In Pace Christi

Bartesaghi Giovanni

Bartesaghi Giovanni
Data di nascita : 05/02/1929
Luogo di nascita : Romanó Brianza CO/I
Voti temporanei : 09/09/1947
Voti perpetui : 09/09/1953
Data ordinazione : 12/06/1954
Data decesso : 19/01/1991
Luogo decesso : São Mateus/BR

L'esistenza terrena di p. Bartesaghi come missionario comboniano è riassunta in due semplici frasi riportate sul suo ricordino funebre: "Formador de seminaristas missionários na Italia e Ibiraçu (ES) e de seminaristas diocesanos em Nova Venécia (ES). Pároco em Ecoporanga, Nova Venécia e São Pedro (Vitória). Em nosso meio viveu e testemunhou a ternura, a simplicidade, a disponibilidade, a perseverança, a sabedoria, a coragem e o amor aos pobres".

Tutti coloro che hanno conosciuto p. Gianni, e sono molti data la sua missione di formatore a Pesaro, a Brescia e in Brasile, non possono che affermare la verità di queste parole che andremo via via dimostrando.

Precoce fin dall'asilo

La famiglia Bartesaghi abitava in un primo tempo a Romanó Brianza, nel comune di Inverigo (Como) ed era composta da sei persone: papà Abbondio, prima tessitore e poi lavoratore nelle Ferrovie Nord di Milano; mamma Terraneo Ester, da ragazza tessitrice e, dopo il matrimonio, casalinga; due sorelle e due fratelli. La sorellina maggiore, oggi suor Colombina, comboniana, essendo di nove anni meno giovane di Giovanni, dovette ben presto prendersi cura del "frugolino" che, fin dai primi mesi, dimostrò una vivacità tutta particolare.

La famiglia era affiatatissima. L'amore tra papà e mamma era intenso e incise profondamente e positivamente sui figli. Dopo la morte del papà (agosto 1966), al quale era stata amputata una gamba, la mamma lo seguì nella tomba alla distanza di appena due mesi, quasi a indicare l'impossibilità di vivere dell'una senza l'altro.

Scrive suor Colombina: "Gianni ha incominciato a frequentare l'asilo a soli 18 mesi; la maestra era una signorina che veniva ogni giorno da Milano. Passando davanti a casa mia, vedeva sempre Gianni, che era un bel bambino grasso come un 'fratino', e un giorno lo invitò a seguirla all'asilo. Egli le prese la mano come per seguirla. La mamma, subito interpellata, fece qualche resistenza, ma poi, considerando che il fratellino Pietro già frequentava la scuola materna e Gianni vi andava volentieri, diede il permesso".

Nei momenti in cui non era all'asilo, Gianni era sempre attaccato alle gonne della sorella. Quando ella andava sulla piazza a giocare con le compagne, doveva portarselo dietro. Per essere un momentino libera, lo faceva sedere di fronte a un mucchietto di sassi ed egli si divertiva con gli amichetti, ma siccome era grassottello, ogni tanto questi si divertivano a dargli qualche pizzicotto. Se la sorella non lo vedeva, egli incassava e stava zitto; se invece lo stava osservando, si metteva a strillare come un'aquila per costringerla a correre in sua difesa.

Pur essendo di indole pacifica (in ciò assomigliava molto al babbo) trovava il modo di far disperare il prossimo con le sue scappatelle impreviste e imprevedibili.

A Varedo

Nel 1936 la famiglia si trasferì a Varedo. Un po' fuori paese c'era una cava di sabbia sul cui fondo si era formato un laghetto. A Gianni piaceva andarci con i compagni per nuotare. Colombina, preoccupata per il pericolo che costituiva quell'acqua, quando non lo vedeva più nei paraggi, correva alla cava. Immancabilmente il fratellino era là che guazzava come un ranocchio. Come vedeva arrivare la sorella-castigamatti, si tuffava sott'acqua e vi rimaneva per un tempo così lungo da preoccupare non solo Colombina, ma anche gli altri. Quando non ne poteva più, balzava fuori sbuffando e faceva una smorfiaccia alla sorella che, con la sua presenza, lo aveva costretto ad un'apnea così prolungata. E poi si rituffava continuando il suo gioco come fosse la cosa più naturale del mondo; ed era tanto felice.

Fattosi grandicello, non volle far parte del gruppo dei chierichetti. Strano questo comportamento se consideriamo che, durante le vacanze, voleva essere svegliato molto presto per essere presente alla prima messa (sempre insieme alla sorella). La sua ripugnanza per i chierichetti trova una probabile spiegazione nel fatto che questi, anche attorno all'altare, continuavano a chiacchierare e a darsi spintoni. E ciò non piaceva a Gianni che era un tipo responsabile, serio e consapevole di ciò che andava a fare in chiesa.

La vocazione missionaria

A questo punto bisognerebbe cedere la penna a p. Antonio Figini il quale, vedendo quel ragazzino devoto e assiduo alla messa, gli chiese se voleva farsi missionario per andare in Africa a portare il Vangelo ai moretti. Giovanni, senza pensarci due volte, gli rispose di sì. Allora p. Figini ne parlò con il parroco, il quale diede le migliori garanzie sul giovinetto e poi accostò i genitori.

"Ho quattro figli - rispose papà Abbondio - e se tutti e quattro diventassero suore e preti mi considererei l'uomo più fortunato del mondo". Il Signore lo prese in parola quasi del tutto. Colombina è entrata tra le Comboniane nell'agosto del 1940, e l'altra sorella, nell'agosto del 1941, la seguì tra le suore del Cottolengo di Torino.

Quanto a Giovanni, nel settembre del 1940, a undici anni di età si trovò a Rebbio di Como come seminarista missionario.

Intanto era cominciata la guerra e quei giovinetti voraci come merli spesso si trovavano senza adeguato "becchime", per cui qualcuno cominciò ad impallidire e ad accusare dolori di testa o profondi sensi di stanchezza. Anche Giovanni fu uno di questi per cui, una brutta mattina, mamma Ester se lo vide capitare a casa mogio mogio con la sentenza che non aveva salute sufficiente per diventare missionario. La lettera di "dimissione" era firmata da p. Angelo Dell'Oro e corredata da un documento del dottor Falciola che attestava la scarsa salute del giovinetto.

La mamma, che era donna pratica, forte e intelligente, capì al volo la "vera" malattia del figlio e cominciò a nutrirlo come si deve. Tanto per mettere il formaggio sui maccheroni, offrì il suo anello d'oro a santa Teresina. Il ragazzo, in men che non si dica, rifiorì come una rosa e divenne giulivo, vivace e allegro come un tempo e sempre più desideroso di tornare in seminario.

A questo punto mamma Ester in persona si presentò a Rebbio tenendo per mano il figlio, lo consegnò a p. Dell'Oro dicendogli senza tanti complimenti: "Dia da mangiare a mio figlio, e vedrà che starà sempre bene".

Da quel giorno Giovanni è sempre andato avanti senza crisi o tentennamenti, perché sapeva ciò che voleva: era partito con l'idea di farsi missionario per salvare le anime, e questo pensiero lo sostenne in tutti gli anni della sua formazione.

Missionario

Il 18 settembre 1945 Giovanni entrava nel noviziato comboniano di Firenze. Nella domanda rivolta al superiore generale, scritta da Crema il 13 maggio di quell'anno, così si esprimeva: "Fidandomi più sulla parola assicuratrice dei miei superiori circa la mia vocazione, che sulla mia opinione, le presento la domanda di ammissione al noviziato.

Creda, questo è veramente il desiderio sincero del mio cuore, cioè far parte della Congregazione dei Figli del Sacro Cuore. Questo desiderio non mi è mai venuto meno durante i cinque anni di scuola apostolica, anzi è continuamente cresciuto. Ed io, con la grazia di Dio, ho cercato di corrispondervi. Ciò nonostante sento un po' di trepidazione perché sono consapevole che il passo che sto per fare è molto importante, ma confido nell'aiuto divino e mi abbandono nelle braccia della mia cara Mamma celeste perché essa sola, che tante volte ha preservato intatto l'inestimabile tesoro della mia vocazione, può aiutarmi.

Il giorno in cui potrò mettere piede in noviziato, sarà uno dei più belli della mia vita".

Gianni affrontò il noviziato senza incontrare particolari difficoltà perché vi trovò ciò che si aspettava: spirito di preghiera, pratica della virtù, osservanza delle regole. Il progresso spirituale - a detta di p. Patroni, maestro dei novizi - fu sempre in crescendo. Il novizio riuscì perfino a dominare qualche scatto di ira alla quale era inclinato. Anche quanto a salute non ci furono più problemi.

Il giudizio del p. maestro, al termine del noviziato, merita di essere riportato integralmente: "E' uno dei novizi migliori del secondo anno per l'impegno con cui attende al lavoro del noviziato. Schietto con i superiori, ama il sacrificio ed è esatto nell'osservanza delle regole. Quanto a criterio e ingegno, ottimi entrambi. Per l'amore che sente per la propria vocazione e per lo spirito di fede che anima tutta la sua vita credo che possa fare una buona riuscita". Non si sbagliava.

L'amico

Emessi i Voti, Giovanni fu inviato a Como, poi a Pesaro, quindi a Brescia come assistente dei ragazzi. Oltre all'assistenza, che si prolungava anche durante la notte, trovò il tempo di proseguire i suoi studi liceali e di acquisire il diploma di maestro di scuola elementare.

Gran parte della vita di p. Gianni, la maggior parte della sua vita, fu dedicata al delicato compito di formatore di futuri missionari e, in Brasile, anche di sacerdoti diocesani.

Mi sembra giusto intitolare questo ruolo di formatore con l'epiteto di "amico". Chi scrive ha avuto per tre anni, a Brescia, Bartesaghi come "prefetto". E', quindi, in grado di assicurare quanto afferma.

Nel 1950 confluirono a Brescia i ragazzi provenienti da Trento e quelli provenienti da Carraia per la terza media. In tutto erano una dozzina. Non essendo stata programmata la loro venuta a Brescia (dove c'era solo il ginnasio) si trovarono un po' a disagio. Ricordo che furono sistemati in un'aula a tramontana. Per tutto l'inverno la finestra di fondo rimase senza un vetro (e il riscaldamento non esisteva). Bartesaghi corse ai ripari tappando il buco con carta di giornale. P. Dal Vit, allora p. spirituale a Brescia, quando andava a fare la lezione di catechismo premetteva cinque minuti di energica ginnastica per riscaldare i muscoli a quei "pulcini" intirizziti dal freddo. Qualche altro professore, specialmente laico, si limitava a brontolare.

Il gruppo dei dodici non possedeva neppure un pallone per giocare, per cui Bartesaghi ne confezionò uno di pezza, ma lo fece così bene, che faceva le funzioni di quello di cuoio, in dotazione alle due classi del ginnasio.

In questa povertà che rasentava l'emarginazione, i seminaristi di terza media si coalizzarono in uno straordinario spirito di corpo attorno al loro assistente. Furono anche favoriti da altre due persone: p. Dal Vit e p. Calderola, il superiore, ai quali questi ragazzini un po' sperduti facevano pena e perciò li amarono di un amore tutto speciale.

Ma torniamo a Bartesaghi che viveva con i suoi ragazzi giorno e notte, condividendo la tavola, la sala di studio e il dormitorio. Egli andava a scuola al mattino nel seminario diocesano, mentre i suoi "feccianti" (così si erano definiti i ragazzi di terza media sentendosi quasi la feccia dell'istituto) erano pure a scuola. Tra Bartesaghi e i suoi ragazzi nacque una vera e profonda amicizia. Eppure non era tenero: quando si trattava di fare un'osservazione o di correggere qualche difetto, lo faceva, ma sapeva trovare le parole giuste e il momento giusto per cui le sue ammonizioni ottenevano l'effetto voluto.

Animava i giochi mettendosi una volta con una squadra, una volta con l'altra, in modo da dimostrarsi imparziale. Preparava commedie e recitazioni che i suoi ragazzi eseguivano con incredibile entusiasmo.

La passeggiata del giovedì pomeriggio era il momento forte della settimana. Bartesaghi raccontava belle storie, sapeva organizzare giochi e scherzi, approfittava di ogni avvenimento o delle bellezze della natura per dare utili insegnamenti, ma senza l'aria del maestro. Con lui visitammo le chiese di Brescia, la casa dove morì Ermengarda: "Sparse le trecce morbide...", i musei, il castello, il laghetto, anche se la meta preferita era la "tomba del cane".

Fra' diavolo

Un giorno, durante la passeggiata, si udì un suono di fisarmonica che usciva da un casolare. Probabilmente c'era una festicciola, tanto che si vedeva nel cortile della gente che ballava. Qualcuno dei seminaristi tentò di avvicinarsi per ascoltare meglio la musica. Bartesaghi lo raggiunse e gli disse: "Vedo che ti piace la musica e ciò è una cosa bella, ma non andare lassù perché ci potrebbe essere il diavolo in agguato". Il giovinetto tornò subito indietro ringraziando il suo "prefetto".

A tavola i seminaristi andavano a gara per poter sedere vicino a Bartesaghi che, ovviamente, era a capotavola. E qui ne dico una di grossa, ma è autentica. Siccome si entrava in fila a due per due in refettorio, ognuno, all'ultimo momento cercava di raggiungere il piatto vicino a quello del "prefetto". Qualcuno, che magari si trovava un po' dietro, per accaparrarsi il posto sputava nel piatto precedentemente riempito di minestra dalle suore. Ciò nonostante chi arrivava primo al piatto mangiava anche se c'era lo sputo dell'altro. Inutile dire che Bartesaghi tolse tale sconveniente atteggiamento stabilendo i turni.

Un'altra volta ci si accorse che attorno al piatto, nella minestra di riso, navigavano tanti animaletti, naturalmente morti e bolliti. Si vede che si trattava di una partita di riso vecchio, già mezzo divorato dalle tarme che qualche "benefattore" aveva donato ai "poveri missionari". I ragazzi si guardarono in faccia, poi guardarono il loro "prefetto" il quale, come niente fosse, cominciò a mangiare. E tutti lo seguirono. Alla fine, commentando il fatto, egli disse: "Quando saremo in Africa ci toccherà di mangiarne anche di più grossi, non è meglio cominciare fin da adesso a prepararci?". Tutti convennero che era giusto.

Tutti i sabato sera, durante l'ultima ora di studio, la classe si alzava e si disponeva in fila indiana per la confessione settimanale davanti alla porta della stanza di p. Dal Vit. Pur non essendo obbligatoria, questa operazione veniva eseguita da tutti senza eccezione. Anche questo era un frutto della formazione di Bartesaghi.

Atto eroico

Come era stato notato in noviziato, il suo difetto predominante era l'irascibilità. Ricordo un paio di episodi che avrebbero fatto uscire dai gangheri il più mite degli uomini. Tutte le mattine, prima della colazione, bisognava scendere in cortile per un quarto d'ora di ginnastica con esercizi vari e corse attorno al cortile. Uno di quei ragazzi, forse perché già covava nel suo corpo la malattia che sarebbe scoppiata durante il noviziato, sia perché era un mezzo filibustiere di natura, non aveva voglia di fare quelle corse per cui, quando la fila dei corridori arrivava vicino al muretto di fondo, egli vi si sedeva sopra e lasciava che gli altri corressero fino al momento di rientrare. Aveva voglia Bartesaghi di adoperare il fischietto per rimetterlo in riga. Quello diceva: "Io ho già corso abbastanza, correte pure voi e fate muscoli". Vedendo che era impenitente, dopo i primi tentativi Bartesaghi cominciò ad ignorarlo lasciando che facesse pure ciò che voleva, ma si notava sul suo volto un pallore strano, segno dell'ira che stava comprimendo.

Dalla finestra, però, p. Dal Vit vide la scena e alla sera chiamò il ragazzo minacciando di mandarlo a casa se non intendeva partecipare a quell'atto comunitario. L'incriminato si corresse e riprese a fare le sue corsette attorno al cortile, anche se arrivava sempre ultimo.

Un'altra volta, sempre questo tale, venne a diverbio con un compagno (l'amore non è bello se non è litigarello). Bartesaghi s'intromise e, vedendo che il primo aveva torto marcio, gli impose di star zitto.

"Stia zitto lei, che ce la sbrighiamo tra noi due", gli rispose. Bartesaghi impallidì e gli cominciò a tremare il mento.

"Se non la pianti ti mollo uno schiaffo", disse. E l'altro, guardandolo in faccia, rispose:

"Ci provi e io glielo renderò" e allungò la guancia per prendere lo schiaffo. Bartesaghi si portò la mani alla faccia e, tremando come una foglia, scappò via. Anche quella volta aveva vinto la sua irascibilità e certamente aveva compiuto un atto eroico.

Naturalmente il voto in condotta di quell'impenitente in quel mese era tale da meritare l'espulsione. Intervenne p. Calderola, superiore, che dopo aver letto il voto vero chiamò l'interessato e gli disse:

"Guarda che io ti ho messo nove meno, tanto per non farti mandar via. E l'ho fatto perché qualcosa mi dice che puoi diventare un bravo missionario, ma devi sforzarti di correggerti".

Colmo dell'ironia, questo giovane, che ormai era in quinta ginnasio, andò diritto da Bartesaghi e gli disse:

"Voleva fregarmi col suo voto in condotta, per fortuna che il superiore vede più lontano di lei". Altro pallore, e poi il commento:

"Non volevo fregarti, vorrei solo tentare di salvare la tua vocazione". Poco dopo questi partiva per il noviziato dove il Signore, nella sua misericordia infinita, lo attendeva per fargli scontare una buona parte delle sue marachelle.

E p. Bartesaghi, quando abbracciò questo suo alunno dopo l'ordinazione sacerdotale, gli disse:

"Ti avrei schiacciato la testa mille volte, però non ho mai dubitato del bene che mi volevi e dell'amore che avevi alla tua vocazione... Certo che se un educatore avesse dei giovani tutti come te da formare, sarebbe meglio che morisse prima di cominciare".

Pazienza, sopportazione, tatto, controllo di sé e un immenso amore per i suoi alunni fecero di Bartesaghi un formatore impareggiabile. Ciò è confermato dai superiori di Pesaro e di Brescia. Il primo, p. De Angelis, scrisse: "E' il miglior prefetto che abbia incontrato a Pesaro. Dopo un anno di pratica, si è ambientato bene e dimostra vere capacità: prudenza, tatto, buon senso, ascendente sugli alunni, freno ai nervi. Fedele ed esatto ai suoi doveri di pietà e di studio".

E p. Calderola: "Ottimo elemento, equilibrato, capace e laborioso: si merita l'ammissione ai Voti perpetui con i più grandi elogi".

Queste doti seguirono p. Bartesaghi in Portogallo e poi in Brasile dove ebbe quasi sempre da fare con i giovani candidati al sacerdozio.

Un seminario in crescendo

Ordinato sacerdote il 12 giugno 1954 a Milano, fu destinato a Brescia come vicerettore e vi rimase fino al 1957, anno in cui partì per Ibiraçú, Brasile, con l'incarico di vicerettore e poi superiore del seminario dove c'erano una ventina di seminaristi.

Fr. Eligio Locatelli, intanto, dava inizio ai lavori per la costruzione di un'altra ala del seminario; fr. De Poli e fr. Ciapponi curavano la campagna per nutrire tutte quelle bocche, mentre fr. Mores gestiva la falegnameria per preparare serramenti e mobilio per il seminario. Con la partenza di p. Piccoli per S. Paolo, p. Bartesaghi rimase solo a mandare avanti tutto quel complesso in attesa che arrivasse p. Furlanetto per essere almeno in due.

Il Signore mostrava di benedire tanti sacrifici se, nel 1963, i seminaristi erano 108. "Per mantenerli - scriveva il Padre - andiamo in giro a fare un po' di questua: riso, fagioli, zucche, granoturco, caffè, galline, maialetti... e la provvidenza non ci lascia mancare l'indispensabile". Intanto si erano aggiunti i padri Stella, G. Zanotto e Vito Milesi.

Nel 1964 i seminaristi erano 128. P. Bartesaghi cominciava a risentire del superlavoro che lo teneva occupato di giorno e di notte: "Mi sento un pochino stanco dopo cinque anni di lavoro in un seminario in costruzione e in formazione. Ho manifestato più volte al Provinciale questa mia situazione, ma mi si risponde che non c'è personale. Da parte mia non ho nessuna voglia di fare il ribelle. Fin qui sono arrivato e, se l'obbedienza fa miracoli, farà anche quello di aiutarmi a portare avanti questo macchinone che è il seminario".

Nel 1965 il Padre scriveva: "Anche quest'anno Dio ci ha assistiti come un vero e tenero papà, sia materialmente che spiritualmente". In quell'anno p. Gianni fu eletto consigliere del Provinciale. Scrisse: "Sono giovane e di poca esperienza. Finora mi pare di aver sempre obbedito e appoggiato il Provinciale; ora mi impegnerò di più perché lavorando uniti si lavora meglio e si ottengono molti risultati".

Parroco e capitolare

Dopo sei mesi di vacanze in Italia tra il 1966 e il 1967, durante le quali fece anche il corso di aggiornamento a Roma, dichiarò la sua piena disponibilità ai superiori ad andare dove ritenevano più opportuno.

Sarebbe voluto andare ad El Obeid, in Sudan, a trovare la sorella suor Colombina e a fare una visita alla terra di mons. Comboni. I superiori appoggiarono questo legittimo desiderio per ogni comboniano, ma il governo sudanese (ricordiamo che tutti i comboniani nel 1964 erano stati espulsi dal sud del Paese) gli negò il permesso di entrata.

Nell'agosto del 1967 p. Bartesaghi si trovò ad Ecoporanga come parroco. "Sono molto contento - scrisse - e ho molto da fare. Sono agli estremi della Diocesi dove non arrivano né notizie, né commenti, perciò chiedo di essere esonerato dall'incarico di consigliere. Chiedo questo per il maggior bene della regione. Se si ha una responsabilità bisogna aver la possibilità di affrontarla come si deve".

Da queste poche righe si nota il grande senso del dovere che animava il Padre e il suo profondo senso di responsabilità per il bene della Provincia. Ad Ecoporanga, con l'aiuto di mani Tese, mise in piedi una piccola falegnameria per dare un lavoro ai ragazzi sbandati, ma quante tribolazioni per trovare un fratello istruttore! Il Generale regolarmente rispondeva: "Non c'è personale. Speriamo e preghiamo". Ad Ecoporanga aveva molte comunità da animare, assistere, sostenere, preparando gli animatori. Dure le difficoltà fisiche di comunicazione stradale, povertà, ingiustizie e criminalità. Il suo oratorio domenicale costituì una novità assoluta per quell'epoca e in quel posto. Accogliente e dinamico, preparò una fitta schiera di collaboratori. Grazie alle sue capacità organizzative, terminò la costruzione della nuova chiesa parrocchiale.

Il suo carisma si espresse mirabilmente nel preparare i testi di catechismo per ogni categoria di persone e per le diverse tappe della vita cristiana. Un lavoro immane, eppure, quando uno entrava nel suo ufficio, egli allontanava la macchina da scrivere e diceva: "Parla, sono tutto per te".

"Bisogna passare dalle parole ai fatti e dalla Bibbia alla vita" ripeteva spesso. Con tale mistica riuscì a motivare gesti famosi che altri missionari non riuscirono a realizzare, come la "romaria da terra" fatta quando nessuno osava pensare a una cosa simile, o come l'aiuto agli handicappati, o le assemblee dei sindacalisti organizzate in chiesa: scandalo per molti.

I confratelli ebbero sempre una grande stima di lui tanto che lo elessero come loro rappresentante al Capitolo del 1975.

Tra l'incudine e il martello

"Ogni volta che mi scriveva - afferma suor Colombina - mi parlava sempre bene del Brasile del quale era innamorato, e diceva che era felicissimo di essere missionario".

Però non gli mancarono le grane e le sofferenze. I tempi cambiavano. La Chiesa del Brasile, tra scossoni e sussulti, s'avviava per mettersi totalmente dalla parte dei poveri, ma coloro che nutrivano simpatie per il regime difeso dai ricchi erano ancora molti. P. Bartesaghi fu sempre un moderato e dichiarò di voler stare con il Papa e con il suo vescovo... con il rischio di essere avversato dai tradizionalisti e dai riformisti. Egli non perse mai la calma, non si lasciò comprare da nessuno. Rifletteva molto prima di pronunciarsi, poi diceva il suo parere senza paura e senza inutili riguardi per nessuno. La sua lunga esperienza brasiliana gli consentiva una notevole sicurezza nei suoi giudizi che alla fine si dimostravano esatti.

Dal 1975 al 1978 fu nuovamente direttore del seminario minore di Ibiraçù. Dovette masticare amaro e ingoiare qualche rospo per i motivi che abbiamo appena accennati. "Forse - scrisse - non sono più adatto a fare il formatore. O la formazione che si vuol dare ai giovani di oggi non si adatta alla mia mentalità".

Zitto, zitto, nel 1978 andò a Nova Venécia come parroco. Vi rimase fino al 1983 facendo un sacco di bene. Il profondo senso di umanità che lo aveva sempre distinto, la capacità di approccio con la gente e la preferenza che si andava sempre più delineando in lui verso i più poveri, lo resero benemerito a tutti.

A Nova Venécia toccò l'apice della sua attività pastorale con 80 comunità da animare. Una "piccola diocesi" la definì qualcuno, sia per l'organizzazione multipla, sia per i lavori ai quali diede impulso, sia per l'efficienza dell'organizzazione. Si preoccupava di dare il volto di Chiesa pensata e costruita attorno all'idea delle Comunità Ecclesiali di Base, come di fatto voleva il vescovo di Sao Mateus.

L'antico ginnasio dedicato al nome e alla memoria di Comboni, finalmente sostituito dalla scuola pubblica, divenne il centro degli incontri della Comunità, dove venivano radunati i giovani e gli adulti per la preparazione ai sacramenti e per una sana ricreazione.

Ma i superiori, nei quali non era mai venuta meno la stima e l'ammirazione nei confronti di questo confratello, dopo le vacanze in Italia del 1983 lo inviarono a Serra come formatore nel seminario minore diocesano. Il Brasile aveva bisogno di sacerdoti all'altezza delle nuove situazioni che si venivano a creare. P. Bartesaghi cercò di coniugare il suo metodo antico basato sulla pietà, lo studio serio, lo spirito di sacrificio alle esigenze dei nuovi tempi. Come religioso faceva parte della comunità di Carapina. Il suo apporto fu molto apprezzato, anche se non mancarono incomprensioni e sofferenze: Bartesaghi era un uomo troppo retto per indulgere ai compromessi, specie quando si trattava di vocazione e di sacerdozio. Rimase in quell'incarico fino al 1988.

Nella discarica di Vitória

Poi passò al "lixao" il luogo dello scarico dei rifiuti di Vitória. Ce ne volle per ottenere il permesso dai superiori per recarsi in quell'inferno di melma e vizio dove la gente raspava tra i rifiuti per trovare qualcosa da mangiare. Si trovò a contatto con un mondo più grande di quello che avrebbe potuto immaginare. La gente arrivava a frotte: erano tutti bisognosi, privi di ogni possibilità non solo di avere una casa, ma anche di pagare un misero affitto. Per lui era la scelta dei più poveri. Questo luogo definito "il luogo di tutti i mali" è una fascia di terra tra le colline rocciose e il mare che entra e trasforma Vitória in una grande palude.

Dopo aver familiarizzato con la gente, iniziarono le prime riunioni in cui si tracciavano programmi e si facevano progetti. Venne aperta una scuola serale e, dal desiderio di alcune famiglie di partecipare alla vita della Chiesa, nacque la comunità ecclesiale di base di San Pedro, la città sulla palude. A quella comunità se ne affiancarono delle altre fino a raggiungere il numero di undici.

La comunità ecclesiale di base è l'espressione tipica e particolare della Chiesa latino-americana che parla di Dio partendo dalla propria storia, dalla propria cultura e dalla propria identità; piccole chiese di laici che cercano di unire Parola e vita, testimoniando la fede nella vita di ogni giorno. E' una Chiesa che cammina con i piedi per terra, che paga un prezzo molto alto per mantenere la coerenza al vangelo.

Tutte le comunità si organizzarono per ripulire il terreno, incanalare l'acqua e costruire baracche su palafitte, attorno ai centri pastorali. Fu grande festa quando, dopo battaglie e tenaci insistenze, arrivò l'acqua potabile, la luce e si costruì la prima strada: finalmente si poteva camminare a piedi senza sporcarsi le scarpe. I rumori attorno alle due stanzette sopra la cappella dove il Padre dimorava erano assordanti. Egli diceva: "Mi sono abituato e non mi danno fastidio. Poi ho la mia gente che è tutta con me".

La palude, già in parte bonificata usando come prima copertura lo spesso strato di immondizie di tutta la città, divenne meta di cercatori che per non morire di fame frugavano nella spazzatura. Nonostante le drammatiche conseguenze igieniche, quell'attività divenne l'unica fonte di guadagno per un numero impressionante di persone. Intervenne la polizia per la demolizione delle baracche provocando un caos generale. Ma la gente non si diede per vinta e ricominciò immediatamente a ricostruire le baracche. "C'è chi costruisce la sua povera casa per la terza volta" scrisse p. Bartesaghi. Tra sconfitte e vittorie la comunità si organizzava costituendo una vera e propria città sulla palude.

Questi poveri, che prima litigavano fra loro, fondarono la prima cooperativa di cercatori di rifiuti. "Tra le varie attività che ho svolto nella mia vita missionaria, non avrei mai immaginato che sarei diventato amministratore di immondizie e fondatore di cooperative" scrisse il Padre. Ma tutta questa sua opera sociale era animata dal più autentico spirito evangelico e la gente lo capì molto bene. Le soddisfazioni apostoliche furono immense, ma altrettanto immensa fu la fatica per organizzare e cristianizzare quella gente.

La sua salute, intanto, perdeva colpi. Il cuore non era più quello di un tempo. Scrive la sorella suor Colombina: "Nel 1989, quando venne in vacanza, non stava affatto bene. Passò alcuni giorni in casa generalizia, qui in via Boccea. Le suore che hanno avuto modo di avvicinarlo, di parlargli o di sentirlo parlare sono rimaste edificate. Era un missionario tutto d'un pezzo, entusiasta della sua vocazione e desideroso di aiutare nel senso giusto la gente: anima e corpo".

Regina delle missioni

Nel 1990 fece un altro corso di aggiornamento a Roma. Si vedeva che si trascinava a fatica anche se l'entusiasmo di ritornare presto in Brasile gli infondeva forza.

Un ciclo di conferenze, durante il corso, fu tenuto da quel suo alunno che tanto lo aveva fatto disperare a Brescia e al quale p. Bartesaghi aveva dimostrato tanto amore. Ricordando i vecchi tempi rideva di gusto.

Il conferenziere, prima di ogni conversazione, soleva recitare un'Ave Maria aggiungendo l'invocazione: "Regina dell'Africa, prega per noi". P. Bartesaghi, con la confidenza e il bel modo di 40 anni prima, gli disse: "Perché invochi la Regina dell'Africa? Non è anche regina dell'America latina e di tutto il mondo, la Madonna?". Ancora una volta il vecchio educatore aveva ragione e l'altro si è subito corretto facendo tesoro di quel suggerimento che scaturiva da un cuore pieno di amore per l'America latina e per il mondo intero e cominciò a chiamare la Madonna "Regina delle Missioni".

Una sera il p. Bartesaghi mostrò ai compagni del corso una videocassetta sulla sua nuova attività tra i più poveri dei poveri che razzolavano tra i rifiuti e la melma nella discarica di Vitória. Fu una visione apocalittica, ma che lasciò nel cuore di tutti tanta speranza per quello che nasceva dal quel "letamaio", soprattutto grazie all'opera del Padre che aveva scelto quella porzione di umanità come la sua prediletta. In questo si mostrò un autentico figlio del Comboni che dedicò la vita ai più poveri e derelitti. E si vedeva che la grazia di Dio lo assisteva visibilmente.

Nel settembre del 1990, trascorse al paese una ventina di giorni insieme alla sorella suor Colombina. Rivissero i felici momenti dell'infanzia andando in chiesa insieme, pregando insieme, condividendo con la gente le loro preoccupazioni missionarie. E lui non le faceva più i dispetti e le boccacce.

Vedendo che la salute non prometteva niente di buono, la sorella gli disse una mattina in cui appariva particolarmente affaticato:

"Gianni se non stai bene È meglio che ti fermi in Italia ancora un po'". Egli la guardò e, dopo un lungo sospiro, le rispose:

"Non dirmelo più, perché mi faresti morire". E poi ricominciava il discorso dei suoi poveri che portava tutti nel cuore malato, ma traboccante amore per loro.

Prima di lasciare il paese scrisse una lettera ai parenti e agli amici nella quale, tra l'altro, diceva: "Credo al valore della preghiera e per questo parto sereno nella certezza che voi continuerete a darmi questo appoggio così prezioso. Ho creduto nei medici, nelle medicine, in me stesso, nei miracoli... credo che anche la missione mi aiuterà a ristabilirmi... Desidero che riusciate a mettere, al di sopra di tutte le vostre preoccupazioni, quella per il Regno di Dio...". Il 17 settembre s'imbarcava per il Brasile. Sarebbe stato un viaggio senza ritorno.

Recitando il Padre nostro

In dicembre una leggera influenza diede un brutto colpo alla salute del Padre il quale, impegnato nel ministero com'era, non si sentì di rallentare l'attività proprio nel tempo natalizio. Il 17 gennaio 1991 scrisse al suo provinciale che non ce la faceva più. "Penso che ormai dovrò accontentarmi di un lavoro sedentario. Nel frattempo prego e chiedo a Dio pazienza e serenità di spirito".

Tre ore dopo l'arrivo della lettera, il provinciale p. Lenzi ricevette una telefonata da São Mateus con la quale mons. Gerna gli comunicava che p. Bartesaghi era ricoverato all'ospedale in stato abbastanza grave.

Cos'era accaduto? Passando da Carapina ai primi di gennaio, mons. Gerna vide che il Padre era particolarmente stanco. Senza indugio, se lo portò a São Mateus, ospitandolo in episcopio per un po' di vacanza, ma il 7 dovette essere ricoverato d'urgenza presso l'Unità di Trattamento Intensivo per un attacco al cuore. I sanitari gli riscontrarono un edema polmonare causato dal cuore debole e gonfio. Cosciente della gravità del male, il Padre chiese tutti i sacramenti che ricevette con particolare devozione. Superata la crisi tornò in episcopio da dove scrisse la lettera di cui abbiamo parlato. Il giorno 18 venne nuovamente ricoverato in ospedale.

Il 19 entrò in una fase di preagonia. I medici e i sanitari le tentarono tutte per rimettere in funzione il cuore che si era fermato per ben due volte. Verso le sette di sera, la pressione si abbassò, il polso diminuì e il Padre entrò in coma. Le sue ultime parole percepite dai presenti furono quelle del Padre nostro. Mons. Gerna gli suggerì di offrire la vita per il Brasile e per la pace nel mondo. Con un movimento della testa accennò di sì. Poi si spense. Erano presenti, oltre a mons. Gerna, p. Civallero e fr. Peroni.

Rivestito del camice bianco e della stola venne portato nella cattedrale di São Mateus dove fu vegliato da una folla numerosissima. Al mattino dopo ci furono le esequie. Subito dopo il corpo venne trasportato a Nova Venécia (70 chilometri) per essere sepolto tra i poveri, come il Padre aveva chiesto. C'erano numerose rappresentanze dei luoghi dove il Padre era stato e tutti avevano parole, più che di preghiera, di intercessione. La frase che maggiormente si sentiva era questa: "Si è consumato per i poveri". Il funerale ebbe luogo alle quattro del pomeriggio. La gente che lo accompagnò all'ultima dimora era una moltitudine (4.000 persone). Molti, infatti, avevano seguito la cerimonia dalla piazza essendo la grande chiesa di Nova Venécia incapace a contenerla.

Uomo di Dio, sincero e onesto, amico dei poveri, vero missionario comboniano, andava a ritirare la corona che, da buon servo fedele, si era meritato accompagnato dal rimpianto di migliaia di poveri che avevano imparato a chiamarlo "padre, amico, fratello", proprio come deve essere un autentico missionario.                P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 171, luglio 1991, pp.45-56