In Pace Christi

De Angelis Pietro

De Angelis Pietro
Data di nascita : 09/01/1914
Luogo di nascita : Massignano AP/I
Voti temporanei : 07/10/1934
Voti perpetui : 07/10/1939
Data ordinazione : 09/06/1940
Data decesso : 16/09/1992
Luogo decesso : Verona/I

Massignano è un paese di circa 1.500 abitanti a pochi chilometri dall'Adriatico. Lì, il 9 gennaio 1916 è nato p. Pietro. Papà Pio e mamma Polidori Maria erano coltivatori diretti. Possedevano un piccolo podere che coltivavano con perizia e amore per trarne il maggior profitto possibile e nella stalla allevavano un po' di bestiame.

La famiglia De Angelis era considerata benestante in paese anche se, in realtà, bisognava misurare tutto per sbarcare il lunario. Le cose si fecero più serie quando, il 9 novembre 1920, il papà venne a mancare stroncato dalla polmonite. Lasciava quattro figli, il maggiore dei quali aveva 12 anni, seguito da una sorella di 10, Pietro di sei e l'ultima di cinque mesi.

La prova durissima fu superata grazie alla fede che sosteneva e alimentava la famiglia. "I nostri genitori - scrive Francesco, il maggiore dei quattro - erano religiosissimi. La mamma ci intratteneva con la lettura della vita dei santi e, alla sera, si concludeva la giornata con la recita insieme del santo rosario. Terminata quella preghiera soleva esclamare: 'Ho chiuso la giornata'. Ogni volta, dopo aver fasciato i piccoli, faceva su di loro il segno della croce, accompagnando il gesto con le parole: 'buono e santo'".

La vocazione

Massignano ebbe la fortuna di avere due parroci santi. Il primo, don Simmaco Virgili, parente della mamma di p. Pietro, era uomo di intensa preghiera e di fine carità specie nei confronti dei poveri che battevano numerosi alla sua porta. Il successore, don Armando Corallini, si mise sulla pista del predecessore. Questi notò subito nel chierichetto Pietro i segni evidenti della vocazione sacerdotale.

Durante un'infezione di tifo che colpì tutti in casa De Angelis, l'unico ad essere risparmiato dal male fu proprio Pietro che si trasformò in un validissimo infermiere. "Anche i parenti e gli amici - scrive il fratello Francesco - si guardavano bene dal mettere piede in casa nostra per paura del contagio. L'immunità dal male fu letta da Pietro come un segno che il Signore lo voleva tutto per sé".

Infatti, terminate le elementari, lasciò la casa, la mamma, i fratelli, ai quali era legatissimo, e i compagni e partì per il seminario diocesano di Fermo. "Noi e i compagni - ricorda il fratello - abbiamo perso un vivace animatore dei giochi. Pietro, infatti, era intraprendente, pieno di fantasia e dal cuore buono, ma proprio buono. Piuttosto calmo, non litigava mai ed era rispettoso e obbediente. Quando bisticciavamo, era il primo a farsi avanti per ristabilire la pace invitando tutti a un bel gesto di perdono".

Il problema della retta mensile divenne un vero problema ma, un po' il parroco, un po' la famiglia che affrontò notevoli sacrifici per questo scopo, un po' la comprensione dei superiori, consentirono a Pietro di andare avanti con serenità.

Dotato di buona intelligenza e di ottima volontà, si applicò negli studi tanto da riuscire più volte uno dei migliori della classe conseguendo anche la medaglia d'argento. La sua pietà trasudava gli insegnamenti e gli esempi materni.

Durante le vacanze, il seminarista Pietro non si vergognava a recarsi nel campo con i fratelli e la mamma per dare una mano che, di anno in anno, era sempre più valida perché cresceva forte e robusto.

P. Pietro stesso raccontava due fatti che avevano avuto qualche attinenza con la sua vocazione missionaria. Il primo è questo: i compagni, chissà perché, lo avevano soprannominato l'Africano. Il secondo è quest'altro: un giorno andò con la mamma in pellegrinaggio alla Madonna di Loreto. Giunto sulla piazza, si vide venire incontro un frate che lo guardò con dolcezza e poi gli stampò un bacio sulla fronte, dicendogli: "Il Signore ti ama di un amore tutto particolare". Quelle parole gli rimasero impresse nel cuore anche se non sapeva trarne una spiegazione.

Nel seminario di Fermo arrivavano le riviste missionarie che Pietro leggeva con sempre maggiore interesse; poi passò anche il missionario che parlò di coloro che non conoscono il Vangelo e che attendono qualcuno che parli loro di Cristo.

"Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo, battezzate... Chi salva un'anima ha predestinato la sua...". Pietro beveva quelle parole e si sentiva muovere dentro di santo entusiasmo. Ed ecco la crisi, la salutare crisi che sarebbe sfociata nella vocazione missionaria.

Il p. spirituale lo mise alla prova presentandogli la situazione della sua famiglia. "Quando avrai una parrocchia, la tua mamma verrà con te e ti aiuterà, ti starà sempre vicina...". Queste parole facevano luccicare gli occhi a Pietro, perché amava immensamente la mamma, però trovava la forza di rispondere: "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me".

"Ricevetti la notizia della sua uscita dal seminario diocesano per entrare tra i Comboniani mentre ero a Roma tra i granatieri per il mio servizio di leva - scrive il fratello. - Egli si rivolgeva a me perché, oltre  ad essergli fratello, gli ho fatto anche da padre. Gli risposi che doveva ritenersi libero di seguire la sua strada. La mamma, al mio ritorno a casa, mi raccontò che un giorno il rettore la chiamò in seminario. Ella vi andò con molta ansia pensando che fosse successo qualcosa. Quando il rettore le chiese il consenso per la partenza del figlio che era minorenne, la povera donna rimase senza parola non sentendosi di permettere al figlio di andare in mezzo ai pagani e alle bestie feroci. Così si vedeva allora l'Africa. Il rettore, allora, disse: 'Il figlio è contento, la mamma no! Come la mettiamo?'.

Pietro, tirando fuori tutta la forza di cui disponeva, aggiunse: 'Mamma, se non mi permetti di partire adesso, partirò quando sarò maggiorenne, perché è il Signore che mi chiama'".

Tornata a casa, mamma Maria si recò immediatamente dal parroco a manifestare la sua pena. Le pareva di aver disgustato il Signore non avendo pronunciato subito il suo sì generoso.

"Per una cosa così importante, impegnativa e improvvisa - le rispose il parroco - non potevi dare una risposta immediata". Dopo aver riflettuto, la donna disse il suo sì tanto generoso quanto sofferto. E alle amiche che la rimproveravano per quel consenso, ripeteva le parole del figlio: "Se il Signore lo chiama, Pietro deve fare la sua volontà".

Sacerdote-educatore

Anche le sorelle Angela e Giuseppina, impegnate attiviste nell'Azione Cattolica, si sentirono onorate per la scelta che il Signore aveva operata nella loro famiglia, e promisero che avrebbero seguito il fratello con la preghiera, sia negli anni di formazione, sia quando si sarebbe trovato in missione. Insomma, la vocazione di Angelo divenne una questione di famiglia che vide tutti coinvolti.

Il rettore del seminario di Fermo scrisse: "Posso attestare che Pietro ha buone qualità morali ed inclinazione alla vita ecclesiastica. E' giovane di pietà distinta, ubbidiente e diligente... Da parte mia sono contentissimo che il Signore lo chiami all'apostolato tra gli infedeli. E' da qualche anno che coltiva questa idea e si è mostrato sempre serio e zelante. E' membro attivo del gruppo missionario del seminario...".

Il 16 luglio 1932, a 18 anni, Pietro De Angelis entrava nel noviziato di Venegono Superiore dove faceva la prima professione il 7 ottobre 1934.

Tra le sue carte mancano le osservazioni del p. maestro, tuttavia, dalla richiesta per emettere la professione, notiamo che era animato da sentimenti di amore alla vocazione, alla congregazione e alla vita missionaria.

Un altro fatto ci garantisce che Pietro è stato un novizio maturo e responsabile: appena emessi i Voti, invece di andare a Verona con i compagni, fu dirottato a Troia come assistente dei giovani seminaristi e, insieme, studente di liceo e di teologia. La casa di Troia era ancora illuminata dalla presenza di p. Bernardo Sartori che, proprio in quell'anno, salpava per l'Africa. Non è facile essere eredi di un santo. Pietro, tuttavia, si comportò in modo da non far rimpiangere ai ragazzi e alla gente il grande missionario che li aveva lasciati.

Schietto, sincero, riflessivo, capace di conoscere le persone, si dimostrò un validissimo educatore che si fece stimare dai suoi alunni.

Al termine dei suoi studi, andò a Verona per essere ordinato sacerdote. Ciò ebbe luogo il 9 giugno 1940, quando già i fuochi della seconda guerra mondiale divampavano in Europa.

"A Massignano ci fu festa grande per la prima messa che ebbe luogo il 16 dello stesso mese - scrive il fratello. - Tutti ci aspettavamo che, al termine del sacro rito, ci annunciasse la data della partenza per l'Africa. Invece, con un velo di amarezza, ci disse che per l'Africa c'era ancora da aspettare poiché la guerra aveva chiuso le vie di comunicazione". Così venne dirottato nuovamente a Troia dove rimase per cinque anni come insegnante e altri due come superiore. Aggiunti ai sei precedenti come studente e assistente fanno tredici.

Questa lunga permanenza in una stessa casa è un altro segno del suo esemplare comportamento e delle sue capacità educative. Con i ragazzi p. De Angelis si trovava bene, sempre per quella bontà di cuore che si manifestava in ogni sua parola, in ogni sua azione.

Ma giustamente scalpitava per andare in Africa, invece, dal 1943 al 1953, dovette sorbirsi altri sei anni di superiorato e di insegnamento a Pesaro. Dobbiamo dire che molti missionari comboniani di oggi ebbero come formatore p. De Angelis, e tutti serbano di lui stima e venerazione.

Missionario in Sudan

"Sto diventando vecchio, come farò a imparare le lingue africane?", scrisse ai superiori.

"A 39 anni non si è vecchi - gli rispose il p. generale - tuttavia stiamo pensando anche a lei" (allora ci si dava del lei).

"Il giorno prima di lasciare l'Italia, a Massignano, nella chiesetta della pievania, il parroco don Armando Corallini gli consegnò il crocifisso perché lo portasse in Africa a nome anche della comunità parrocchiale che si sentiva missionaria con il suo missionario", annota il fratello.

Così, nel luglio del 1953, troviamo p. De Angelis a Yubu nel Sud Sudan. Erano i tempi duri del dopo guerra quando in missione mancavano tante cose e i sacrifici erano pane quotidiano. Inoltre proseguiva quell'esplosione di opere che era iniziata con l'arrivo delle nuove leve seguìto alla fine del conflitto.

Dopo pochi mesi come vice parroco, p. De Angelis divenne superiore locale della missione. Vi rimase fino al 1960.

Sono contento di tutto e di tutti

Dall'Africa cominciarono ad arrivare lettere agli amici e alla parrocchia. Il parroco leggeva quei messaggi traboccanti entusiasmo missionario ai fedeli. "Il tema di fondo - è sempre il fratello che parla - era la gioia. Era contento di tutto e di tutti. E poi chiedeva preghiere, perché le anime si convertono con la preghiera e con il sacrificio. Insomma, anche dall'Africa, continuava a farci una buona catechesi. E quando veniva in vacanza, non vedeva l'ora di ripartire. A chi gli diceva di restare ancora un po', rispondeva che aveva il biglietto di ritorno in scadenza. Il bocconcino più amaro, al momento della partenza, era sempre la mamma che, ogni volta, gli ripeteva: 'Quando ritornerai, verrai a pregare sulla mia tomba'. 'Non dire così, mamma - rispondeva lui'. Ciò gli capitò dopo il suo ritorno dalla Repubblica Centrafricana, essendo la mamma morta nel 1971".

La sua predilezione erano i safari. Si sentiva pienamente realizzato quando poteva inforcare la bicicletta e via per i villaggi a incontrare la gente. Apprese subito lo stile africano del "non aver fretta". Si sedeva accanto ai vecchi, parlava con loro, ascoltava le loro storie e risolveva, per quanto gli era possibile, i loro problemi. Ma anche la lunga esperienza vissuta tra i ragazzi di Troia e di Pesaro gli venne buona. Infatti si trovava altrettanto a suo agio con i ragazzi che divennero ben presto i suoi maestri. Imparò la lingua zande alla perfezione e si adeguò agli usi e costumi della gente diventando uno di loro.

Intanto sviluppava le opere anche perché, con l'indipendenza del Sudan (1/1/1956), appariva chiaro che le cose si mettevano al brutto.

Una testimonianza di p. Simoncelli del 1955 dice: "Metodico, di intensa attività e di preghiera, cordiale e corretto con tutti, sa incoraggiare i confratelli. Ha molto zelo per il bene delle anime ed altrettanto interesse per lo sviluppo delle opere. Con le autorità ha un contegno esemplare. Buono, esigente con se stesso e indulgente con gli altri. E' un po' troppo... economico".

Il giudizio del 1958 di p. Remo Armani, futuro martire dello Zaire, suona così: "Mi dà l'impressione del perfetto religioso. Uomo di pietà, di osservanza esemplare, lavoratore indefesso, prudente, riflessivo; nella circoscrizione di Mupoi sarebbe il più adatto a ricoprire la carica di superiore regionale".

Infatti, dal 1960 al 1964 coprì questa carica da Mupoi dove c'era la sede del p. regionale.

P. Benini, che fu suo suddito in questo periodo, afferma: "Se dovessi delineare la personalità di p. De Angelis con una parola, direi 'rettitudine'. Qualche volta dovette affrontare l'ingrato compito, proprio ad ogni superiore, di fare qualche richiamo, ma con quanto garbo, con quanta carità e con quanta preghiera fatta prima, lo faceva. Amava i suoi confratelli e li stimava, e sapeva dire a ciascuno la parola di incoraggiamento che diventava approvazione o stimolo. Eravamo negli anni in cui ogni missionario, per le note vicende che precedettero l'espulsione dal Sudan e il clima di persecuzione, dava il massimo di se stesso per evangelizzare, per battezzare, anche perché i cosiddetti pagani, impauriti dal cambiamento, si riversavano in massa nella Chiesa cattolica per trovare rifugio e salvezza. P. De Angelis accoglieva, incoraggiava, sosteneva chi mostrava segni di stanchezza o di logoramento. Insomma, fu un grande uomo e un grande missionario. Come superiore soffrì più di noi tutti; fu maltrattato e minacciato dalle autorità, ma la gente che lo sentiva come un padre era attaccatissima a lui che ormai era considerato come un membro della tribù. Oggi si parla di incarnazione, di inculturazione... P. De Angelis, e tanti altri missionari, l'hanno realizzata davvero".

"Quando fu espulso dal Sudan ai primi di marzo del 1964, arrivò in paese con sandali e veste bianca. Fu accolto come un martire, e lo era davvero, perché si leggeva sul suo volto la grande sofferenza per aver lasciato quello che ormai considerava il suo popolo. Eppure in Sudan era stato imprigionato e maltrattato per ordine delle autorità musulmane. Lo avevano cacciato così in fretta che non aveva avuto neppure il tempo di prendere con sé gli indumenti personali, ma egli non parlava mai di queste cose; noi le abbiamo sapute da altri", scrive il fratello.

Resta solo il sogno

Dopo alcuni mesi di vacanze a Pesaro, p. De Angelis venne inviato come superiore e insegnante a Sulmona. Vi rimase dal 1964 al 1969. In questo tempo si adoperò per la costruzione della casa delle suore. Allora non immaginava quale fine avrebbe fatto quel seminario missionario.

Dobbiamo dire che l'aria d'Italia ormai non era più la sua aria, per cui sollecitava i superiori di poter partire tra i primi quando le porte del Sudan meridionale si fossero aperte. Su questo argomento abbiamo una serie di lettere che mettono in risalto l'anelito apostolico e l'amore per gli africani di questo missionario.

Finalmente si intravvide la possibilità, se non di tornare in Sudan, che doveva rimanere un sogno per tutta la sua vita, di andare con la sua gente che era fuggita nella Repubblica Centrafricana. "Sono gli Azande che io conosco bene. Conosco bene la loro lingua. Sono profughi e fuggiaschi; credo che potrò essere ancora molto utile a loro".

Ed eccolo, alla fine del 1969, a Parigi per lo studio del francese dato che nella Repubblica Centrafricana la lingua ufficiale era proprio il francese. A 55 anni dovette mettercela tutta per imparare un po' di grammatica e di vocaboli francesi. Ma il desiderio di partire era così intenso che gli rese più leggera la fatica.

Nuovamente tra gli Azande

Dal 1970 al 1973 fu a Mboki-Bazia come superiore locale e parroco.

"Mi trovo ancora qui a Mboki - scriveva nel 1971 - ma presto mi trasferirò nella nuova missione di Bazia tra i rifugiati sudanesi, per assistere quelli che sono già là e quelli che continuano ad arrivare. Ora là sta sorgendo una scuola elementare, un dispensario e anche la missione, che disterà da Mboki 25 chilometri. L'unica difficoltà è quella dei trasporti del materiale per le costruzioni e per i rifornimenti, essendo le strade proprio mal messe".

Il suo stile missionario era quello di un tempo: visite alla gente e stare il più possibile con essa. Passava di villaggio in villaggio, si fermava nelle capanne a parlare con gli anziani, radunava i ragazzi e i giovani per la catechesi e per i sacramenti. E i frutti del suo lavoro non mancavano. L'occhio e il cuore, però, erano costantemente rivolti al Sudan.

Scrivendo dalla nuova missione di Bazia nel 1972 afferma: "Ci è giunta la notizia  delle trattative per la pace nel Sudan. Con la pace anche la gente tornerà e qui resteranno pochissime persone. Potremo tornare anche noi? Io faccio fin d'ora domanda di poter tornare nel Sudan appena possibile insieme ai primi gruppi. Penso, infatti, che sia bene che qualcuno accompagni i rifugiati al loro rientro. Questo è il mio pensiero e il mio desiderio". Si sentiva un nuovo Mosè che, a capo del suo popolo, tornava nella terra promessa.

Alla fine dell'anno tornava sullo stesso argomento dicendo che se non era possibile tornare in Sudan sarebbe andato anche nello Zaire, pur di restare tra gli Azande di cui conosceva lingua e costumi. Diceva questo nel timore di restare senza popolo una volta che si fossero riaperte le frontiere per i rifugiati. "Che se poi gli Azande restassero in Repubblica - aggiungeva - io resterei volentieri con loro".

P. Agostoni lo assicurò che lo avrebbe mandato comunque tra gli Azande. E questa fu gioia grande per p. De Angelis che sentiva quel popolo come il suo popolo.

Nel 1973 fu inviato a Zemio come economo locale. Tuttavia il primo e principale lavoro di p. Pietro fu l'evangelizzazione. Ormai sentiva che non poteva essere che missionario nel senso più profondo della parola.

Nel 1975 lo troviamo ad Obo. Da una sua lettera al p. generale traspare una certa amarezza "per essere stati dimenticati dalla Congregazione. Non sappiamo nulla del Capitolo, e solo da un telegramma spedito da Bangui abbiamo saputo della sua rielezione".

"Non siete dimenticati, sono brutti scherzi delle poste", lo consola p. Agostoni. Questo desiderio di sapere, di essere aggiornato, dimostra un grande amore e attaccamento alla Congregazione. Amore e attaccamento che sono stati messi in risalto da molti confratelli che sono stati con lui.

Bisogna scalare una marcia

P. Luciano Benetazzo, provinciale, scrivendo da Bangui nel 1979 al vicario generale dice: "A Zemio si pone il problema di p. Pietro de Angelis che, a 65 anni, è ancora il missionario della Brousse. Le distanze sono grandi, le strade sono quel che sono... Onestamente mi pare che non si possa più chiedere a un confratello di quella età uno sforzo simile. Mi è capitato di vederlo rientrare da un safari. Era distrutto. Lui non si lamenta, non parla, perché nel suo zelo vorrebbe fare anche di più. Ma siamo noi che dobbiamo scalargli una marcia. Penso che a Obo potrebbe dare un ottimo apporto per la vita di tutta la comunità missionaria, occupandosi nel medesimo tempo di tutti i poveri e gli ammalati (che occupano un posto di predilezione nel suo cuore) sia al centro, come nei villaggi non lontani. Quindi occorre uno che lo rimpiazzi".

Non la forza fisica, ma l'entusiasmo e l'amore per la missione lo sostennero ancora per tredici anni. Anni intensi, vissuti nella preghiera e nel ministero a contatto con la gente e con gli ammalati dell'ospedale.

Di tanto in tanto, si faceva vedere in Italia per brevi vacanze e poi tornava al suo posto di lavoro.

"Nel 1990 abbiamo festeggiato il suo 50ø di sacerdozio - scrive il fratello. - Tutto il paese ha partecipato alla festa e fu una cosa veramente sentita da tutti. L'anno dopo, a Cupramarina, una rivista locale gli assegnava il premio speciale 'Prima Pagina' per aver diffuso la fede  tra i popoli che non conoscono il Signore e per aver contribuito efficacemente alla promozione umana dei medesimi. Io andai a ritirare il premio al suo posto trovandosi, lui, nella Repubblica Centrafricana".

Un regalo del Signore

Non era giusto che un missionario di questa tempra morisse senza rivedere la terra dei suoi sogni, il Sudan. Egli stesso scrisse da Zemio ai familiari in data 10 giugno 1992: "Il 24 maggio sono andato a fare una visita al Sudan, a vedere le mie vecchie missioni. Il territorio che ho visitato è in pace, ma in altre parti c'è la guerriglia. Non ero solo, ma in tre e non abbiamo avuto fastidi, solo molti controlli militari lungo la strada. Abbiamo portato un po' di aiuti a quei missionari che sono là ed anche alla popolazione, ma ci vorrebbero tanti camion, mentre noi avevamo appena una tonnellata di viveri. Là mancano le cose più indispensabili. Non ci sono sale, sapone, fiammiferi, vestiti e medicine... Fanno proprio compassione. Naturalmente non c'è luce elettrica e neanche il petrolio per le lampade.

Ho trovato tanta gente che mi conosceva e si ricordava di me. Quando per la strada mi fermavo, davo loro un po' di medicine (aspirine, antimalarici, antibiotici) erano molto contenti. Si accontentavano anche di una scatola di fiammiferi, di un quaderno, di una matita. Là c'è la miseria più assoluta.

Sono rimasto nel Sudan sei giorni. Non molti, ma sufficienti per vedere la realtà di quello che è chiamato 'il nuovo Sudan'. La gente è tranquilla e contenta, anche se soffre la miseria. Molti giovani sono entrati nella guerriglia per liberare il loro paese dall'oppressione araba musulmana. Se non ci fosse la guerra non ci sarebbe neanche la fame perché la terra è generosa.

Io sto bene. La stanchezza per il lungo viaggio in Sudan è passata. E' rimasto solo il dispiacere per tanta miseria, e la gioia di aver visto tanti cristiani che avevo conosciuto e battezzato tanti anni fa. Questo viaggio è stato proprio un dono del Signore".

P. Benini, che lo accolse a Nzara in Sudan, dice: "Che festa! Celebrò messe, predicò, s'intrattenne con la gente che gli si strinse attorno come i figli con il vecchio padre. Visitò i seminaristi e i sacerdoti africani. Ha sempre avuto una predilezione per il clero indigeno. Ricordo che p. Mathew, vicario generale della diocesi di Tombora-Yambio, disse: 'P. Pietro mi ha salvato la vocazione; gli serberò riconoscenza eterna'. Prima di salire in macchina per tornare nella Repubblica Centrafricana, mi disse: 'Io, tutta questa gente, me la porto in cuore'".

Padre e maestro

Quel viaggio ha rappresentato l'ultimo sguardo del vecchio patriarca alla terra promessa. Poco dopo, infatti, dovette essere portato d'urgenza in Italia perché la salute, già precaria, precipitava.

"Giunto in Italia in condizioni gravissime con blocco renale, pleuropolmonite e febbre malarica al alto rischio - scrive il Notiziario della provincia italiana - venne ricoverato urgentemente in geriatria a Borgo Trento. Pur nella sua grave condizione, manifestava la gioia di essere missionario emanando una forte carica di entusiasmo che contagiava quanti lo avvicinavano.

Giorno dopo giorno, le sue condizioni si aggravarono sempre più. Continuamente assistito dai suoi familiari, il giorno 16 settembre alle ore 6,30 serenamente rendeva la sua bell'anima a Dio".

"Lo abbiamo stimato e amato tutti - scrive il p. provinciale Antonio Berti - sia noi missionari che i suoi Azande. Quando lasciò Zemio, il vescovo gli scrisse una bella lettera dalla quale traspare la considerazione e la venerazione in cui il Padre era tenuto. E quando abbiamo annunciato per radio la sua morte, i sacerdoti della diocesi di Bangassou, che erano in ascolto, hanno mostrato quanto lamentassero la sua perdita. P. Pietro è stato per tutti un padre e un maestro.

Il viaggio in Sudan fu un bel rischio per lui, ma volle recarvisi per essere con la gente con la quale era stato imprigionato e aveva sofferto. Il suo spirito giovanile e il suo costante entusiasmo avevano nascosto la sofferenza di quello strapazzo.

Gli fui vicino per tutto il tempo che è rimasto in ospedale a Bangui. La sua serenità e fede hanno edificato i medici e i degenti.

P. Pietro resta una pietra miliare nella storia della missione, un punto di riferimento per tutti noi perché ci ha insegnato come si fa missione. Come Comboni, ha amato la sua gente, ne ha conosciuto la lingua e la cultura, gli slanci di generosità e le debolezze. Ha compilato un dizionario della lingua zande, ha raccolto molta documentazione per scriverne la storia. Soprattutto aveva lo zelo dell'apostolo e ha fatto conoscere e amare Gesù Cristo". Aggiungiamo che il suo voluminoso dizionario zande-italiano sta per essere pubblicato dall'Università di Trieste.

Dopo le esequie in Casa Madre, la salma proseguì per Massignano, paese natale di p. Pietro De Angelis.

"Ciò che aveva di più prezioso è stato l'insegnamento della sua vita. E questo continua a darcelo", scrive p. Berti. Siamo sicuri che p. Pietro intercederà dal cielo soprattutto per il Sudan che ha amato con cuore veramente comboniano.        

P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 178, aprile 1993, pp.77-84