Fr. Secondo Bertuzzi è il primo di una lunga serie di missionari comboniani, di religiosi e religiose, che provengono da Albiano, il paese del Trentino noto per le sue cave di porfido.
La sua vocazione è il frutto di un ambiente religioso che ha dello straordinario. Il parroco, don Luigi Albasini, teneva continuamente il piede sull'acceleratore perché il fervore dei suoi giovani non andasse giù di giri.
Il presidente dell'Azione Cattolica, Luigi Bertuzzi, marciava in comunione di intenti con il suo pastore. Tutte le vigilie dei primi venerdì del mese, faceva il giro delle contrade invitando i giovani a sospendere il lavoro per recarsi in chiesa dove il parroco li attendeva per la confessione. Al mattino presto, altro giro per svegliare coloro che avevano il sonno pesante, in modo che non mancasse nessuno alla comunione.
Luigi animava i suoi giovani con letture e conferenze nelle quali saltava spesso fuori il problema missionario. Ai più disponibili forniva libri e riviste perché potessero tenersi aggiornati su un argomento così importante per la Chiesa.
"Perché non ti fai frate?", gli chiedevano di tanto in tanto gli amici.
"Perché il mio compito è un altro: essere un laico impegnato nelle attività parrocchiali".
Secondo Bertuzzi respirava quest'atmosfera pregna di spiritualità. Intanto aiutava il papà, il fratello e le due sorelle nel lavoro dei campi. Nella stagione propizia diventava raccoglitore di funghi o di castagne che, col papà, andava poi a vendere fino a Mezzolombardo o a Trento.
Cinque son troppi
A 17 anni, dopo aver letto un libro missionario, Secondo si recò dal suo parroco per dirgli che avrebbe voluto entrare tra i Comboniani. Questi lo guardò negli occhi e gli disse semplicemente: "Me l'aspettavo. Ma non sei il solo". Infatti, erano ben cinque i giovani che avevano la stessa idea.
Qualche tempo dopo, il parroco scrisse a p. Francesconi, superiore del seminario missionario di Thiene, dicendo che aveva tutta quella grazia di Dio pronta per entrare in noviziato.
"Cinque tutti insieme sono troppi! - rispose il Padre -. Se uno si scoraggia, anche gli altri rischiano di venir meno. Per il momento me ne mandi uno".
Fu un batticuore la scelta di chi dovesse partire per primo. La sorte cadde su Secondo. Qualche mese dopo p. Francesconi scrisse al parroco: "Se gli altri sono come Secondo, me li mandi subito".
Partirono da Albiano ben 13 Comboniani e altri 50 giovani scelsero altre congregazioni.
"Nel 1925 - scrive p. Branchesi - Bertuzzi andò a Thiene; quello fu il suo primo incontro con la realtà missionaria e con i Comboniani; con Dio era già in intimità da parecchi anni".
Cuoco in santa allegrezza
Nel 1926 fece la sua entrata nel noviziato di Venegono Superiore. Il primo novembre di quello stesso anno indossò l'abito dei Comboniani e due anni esatti dopo (primo novembre 1928) emise i Voti.
Secondo era un giovane umile, timido al punto di non bussare alla porta di un confratello per timore di disturbare, e tanto gentile. P. Carlo Pizzioli, suo maestro, ha scritto di lui: "Posso assicurare che ha sempre dimostrato buona volontà e desiderio di progredire nella virtù. Ha fatto tesoro del tempo del noviziato, e realmente mi pare che sia fornito di quelle doti che sono necessarie nel nostro stato. In qualsiasi ufficio dove fu posto, ha dato prova di buon giudizio e criterio. E' di ingegno mediocre, ma supplisce egregiamente con tanta buona volontà. E' di fisico sano e ha un carattere quieto e tranquillo".
Tra i lavori ai quali si era dedicato in noviziato, fr. Bertuzzi curò particolarmente la cucina, diventando un bravo cuoco. Appena emessi i Voti, i superiori lo inviarono a Troia per preparare il cibo ai seminaristi che p. Sartori rastrellava nella zona. Furono anni duri, perché la casa era ancora in ristrutturazione. Regnava una povertà così radicale che molto spesso rasentava la miseria.
"Povero cuoco! - scrisse Bertuzzi riferendosi a quel periodo -. Tre pietre, sulle quali appoggiare il pentolone dell'acqua che, con l'aggiunta dell' olio, sarebbe diventata brodo per inzupparvi il pane, costituivano il focolare. La cucina era all'aperto come nei film del Far West. Se pioveva ci si metteva sotto una tettoia con il rischio di accecarsi per il fumo... Dopo il brodo si scaldava l'acqua per lavare i piatti e le posate... Che vita! Eppure quanto entusiasmo, quanta gioia! P. Sartori possedeva una carica tale di ottimismo da essere capace di fugare ogni malinconia".
Fr. Bertuzzi conserverà sempre un caro e riconoscente ricordo di p. Sartori che considerò un santo, soprattutto per il suo zelo e per la devozione alla Madonna. Pochi mesi prima di morire confidava a un confratello: "La persona che io ho più amato, più rispettato, la persona che mi ha dato una spinta che ancora continua dopo quasi 60 anni di vita religiosa, è p. Bernardo Sartori. Quando andai in Africa e mi imbattei in grosse difficoltà, fu ancora il ricordo di questo Padre, del suo esempio, delle sue parole, che mi diede la forza di andare avanti".
200 chilometri di palude
Nel dicembre del 1931 fr. Bertuzzi poté finalmente partire per la missione. Sua prima destinazione fu Mboro nel Bahr El Ghazal dove p. Arpe faceva mirabilia.
"Per arrivare a destinazione - scrisse il Fratello - dovetti camminare a piedi nudi attraverso una palude di quasi 200 chilometri con l'acqua che, qualche volta, arrivava fino alla cintola".
In quel suo primo viaggio c'erano anche delle suore, anch'esse alle prime armi nella vita missionaria. I confratelli dovettero, ad un certo punto, improvvisare delle portantine per aiutare queste giovani suore ad attraversare punti particolarmente difficili della palude. I piedi sanguinavano, la paura, specie durante la notte, era tanta e la meta sembrava sempre più lontana.
Missionario fallito
Confidandosi col p. Branchesi, superiore della casa di Arco, fr. Bertuzzi riconosceva umilmente di non essere stato una bravo missionario.
"Sono arrivato sfinito laggiù e ho fatto ben poco. Ho solo impastato mattoni, non sono riuscito a imparare la lingua, né a predicare, né a fare catechismo. Come ho potuto ho aiutato gli altri padri e i fratelli più bravi di me... Si, la mia missione è stata un fiasco".
"Era sincero - scrive p. Branchesi - era sincero perché era umile. Allora io gli dicevo: 'Senti Fratello, si, forse è vero, la tua vita è stata un fiasco... come quella di Cristo che non è riuscito a convertire il mondo restando in mezzo a noi 30 anni, e neanche l'ha convertito con 3 anni di predicazione. Ma guarda cosa ha fatto con 3 ore sulla croce!'. Potrei parlare a lungo dell'apostolato della sofferenza e della preghiera di fr. Secondo", conclude Branchesi.
Un calvario lungo 45 anni
Fr. Bertuzzi resistette in Sudan solo cinque anni prestando la sua opera anche a Dem Zubeir e al Bussere. Date le condizioni del clima, costituirono un periodo abbastanza lungo anche se altri, a quei tempi, facevano periodi di 15 o 20 anni. Quando rimpatriò, la croce che si portava dentro causa le ripetute malarie che lo colpirono, non lo abbandonò mai.
Alla malaria si aggiunse anche la tubercolosi con i periodici ricoveri in ospedali e sanatori. Fu a Trento, Brescia, Roma, Verona... e nel 1946 abitò per primo la casa di Arco, riservata, allora, ai malati di polmoni, anche se non era del tutto sistemata.
Da uomo saggio, sapeva amministrare bene la sua poca salute. Era, infatti, convinto che un missionario sano può fare di più di uno malato, anche se la malattia diventa mezzo prezioso di salvezza per sé e per gli altri. Per questo cercò con ogni mezzo di star meglio, di guarire se era possibile. E vi riuscì, anche se non completamente, tanto da poter diventare aiutante nell'ufficio amministrativo delle riviste a Verona e poi a Napoli.
Innamorato della natura
Coloro che sono vissuti accanto a lui ricordano la sua mitezza e la sua ingenuità. Gli piacevano tanto i film western, ma si arrabbiava quando vedeva la fila interminabile di nomi che precedeva l'inizio della vicenda. Tanto che un confratello una sera gli disse: "Se io fossi in voi, Fratello, scriverei a quelli della televisione di eliminare tutta quella filastrocca inutile!".
"Bisognerebbe proprio farlo!", rispose. Altra sua passione erano le passeggiate per gustare i panorami. Napoli è piena di opere d'arte, ma queste non lo interessavano eccessivamente. Egli voleva vedere i panorami. E stava dei quarti d'ora immobile a contemplare. Per lui quei momenti erano preghiera. Un giorno si volle andare a vedere il cratere del Vesuvio. Giunti sotto il cono con l'auto, ci si accorse che la funicolare non funzionava essendo lunedì, giorno riservato alla manutenzione della medesima.
"Andiamo su a piedi, in tre quarti d'ora ci si arriva", esclamò deciso. Un tassista che aveva portato dei turisti sentì quelle parole e gli disse: "Siediti qui, vecchietto, e aspetta; non è più per te quella scalata!". Bertuzzi lo guardò bieco e disse ai compagni: "Andiamo! Arrivano in cima perfino i muli!".
Il sentiero era scivoloso a causa della cenere per cui si facevano due passi avanti e uno indietro. Tuttavia Bertuzzi raggiunse la vetta per primo. Si sedette sull'orlo del cratere e stette immobile per qualche tempo. Quell'orrido lo affascinava. Al ritorno disse al tassista: "Il sentiero è libero, se vuoi provarci!"
Mai stanco di ascoltare
"Ho capito ancora di più Bertuzzi - scrive p. Branchesi - quando ho appreso la notizia della sua morte. Entrando nella sua stanza, trovai una pila di quaderni in buon ordine. Allora mi ricordai che spesso mi diceva: 'Io non so parlare, ma non mi sono mai stancato di ascoltare una predica'. Che bello l'uomo in ascolto nell'umiltà del cuore!
Fr. Secondo non solo ascoltava volentieri la Parola di Dio, la voce dei suoi superiori, ma scriveva anche queste parole. Fra tanti quaderni ne aprii uno per caso. Era stato scritto cinquant'anni prima, nel settembre del 1939 durante gli esercizi spirituali. Mi balzò sotto gli occhi questa frase: 'Ancora più apostolico della preghiera è il sacrificio; e la preghiera stessa, se non è fecondata, se non è bagnata da una goccia di sangue, vale poco'".
Gli hanno voluto tanto bene
Nel 1982, dopo dieci anni di attività, fr. Bertuzzi lasciava Napoli per ritornare ad Arco dove si sarebbe preparato nel raccoglimento e nella preghiera all'incontro col Signore.
Trascorse anni sereni, pure nella sofferenza quotidiana causatagli dal cuore sempre più debole e stanco. Molti confratelli gli scrivevano o, quando potevano, andavano a trovarlo. Era contento di vedere i confratelli, di parlare con loro. Era visitato con frequenza anche dai parenti.
"Lo abbiamo sempre considerato come il patriarca della nostra famiglia, la persona più importante, il consigliere, colui che pregava per noi e ci teneva sempre davanti al Signore. Oh! gli abbiamo voluto tanto bene, ma anche lui ne ha voluto tanto a noi!", hanno detto.
Periodicamente, i suoi nipoti andavano a trovarlo anche quando era a Verona, a Roma e perfino a Napoli. Stare con lo zio era un piacere, una lezione di vita da non perdere. Eppure non diceva cose difficili o complicate, parlava come un uomo ricco di buon senso che sa dare il giusto valore alle cose e agli avvenimenti giudicati sempre a lume di fede.
Riposa con i suoi
Aggravatosi improvvisamente dopo un mese trascorso all'ospedale "Le Palme" di Arco, giovedì 18 maggio fu portato direttamente all'ospedale di Verona, Borgo Trento. Vi trascorse solo una notte. I sanitari, infatti, diagnosticarono un tumore ai polmoni con metastasi alla testa. Giudicando che non c'era più niente da fare, acconsentirono che venisse portato in Casa Madre per spirare "tra i suoi".
Trascorse la domenica pomeriggio in compagnia dei parenti che, in folto gruppo, erano venuti da Albiano a trovarlo. Parlò con loro, scherzò, non dando a vedere che la sua fine era così imminente.
Improvvisamente, fu preso da un malore e reclinò il capo sulla spalla. I parenti e l'infermiere subito accorsi si guardarono in faccia. Fr. Secondo già camminava lungo le vie del cielo a ricevere la mercede del servo buono e fedele.
Dopo i funerali in Casa Madre, la salma è stata portata nel cimitero di Albiano dove riposa accanto a fr. Gustavo Bertuzzi che lo aveva seguito nella vocazione e preceduto alla Casa del Padre. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 164, ottobre 1989, pp.59-63