ad occhi aperti. Inoltre, quando sorge qualche discussione tra due, io non mi schiero mai da una parte sola, ma cerco di dare un po' di ragione e un po' di torto a tutti e due. Questo modo d'agire ambiguo non è evangelico. Un altro lato poco buono del mio carattere è che, mentre sono disposto a fare atti eroici quando si tratta di cose importanti, per le piccole cose mi pare di cedere al mio egoismo. Nel libriccino che mi ha mandato c'è scritto che la condizione essenziale per il missionario è quella di farsi santo. Riguardo a questo, Padre, le do tutta la mia assicurazione: la santità per me non è soltanto un desiderio pio, ma una necessità della mia natura. Sento di non poter non essere santo, anche se lo volessi. Per questa faccenda ho posta tutta la mia fiducia nel Sacro Cuore e in Maria Santissima. Sono un po' tribolato dagli scrupoli, ma nella piena obbedienza al mio padre spirituale trovo serenità e sicurezza".
L'ultimo tocco
Nonostante questi buoni propositi e la sicurezza della sua vocazione missionaria, Santo sentì il bisogno di confrontarsi direttamente con i missionari. Ed ecco che il 19 aprile 1937, fece una visita in Casa Madre. E' interessante constatare l'impressione che ne ebbe. "... La mia permanenza di quel giorno nell'istituto mi riconfermò sempre meglio nel concetto che m'ero formato antecedentemente; dello spirito di carità fraterna che regna nella Congregazione dei Figli del Sacro Cuore. Glielo dico sinceramente: fu questo spirito di bontà verso il prossimo, notato non solo da me ma anche dai miei compagni, che mi indusse a scegliere la Congregazione dei Figli del Sacro Cuore, sicura che essa mi avrebbe preparato alla vita apostolica con cure più che materne, formando di me un vero apostolo, pieno di amore di Dio e del prossimo, pronto a dare la vita anche per l'infimo dei miserabili discendenti di Cam. Il missionario io l'ho sempre concepito come un martire della carità, come la copia più perfetta dell'Esemplare divino che morì in croce per la salvezza dei suoi fratelli. Nella scelta che ho fatto, credo di aver raggiunto il mio scopo".
Riteniamo inutile riportare la lettera di presentazione, scritta dal rettore del seminario di Mantova, mons. Calciolari, il quale, parlando "a norma dei sacri Canoni e graviter onerata mea conscientia", in se punti fa un autentico panegirico del seminarista Santo Pizzocolo. Parla delle sue virtù, della sua intelligenza, dello spirito di pietà e della vocazione missionaria "sicura perché provata dal tempo e dal superamento dell'affetto alla mamma alla quale è legatissimo anche perché è orfano di padre dall'infanzia. Ma l'amore per Cristo e per le anime sa vincere anche le sante esigenze del cuore". E termina dicendo: "La nostra diocesi è povera di clero, ma penso che Iddio ricambierà questo dono alle Missioni mandando altri santi sacerdoti a questa sua vigna".
Novizio impegnato
Conclusi brillantemente gli esami di terza liceo, la mamma, attaccatissima a quel suo figliolo, voleva tenerlo con sé fino ad ottobre. "Mi sembrano troppi tre mesi di vacanza - scrive Santo. - Che faccio a casa durante questo tempo se non dissiparmi?".
Il padre maestro gli dice di entrare in noviziato per l'11 settembre, ma già il 31 agosto Santo si trova a Venegono Superiore.
"Chi avrebbe potuto, non dico pretendere, ma soltanto pensare che io, dopo aver commesso tanti peccati, sarei stato chiamato dal buon Gesù a uno stato di perfezione sì sublime? Non mi rimane che adorare e ringraziare con umile, ma sincera riconoscenza la bontà infinita di Dio che ancora una volta ha voluto usarmi misericordia. Ed ora dichiaro che sono disposto anche alla morte piuttosto che non seguire la chiamata del Signore".
P. Antonio Todesco, maestro dei novizi, dopo sei mesi di noviziato scrisse: "E' bene intenzionato e di buona volontà. Ha ottenuto belle vittorie sul suo carattere chiuso e di poche parole, Agisce con persuasione e generosità nonostante". E alla fine dei due anni aggiunse: "Ha sempre continuato bene e con buona volontà; ha sempre proceduto con sentita convinzione e con generoso spirito di sacrificio; ha capito bene che cos'è vita religiosa e, nonostante qualche momento di scoraggiamento, è risoluto ad affrontare ogni difficoltà. Intelligente, riflessivo e di criterio. Non è uomo di molte parole, anzi è timido, ma molto serio e costante nei suoi impegni. Ha poca fiducia in se stesso, è umile, obbediente e semplice".
Il 7 ottobre 1939 emise la professione temporanea a Venegono. Nella lettera di domanda al p. Generale, esprime ancora una volta i suoi sentimenti di uomo di Dio: "Ho capito che la vita merita di essere vissuta solo per raggiungere la santità... Una irresistibile voce interna mi chiama ad essere tutto del Signore... Sento che se non mi faccio santo metto in pericolo la mia salvezza eterna... Ciò che mi spinge a fare domanda dei Voti non è altro che il vivo desiderio di raggiungere quella santità cui il Signore mi chiama e nello stesso tempo procurare la salute eterna a tanti africani...".
Insegnante preciso e paziente
Per la teologia Pizzocolo fu inviato a Roma dove prese la licenza in Teologia dogmatica. Dopo l'ordinazione sacerdotale che ebbe luogo a Roma il 4 aprile 1942, in piena guerra, iniziò la sua lunga carriera di insegnante. Fu a Rebbio di Come, dove si trovavano gli scolastici provenienti da Verona (1942-1945), a Verona-Venegono 81945-1953), a Sunningdale, Inghilterra dove studiò anche la lingua inglese in vista della sua partenza per la missione (1953-1956). Qui diede ottima prova di sé anche come direttore spirituale, aiutando i giovani che si preparavano alla vita missionaria.
Nel 1950 fu colpito da una seria forma di flebite tanto che i superiori dovettero chiede a Roma la facoltà di celebrare la messa stando seduto. Nel suo cuore pregava Dio che quel disturbo non gli compromettesse la partenza per la missione che sperava sempre imminente, anche se i superiori continuavano a fare orecchie da mercante alle sue richieste.
In Uganda
Finalmente, nel 1957 poté partire per l'Africa. Dopo aver imparato la lingua acioli fu destinato al seminario di Lacor, Uganda come insegnante, e vi rimase fino al 1962.
Cosa dicono di lui come insegnante. Parlano i testimoni della sua bontà, mitezza, scrupolosa precisione, della pazienza con chi non afferrava subito il concetto. "Non lo abbiamo mai visto arrabbiato o solo alterato neanche una volta. Anche con chi non era preparato non alzava la voce ma, con bontà e fermezza richiamava la grave responsabilità che ha un sacerdote, e più ancora un missionario che spesso si trova senza libri e senza consiglieri, di prepararsi bene.
Ma parlano di lui anche la ventina di quaderni, conservati oggi come reliquie da una nipote che li usa come libri di meditazione, con tutte le sue lezioni scritte in ottima grafia e con il massimo ordine e chiarezza. Quei quaderni, fotocopiati, sono stati distribuiti tra i parenti , tutti profondamente cristiani, per una sano nutrimento spirituale.
A Gulu fu formatore di sacerdoti africani e Dio sa con quanto amore e preoccupazione svolgesse questo suo compito. A Roma si celebrava il Concilio Vaticano II. Ad esso egli aveva preparato e poi introdotto i suoi alunni di teologia.
Il Provinciale, dando relazione dell'opera di p. Pizzocolo ai superiori maggiori, riferì del suo saggio e prudente aggiornamento conciliare in una zona tanto difficile. Testimoniò, poi: "E' fedele collaboratore, sincero e rispettoso, non però untore. Sa anche fare buone osservazioni in cui rivela molto buon senso pratico e insieme grande amore all'Istituto".
I suoi studenti, diventati sacerdoti diocesani, trovarono sempre in p. Pizzocolo una guida sicura, un consigliere, un amico, un direttore spirituale capace di aiutarli con discrezione e tanto amore.
Rientrato in Italia per le vacanze nel 1962, gli fu affidato l'incarico di direttore spirituale degli scolastici di Venegono Superiore fino al 1965.
Dopo alcuni mesi di ministero a Milano dove si dedicò soprattutto all'animazione missionaria nella casa comboniana di via Saldini, partì per l'Uganda.
Nel 1966 era di nuovo a Lacor-Amuru come parroco. Nel 1970 i superiori lo chiamarono di nuovo in seminario per portare avanti il suo carisma di insegnante svolgendo, contemporaneamente, il compito di rettore e di direttore spirituale, sia nel seminario minore come in quello maggiore. Poi fu ad Opit ('73-'75) come cappellano, a Gulu come parroco ('75-'77), ad Anaka, Namalu, Palenga, Amuro , Alero e in altri posti minori.Come parroco e missionario p. Pizzocolo seppe farsi tutto a tutti. Alcuni suoi viaggi apostolici nei villaggi del bosco duravano anche più di un mese. E le conversioni si moltiplicavano realizzando, così, il proposito che aveva fatto negli anni giovanili: "Mi faccio missionario per la mia santificazione e per la conversione degli infelici africani".
Scrive il p. Provinciale d'Uganda;:" P. Pizzocolo fu uomo di solidi principi, di costante preghiera, di fede e zelo. Fu piuttosto tradizionalista, se si vuole chiamarlo così, ma egli poneva tutte le sue certezze e la sua totale confidenza nell'Eucaristia e nella Madonna di cui era devotissimo. Teorie nuove e idee nuove non lo scossero mai, tuttavia alle volte mostrava la sua tristezza per la grande confusione di idee nell'insegnamento della dottrina cattolica. Egli non riuscì mai a comprendere e mai approvò le strane dottrine di certi "nuovi teologi".
Saper coinvolgere
Un uomo così silenzioso, così discreto e timido che non voleva disturbare nessuno, seppe animare missionariamente buona parte della diocesi di Mantova. A questo proposito ci sarebbe una lunga e meravigliosa pagina da scrivere. Ci limitiamo soltanto a dire che l'amico Pietro Chilesi (morto qualche anno prima dell'amico), non potendo diventare missionario di prima linea, lo divenne, eccome, rimanendo nelle retrovie. Diventato parroco di Barchi, trasformò la sua casa in base logistica dei rifornimenti per p. Pizzocolo prima e poi per altri due missionari mantovani: p. Giuseppe Valente e p. Antonio Soldà. Con l'impareggiabile sorella Maria don Chilesi creò un movimento di uomini e donne tutti protesi ad operare per le missioni d'Uganda. Per ben due volte andò a trovare l'amico in terra d'Africa superando una maledetta paura dell'aeroplano.
Scrisse p. Pizzocolo: "Don Pietro si prendeva a cuore i miei problemi e si industriava in mille modi per trovarmi benefattori. Grazie al suo interessamento molte missioni hanno potuto disporre di motociclette, auto, trattori, pezzi di ricambio, macchine da cucire, biciclette, gruppi elettrogeni, orologi, occhiali, pannelli solari, vestiti nuovi e usati, farmaci, oggetti per il culto e persino una bella statua della Madonna fatta appositamente scolpire ad Ortisei. Mi inviava anche denaro. Si trattava di somme non indifferenti, ma don Pietro sapeva commuovere il cuore di persone generose, sacerdoti mantovani, semplici cristiani... Le opere realizzate: dodici chiese, di cui due parrocchiali, lebbrosari, scuole, una ventina di casette in mattoni per lebbrosi, dispensari... le devo al novanta per cento alla collaborazione di don Piero".
Qualche mese prima di morire, p. Pizzocolo scrisse all'amico: "Mentre ti scrivo mi viene una richiesta dalle scuole secondarie di 50 letti in ferro per gli studenti che dormono per terra. Si tratta di una spesa di 6 milioni... Come vedi, i soldi che mi mandi non vengono spesi in birre, ma per aiutare questi poveri africani. E tutto sia per la gloria di Dio e la salute delle anime".
Mamma Adelaide
Se p. Pizzocolo era il motore per imprimere sempre nuovo impulso missionario alla sua diocesi, mamma Adelaide era il carburante che teneva su di giri questo Motore.
Dice la nipote Luigina: "Nonna Adelaide era una santa. Io ho dormito per molti anni nella sua camera per farle compagnia. Di giorno e di notte, d'estate e d'inverno, la trovava spesso inginocchiata per terra, rimanendovi lunghe ore in preghiera per il suo figlio missionario. Sapeva che in Uganda c'era la guerra, che dei missionari erano stati uccisi e non voleva che il suo Santo facesse la stessa fine. Andò a piedi, tutto a piedi, al santuario della Madonna di Caravaggio e a quello di Monte Berico per intercedere per il figlio. Ma poi aveva anche un'altro desiderio: chiedeva al Signore che facesse andare le cose in modo da averlo accanto nel momento della morte. Il Signore l'ascoltò, sia salvandogli la vita in Africa anche quando dovette fuggire su di un monte tirandosi dietro tremila bambini, sia quando i soldati di Amin lo minacciavano con le armi. ''Sono isolato dal mondo, pazienza, l'importante è non essere isolati da Dio'' ci scrisse dopo quelle terribili esperienze. ''E la prima cosa che ci chiedeva erano sempre le preghiere'' Ultimamente, sentendo la morte vicina, ci scongiurava di non portarlo in Italia. ''Fatemi questa carità - diceva - lasciatemi in Africa''.
Il secondo desiderio si avverrò proprio nel 1970, tre giorni prima della partenza per l'Africa del figlio. Devo anche dire che p. Santo per la nostra famiglia è sempre stato come il consigliere, il patriarca, colui che dava a tutti il consiglio giusto e che assicurava la sua preghiera per tutti. E posso dire che è stata una preghiera efficace".
Con chi soffre
Quando la salute cominciò a perdere colpi, p. Pizzocolo venne assegnato come cappellano dell'ospedale di Lacor. Tra le sue carte troviamo ben due diplomi riguardanti la medicina, uno conseguito a Verona in infermieristica e un secondo di Medicina e Chirurgia d'Urgenza del Sovrano Militare Ordine di Malta, conseguito a Roma.
Le nozioni che aveva apprese in gioventù, gli vennero buone per sollevare dalle loro sofferenze tanti malati, sia nella vita missionaria, sia quando era presso l'ospedale. Ma la cosa che maggiormente ha colpito sono stati i corsi di catechetica che organizzava nelle corsie. Tra tutti gli ammalati, aveva una cura tutta particolare per gli ammalati di AIDS nei quali spesso affiorava un sottile senso di disperazione.
Mons. Comboni aveva sentito come sua porzione prediletta i "più necessitosi". P. Pizzocolo è stato segno chiaro, testimone fedele di questa predilezione per gli ultimi. Come Comboni, inoltre, amò fino in fondo l'Africa e gli africani tanto da chiedere come un favore di restare tra loro anche dopo la morte. Questo amore è stato preceduto da un profondo senso di stima concretizzatasi nelle decine di sacerdoti ugandesi usciti dal suo cuore. Ancora come Comboni fu "uomo di Chiesa", uomo che amò la Chiesa tanto da inquietarsi, lui così equilibrato, solo quando ne vedeva messa in discussione qualche suo principio dai teologi delle novità.
Morire per l'Africa, morire in Africa fu il suo sogno che trovò esaudimento il 3 novembre 1992, proprio nell'ospedale dove tanto aveva lavorato, dopo un ultimo attacco di cuore.
Il funerale è stato celebrato nella Cattedrale di Gulu presente il vescovo diocesano, molti missionari, suore e soprattutto sacerdoti e fedeli africani. Poi la salma è stata tumulata nel cimitero di Gulu, nel reparto riservato ai missionari comboniani.
Nello stesso giorno, anche nella Cattedrale di Mantova si svolgeva analoga cerimonia presieduta da mons. Denti, concelebranti sacerdoti diocesani e comboniani con notevole partecipazione di fedeli. Nell'omelia è stata ricordata la figura e l'impegno del Padre nelle varie tappe della sua vita. Tutti hanno avuto la percezione di aver perso un grande amico in terra ma di aver acquistato un patrono in cielo.
Non è facile parlare di lui
Le testimonianze pervenute da Castel Goffredo sono molte e significative. "Mai ho avvertito tanta perplessità nel parlare di una persona conosciuta, ammirata, amata, senza rischiare di urtare la sua sensibilità, la sua quadratura, la sua umiltà, il suo senso della realtà, la sua capacità di capire ogni dramma umano. Il tutto nella convinzione che non lui, ma Dio operava in lui. Come parlare di uno che ha sempre mostrato volontà di nascondimento? Il suo era un discorrere lento, sommesso, che costringeva l'interlocutore a seguire il suo ragionamento; controllatissimo, dimesso di modi e di parole, che partiva sempre dal concreto, dall'essenziale e che arrivava al cuore attraverso la mente..."
"Padre Santo, una delle poche vere ricchezze di Castel Goffredo, quelle che contano, quelle che su ogni registro a partita doppia hanno, in entrata, un gran peso per pareggiare uscite anche pesanti. Egli fu colonizzatore (nel senso buono) prima ancora che apostolo. Ricordo quella foto che lo ritrae alla guida di un trattore, e quella in cui assiste, in mezzo alla sua gente, allo sgorgare dell'acqua dal pozzo artesiano, perché aveva chiaro in mente che l'uomo va sollevato dalla sua indigenza, va liberato dalle varie schiavitù, va sfamato, prima, se vogliamo che capisca, poi, i discorsi a livello di anima, di Dio, di Vangelo...".
"L'Africa fu la sua terra di elezione, ed all'Africa diede tutto di sé fino ad affidarle, con la massima determinazione, anche il suo corpo, dopo averle dato l'anima, il cuore e tutte le sue energie fino all'ultima stilla".
"Eravamo nel 1956: Un piccolo gruppo di amici, riuniti in canonica, ricevevamo una sua benedizione prima dell'imminente partenza per l'Africa. Fu un momento indimenticabile, di grandi propositi di essergli vicino con la preghiera e con l'aiuto. Solo dopo ci siamo accorti che quel momento non è stato un dono per lui, ma un dono per noi, perché nei lunghi anni di missione ci ha cambiati, con poche e semplici parole, col suo esempio di dedizione totale, con la sua discrezione".
"Fu in Africa in un periodo non certamente tranquillo - ma quando mai c'è stata o ci sarà tranquillità in Africa? - colpi di stato, lotte tribali, incursioni notturne, imboscate, saccheggi, atti vandalici, pericoli continui... I poveri che mandano vestiti e medicine, i governi che mandano armi, e il missionario in mezzo a pagare spesso con la vita il suo amore alla giustizia, alla pace. Pertanto anche il nostro Padre si ritroverà tante volte a ricominciare daccapo perché derubato di moro, di bicicletta, di tutto quanto poteva essere vitale per la vita della missione, e lo fece sempre con incrollabile fiducia in Chi permette la prova, ma non ti lascia solo nella sofferenza. Missionari uccisi, missionari espulsi, missionari che attendono il permesso di rientro che non arriva. P. Pizzocolo, per non correre questo rischia, si rifiuta di lasciare l'Uganda finche non ha in mano il permesso di rientro. E' troppo preziosa quella terra che un poco alla volta lo sta uccidendo. Eppure questo spremersi per portare Cristo all'Africa - degno figlio di Comboni - non tolse mai il suo amore alla patria d'origine, al paese, agli amici, ai familiari. Con tutti condivise gioie e dolori. Più di uno ricorse a lui in momenti di difficoltà o di disperazione. La sua parola calma, rassicurante, certamente corroborata dalla grazia di Dio, scendeva come olio sulle ferite e riportava serenità e equilibrio... ''La sofferenza è l'unica moneta che ti può arricchire. Non buttarla'', sussurrava. Di fronte a tanta sapienza ci si sentiva sempre più piccoli, come la sua morte ci ha fatto sentire più poveri. Lo so, ci manca solo alla vista ma anche l'occhio vuole la sua parte...".
"Il miglior commento alla vita di p. Pizzocolo è il silenzio. A certi uomini s'addice il silenzio, non le parole. Dell'entità di un bene ci si accorge solo al momento in cui non c'è più ed è allora che ci si sente invadere dentro da sentimenti forti, alle volte contrastanti, di rimpianto, di rimorso, di riconoscenza, di smarrimento, di orgoglio, di speranza, ma fortunatamente anche di rinnovata volontà di riprendere il cammino sulle orme dello scomparso. Quante cose ci sarebbero da dire, non per lui che fu sempre insofferente ad ogni forma di plauso, ma per noi perché il suo insegnamento ci tenga svegli dal torpore in cui è sempre facile, ed anche comodo, cadere".
Terminiamo queste testimonianze con una di un confratello: "E' vissuto come comboniano per 53 anni, non solo approfondendo la sua identità di religioso, ma diventando maestro e guida di molti giovani che incontrò come in segnante, padre spirituale, consigliere, amico. P. Pizzocolo a una pietra miliare che si aggiunge ad altre pietre che onorano la nostra Congregazione e la Chiesa, e che ci infondono speranza e coraggio anche negli inevitabili momenti di abbassamento di tensione". "Finché ci sono uomini come Pizzocolo - ha detto il vescovo di Mantova - l'Istituto comboniano può camminare a testa alta, senza paura delle bufere che di tanto in tanto lo scuotono".
Lo scuotono, sì, ma solo per fargli affondare ancor di più le radici nel terreno, come succede per le piante di razza. Grazie p. Pizzocolo.
P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 179, luglio 1993, pp. 51-58