Figlio di solidi contadini della montagna emiliana, Silvio Caselli entrò nel seminario diocesano all’età di 16 anni. Prima aveva lavorato con il papà Eliseo e con la mamma Rocchi Lucia i campi che la famiglia possedeva.
Nel seminario minore di Marola ebbe i primi contatti con i missionari che, di tanto in tanto, andavano a parlare ai ragazzi. P. Silvio dirà: “Sentivo volentieri parlare di loro e desideravo vederli, ma nulla più”.
Dopo il ginnasio, il seminarista fu trasferito nel seminario maggiore di Albinea. Qui i contatti con i missionari si fecero più frequenti. "Cominciai a invidiare questi eroi e a sentire il desiderio di diventare come loro".
Col passare degli anni questo desiderio andava via via crescendo. Nelle discussioni con i compagni, Silvio sosteneva la tesi secondo la quale un autentico sacerdote deve sentirsi anche missionario, pronto ad andare dove le anime lo richiedono e i superiori lo mandano.
Quando, tuttavia, si trattò di decidere, il nostro giovane si accorse di essere tanto attaccato al suo paese, ai suoi campi e ai suoi cari. "Se non avessi i miei, partirei anche domani", disse al suo padre spirituale. "E allora preoccupati di diventare un santo sacerdote. L'Africa non scappa", gli rispose costui.
Durante le vacanze, anche Silvio cominciò a confezionare corone che avrebbe inviato ai missionari perché le dessero ai moretti. Era, questo, un lavoro al quale si dedicavano i seminaristi del gruppo missionario. A tavola, nelle domeniche, insieme al solito vino comune, passavano anche bottiglie di vino speciale con facoltà di rinunciarvi per mandare il corrispettivo alle missioni. Silvio non perse mai un colpo!
La festa di Cristo Re di un anno non precisato, fu sottolineata da una piccola accademia organizzata dalla classe di Caselli. Egli scrisse per l'occasione una poesia intitolata "Da un continente all'altro". Il viandante, naturalmente, era proprio lui, che, diventato ormai missionario e accompagnato da altri compagni, lasciava la patria per recarsi in regioni lontane a portare il vangelo.
Nel frattempo, venne a sapere che anche il suo compagno di seminario Taddei Tolmino era in procinto di partire per Venegono Superiore. Di fatto entreranno insieme. "Non ci volle altro - scrisse p. Caselli -. M'intrattenni con lui per essere illuminato e informato su tante cose, sperando che mi avrebbe messo al corrente dei segreti della vita missionaria. Tuttavia non avevo ancora la forza di fare il passo decisivo, anche se il pensiero di farmi missionario non mi abbandonava più, né di giorno né di notte. Nei confronti del mio compagno sentivo invidia e gelosia. Finalmente, qualche settimana dopo, andai dal padre spirituale e gli confessai quanto passava nel mio cuore".
Questi gli disse di attendere ancora e di vivere in pace. Ma per Caselli ormai non c'era più pace. Le stesse difficoltà che in un primo tempo gli sembravano insormontabili, sfumavano come bruma al sole. Il padre spirituale, nuovamente e insistentemente interpellato, gli rispose che prima di decidere avrebbe dovuto trascorrere le vacanze in famiglia e sentire il parere dei genitori.
Costoro non furono entusiasti dell'idea del figlio, tuttavia convennero che, se era proprio quella la volontà del Signore, non avrebbero fatto opposizione. P. Caselli termina il racconto della sua vocazione, scritto il 14 agosto 1936, quindi a 23 anni di età, con queste parole: "Se una persona competente mi dicesse che la volontà del Signore è che io rimanga in seminario diocesano, io vi resterei volentieri perché desidero unicamente fare sempre e solo ciò che Dio vuole da me. Però vorrei le prove evidenti che questa è sentenza del Signore e non di uomo. In caso contrario, io dovrò partire".
Era sentenza del Signore
Il 5 agosto 1936, al termine del liceo, Silvio fece la domanda di entrare in Noviziato. "Viva il Sacro Cuore. Io, alunno del seminario vescovile Urbano di Reggio Emilia, dopo lungo tempo di ansie, di trepidazioni e di preghiere, affretto la domanda per essere accettato nell'Istituto religioso dei Figli del Sacro Cuore. Benché a malincuore, i miei genitori mi danno il loro consenso. Desidero ardentemente di diventare un apostolo dell'Africa. Già troppo tempo ho perso in passato ed ora è mio desiderio che le cose procedano 'cum festinatione'. Ho preferito il loro Istituto perché questa mi sembra la volontà del Signore".
Dalle lettere di p. Caselli si nota come fosse sua somma preoccupazione eseguire la volontà del Signore, che cercava con assiduità e che poi eseguiva con fedeltà. Questa caratteristica sarà una costante della sua vita missionaria, sia per quanto riguarda le varie destinazioni, sia per l'accettazione della malattia che lo colpì negli ultimi anni.
Silvio, con i suoi 23 anni sulle spalle, non era più un ragazzino quando entrò tra i Comboniani. Affrontò il noviziato con serietà, impegno e profondo senso di equilibrio, tanto che p. Bombieri prima e Antonio Todesco poi, maestri dei novizi, si dichiararono sommamente contenti di lui, della sua pietà, del suo amore per la Congregazione e per le missioni, del suo buon carattere nei confronti dei confratelli, della serenità nel trattare con i superiori.
Fatta la vestizione il 28 ottobre 1936, emise i primi voti il 7 ottobre del 1938.
Un economato difficile
Dopo aver completata la teologia nel seminario diocesano di Verona, venne ordinato sacerdote il 29 giugno 1940.
La guerra era appena iniziata e le vie dell'Africa erano diventate pericolose per cui i superiori, anziché mandarlo in missione, lo inviarono a Brescia con l'incarico di economo di quel seminario. Non era impresa facile procurare il cibo ai seminaristi con i tempi che correvano. P. Caselli fece miracoli tanto che, poco dopo, venne dirottato a Firenze con il medesimo incarico e con gli stessi problemi. Solo che qui, invece di ragazzini, l'economo aveva a che fare con dei novizi.
Come Dio volle la guerra finì e le porte dell'Africa si aprirono. Molti missionari che scalpitavano, poterono finalmente realizzare il loro sogno. Tra questi c'era anche p. Caselli.
Con i primi in Mozambico
Dal 1947 al 1955 troviamo p. Caselli prima a Mossuril e poi a Mueria.
I Comboniani avevano ricevuto l'invito ufficiale ad andare in Mozambico nel 1946. Verso la metà di maggio del 1947 p. Zambonardi partì dal Cairo per cercare il posto più adatto alla futura missione. Alla fine di luglio di quello stesso anno i padri Selis, Nannetti e Caselli lasciarono Lisbona dove avevano trascorso tre mesi per lo studio della lingua e relativo esame di abilitazione. In quel periodo andarono a Lourdes e a Fatima per mettere sotto la speciale protezione della Madonna, Regina delle Missioni, la nuova missione alla quale erano destinati. Dopo 43 giorni di navigazione sulla nave Quanza arrivarono in Mozambico.
"P. Zambonardi - scrisse p. Selis - ringiovanito di parecchi anni, attendeva commosso: non era più solo". Inizialmente si stabilirono a Mossuril.
Ben presto la circoscrizione comboniana del Mozambico si estese lungo un litorale di 200 chilometri di lunghezza per 100 di profondità, con 380.000 anime. I cattolici, tra Africani ed Europei erano circa 1.500; i musulmani 140.000; il resto era pagano.
I missionari comboniani concentrarono il loro lavoro nelle scuole di missione per Africani dato che il governo coloniale portoghese aveva scuole solo per i figli degli Europei. Questo fatto rese difficoltosa l'entrata di nuovi missionari italiani in Mozambico, temendo il Governo che la loro opera emancipasse la popolazione africana.
I missionari non si persero d'animo e continuarono il loro lavoro non solo nella scuola, ma preparando catechisti, istruendo catecumeni e fondando laboratori di arti e mestieri.
Vita di missione
Nel 1948 p. Silvio fondò la missione di Mueria, una zona grande come la provincia di Reggio Emilia con circa 130 mila abitanti, tutti pagani e musulmani. Era la prima volta che la gente vedeva un missionario. Qui conobbe un vecchio cieco chiamato Karramu, che vuol dire leone. "Perché lo chiamate così?", chiese p. Silvio. "Perché quando era giovane mangiava carne umana, perciò fu accecato col veleno per renderlo innocuo".
In una lettera di quel periodo scrisse: "Per ora abito in una capanna di frasche, ma ho già preparato la fornace per cuocere i mattoni, così potrò avere una casa che mi riparerà dall'umidità della notte".
Il primo ospedaletto di p. Silvio fu una cassa di medicinali inchiodata a un grosso mango. Tra i suoi ammalati ci fu anche un lebbroso che il Padre riuscì a guarire perfettamente. Oggi quell'uomo ha nove figli. E la prima scuola fu all'ombra di quel mango. Come lavagna c'era la terra.
Una sera, alzando il lenzuolo, vi scoprì un serpente... La notte seguente fu interamente trascorsa nello spostare il lettuccio da un angolo all'altro, in cerca di un posto dove non entrasse la pioggia.
Ben presto la fornace a sette bocche sfornò 70.000 mattoni alla volta con i quali poté costruire la chiesa, la residenza dei padri e delle suore, l'ospedale, l'orfanotrofio (non esistendo mucche causa la mosca tze-tze molti bambini morivano), l'officina meccanica, la falegnameria, i dormitori per i catecumeni e le cappelle nel bosco.
Ma il fiore all'occhiello di p. Silvio fu il Centro per catechisti. Finite le elementari, i migliori si perfezionavano e si abilitavano ad andare ad insegnare, dando vita ai catecumenati. Inizialmente ne ebbe gruppi di un centinaio all'anno. Fu suo catechista il martire Cipriano, il quale, preso dai guerriglieri, chiese cinque minuti per andare in cappella e poi preferì morire al posto di un suo nemico.
Per i primi anni p. Silvio si muoveva a piedi o in bicicletta. Poi arrivò una bella moto Guzzi, solo dodici anni dopo il suo arrivo poté avere una Land Rover. Il superiore provinciale gli dava 20.000 lire al mese dicendogli: "Chi la misura, la dura". Di vino, un bicchiere alla domenica.
Una sera, essendosi rotta la moto, il Padre dovette sostare in una capanna di cristiani. Come cena gli presentarono alcuni topi arrostiti infilati su di un bastoncino. L'appetito passò improvvisamente ma, per non far torto a quella buona gente, l'ospite dovette assaggiarne una coscetta.
Scherzi della Provvidenza: un giorno p. Caselli vide arrivare nella sua missione la comboniana suor Mansueta, sua compaesana.
Disponibilità a tutta prova
Nel 1953 p. Caselli sostituì il superiore regionale (p. Zambonardi) nel Capitolo della Congregazione. Mentre poi si fermava in Italia per un servizio alla Congregazione come superiore di Trento (1955-57) e di Brescia (1957-59) le opere in Mozambico procedevano abbastanza bene pur tra notevoli difficoltà. Al Capitolo del 1959 (Caselli vi partecipò come delegato per le Scuole Apostoliche), p. Ferrero scrisse: "Le missioni in Mozambico sono solo sei perché il nuovo vescovo non ci permette di aprirne delle altre. Già ci sono otto suore comboniane che lavorano nell'ambito femminile. Le nostre scuole di missione sono 132 con 16.000 alunni".
Al termine del Capitolo, p. Caselli fu inviato a Lisbona come parroco di Paco de Arcos e procuratore dei Comboniani di quella regione. Ma nel 1961 era nuovamente in Mozambico.
Nel 1963 scrisse da Namahaca: "Stiamo cominciando l'ospedaletto-maternità. A Dio piacendo sarà l'opera di quest'anno. L'anno scorso abbiamo fatto la falegnameria e l'officina. Quest'anno le cresime sono state 884. Occorrono missionari animati da senso pratico a da spirito di sacrificio".
Tra il 1969-70 fu consigliere regionale ad interim.
Il Padre trascorrerà in Mozambico trent'anni di vita missionaria. Il suo lavoro sarà sempre contrassegnato dall'umiltà, dalla laboriosità, dallo zelo per le anime e dalla piena concordia con i confratelli. Scrive uno: "P. Caselli era gustoso. Uomo di pace, creava la pace, sia con la gente, sia in comunità. Riceveva le confidenze di molti perché era noto per la sua prudenza e santità di vita".
Intanto qualcuno dei suoi ragazzi saliva l'altare come sacerdote. "Queste sono consolazioni - scrisse - che bisogna provarle per crederle".
Alla domanda: "Come ti sei trovato in questo lavoro missionario?" il Padre rispose: "Bene, perché non ho lavorato per me stesso, ma per il Signore e per la gente". Fu in molte missioni come Mueria, Netia, Lunga...
Animatore missionario
Tutti conosciamo le vicende del Mozambico e le tribolazione cui furono sottoposti anche i nostri missionari. Le missioni con tutto ciò che contenevano furono nazionalizzate, chiuse le chiese, proibito il suono delle campane... Anche p. Caselli dovette assaggiare le sbarre della prigione. La triste esperienza gli accadde nel 1979. In un primo tempo gli lasciarono solo gli occhiali, poi gli concessero qualche altra cosa. Infine, per motivi di salute, lo espatriarono. Il suo crimine: aver celebrato la messa sotto un albero, contravvenendo agli ordini dell'autorità civile comunista.
La partenza da quella terra, che amava più di ogni altra, fu, per lui, uno schianto, alleviato solo dalla consapevolezza che nel suo sacrificio si compiva ancora una volta la volontà del Signore.
Dal 1980 al 1981 fu nuovamente in Portogallo, poi dovette rientrare in Italia perché la salute cominciava a perdere colpi. Il diabete, che lo tormentava da anni, si accentuò compromettendogli anche la vista.
Trascorse alcuni mesi al suo paese e nella casa provincializia di Bologna dedicandosi, come poteva, all'animazione missionaria. Pur conservando un certo stile tradizionale attraverso una narrativa commovente, emotiva ed episodica, sapeva trasmettere l'entusiasmo missionario che aveva dentro e con cui riusciva a contagiare gruppi giovanili e comunità cristiane.
Credeva sinceramente alla cooperazione missionaria ed era convinto che le comunità italiane sono un supporto necessario per la solidarietà, la condivisione e l'aiuto economico nei confronti dei poveri delle missioni. Presentava la cooperazione non come un'elemosina, ma come un dovere, una necessità per realizzare una vera e concreta comunione con il Terzo Mondo.
Ogni occasione era buona per parlare di missione e di impegno missionario. Il suo dire era convincente, credibile e tale da coinvolgere. Commemorò Comboni il 13 ottobre 1983 nella Basilica della Ghiara, gremita di fedeli. Alla fine di settembre del 1984 a Paullo di Casina ricordò con scultoree parole p. Pietro Valcavi, di cui si inaugurava un piccolo monumento-ricordo a lato della chiesa della sua parrocchia natale. P. Caselli parlava più con il cuore che con la preoccupazione storica, tanto più che non poteva leggere causa la vista quasi nulla.
Tramonto sereno
Dal 1982 i superiori gli indicarono come sua sede la casa di Gordola, in Svizzera. Come abbiamo visto, lasciava questo suo luogo di raccoglimento e di preghiera per andare dove era chiamato a dare la sua testimonianza missionaria.
Col passare degli anni gli acciacchi si moltiplicarono. Oltre al diabete si aggiunse, come conseguenza, anche un po' di insufficienza renale. "Non l'ho mai sentito lamentarsi o rimpiangere la buona salute di un tempo - dice p. Coser, superiore della comunità di Gordola - anzi accettava tutto con il sorriso sulle labbra e con la frase che ormai gli era diventata familiare: 'Sia fatta la volontà del Signore'. Era di esempio a tutti per il suo spirito di preghiera, (quante ore di adorazione in quella cappella!) per la disponibilità gioiosa ad andare dove c'era bisogno per la celebrazione della messa e per il ministero delle confessioni. Naturalmente veniva portato in auto perché non poteva ormai muoversi da solo. In comunità infondeva serenità e pace. Dialogava con tutti, specie con quelli che tendevano a chiudersi in se stessi, e incoraggiava".
Fu più volte ricoverato all'ospedale per cercare qualche rimedio alla sua malattia e per trovare un rimedio alle emorragie che si verificavano negli occhi. L'ultima volta che vi fu portato, si parlava già di far ricorso alla dialisi per aiutare i reni che non ce la facevano più.
Invece il Signore lo colse quasi improvvisamente, evitandogli quest'ultimo rimedio che lui considerava più un fastidio. Infatti diceva con molta concretezza: "Quando uno ha già compiuto la sua opera, è meglio che lasci il posto agli altri e se ne vada da Colui per il quale ha lavorato".
Un infarto di origine diabetica lo colse nella Clinica Santa Chiara dove si trovava da alcuni giorni e lo mandò diritto da Colui per il quale aveva lavorato.
Dopo il funerale, la salma fu portata a Poiano, suo paese natale. Qui registriamo un fatto che ha suscitato qualche perplessità. Mentre la bara, circondata dai sacerdoti concelebranti e dai fedeli, sostava in una piazzuola per l'ultimo commiato, partì da essa un raggio di luce che andò diritto verso il cielo, come è chiaramente documentato dalla foto che allego. Qualcuno commentò che era un segno della Madonna di cui p. Caselli era devotissimo.
Da p. Silvio ogni comboniano deve imparare che è bello lavorare per il Signore, e che "in tua voluntade è nostra pace".
P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 167, luglio 1990, pp. 38-44