Primogenito di sette figli, aveva un carattere aperto e allegro. Dal suo spirito umoristico, dalla battuta pronta e brillante, traspariva una serenità che era segno di una chiarezza e ricchezza interiore e profonda. Mario crebbe sano, anche se non era un asso quanto a salute, sotto le cure di papà Battista e di mamma Giuseppina Sopperra, una donna tutta per il Signore e per la sua famiglia.
Mario frequentò le prime tre classi elementari nella scuola di Vigo; per la quarta e la quinta dovette andare a Vallonga di Vigo: un buon tratto di strada che percorreva a piedi con la cartella a tracolla e un pezzo di pane e formaggio in tasca. Era un ragazzo buono, mite, incapace di arrabbiarsi e sempre sorridente. Alle volte i compagni ne approfittavano e lo prendevano in giro. Egli perdonava volentieri perché, in cuor suo, aveva già deciso che da grande si sarebbe fatto prete. E i preti, come si sa, devono essere i primi nella evangelica legge del perdono.
Nel 1938 lasciò il paese ed entrò nel seminario diocesano di Trento. Volle subito far parte del Circolo Missionario e si dilettava nella lettura delle riviste missionarie, prima il Piccolo Missionario e poi "La Nigrizia". Con i compagni confezionava corone del rosario che poi vendeva per mandare il ricavato alle missioni.
Andò avanti serenamente fino alla teologia. Qui cominciarono i dubbi sulla sua vocazione. Non che volesse piantar tutto per tornare al paese, ma era incerto se doveva lasciare il paese e tutto il resto per andare in Africa come missionario. La lettura sempre pi- frequente di biografie di missionari lo spingeva su questa linea.
Parlò di questi suoi "crucci" al padre spirituale dal quale ebbe tanta luce e chiarezza. Poi prese la penna e scrisse a padre Giacomo Andriollo, colui che rispondeva alle lettere sul Piccolo Missionario.
"Molto Reverendo padre Giacomo, sono un chierico del secondo corso teologico del seminario di Trento e intendo farmi missionario nel suo Istituto. I motivi che mi inducono ad abbracciare la vita religiosa nella sua congregazione sono il desiderio di soffrire e di sacrificarmi per i poveri pagani dell'Africa e trovare così una via pi- sicura per santificare me stesso. Ho sempre avuto grande stima dei Comboniani, ma ora mi sento portato irresistibilmente a farvi parte, specialmente per la vostra vita povera, austera e soprattutto caratterizzata da una grande carità. Vi scrivo non per chiedervi un parere sulla mia vocazione, che è stata esplicitamente approvata dal mio padre spirituale dopo maturo esame e le debite prove, ma piuttosto per chiedervi dei consigli sul modo migliore di passare il tempo che mi separa dall'entrata in noviziato. Per ora nessuno, tranne il padre spirituale, sa di questa mia vocazione, né vorrei che lo sapessero i miei compagni; pi- tardi, col vostro consenso e se sarò accettato, e con quello del padre spirituale, lo dirò io stesso anche a loro… Ora attendo con ansia la vostra risposta, non però sul Piccolo Missionario. Sto leggendo proprio ora la vita di fratel Giosuè dei Cas e poi leggerò quella di padre Vianello. Termino chiedendovi la benedizione" (Trento 21 febbraio 1947).
Il rettore del seminario scrisse: "Mario Vian è un chierico di ottime speranze, di pietà soda, senza sentimentalismi, di carattere ottimo, aperto e bonario. E' di intelligenza buona e, quanto a salute, senza essere un gigante, sta bene. Condotta morale ottima sotto ogni aspetto. Da quanto mi consta è una vocazione maturata bene, senza eccessivi entusiasmi e ben equilibrata. Come seminarista posso classificarlo ottimo". Come si vede, la parola "ottimo" torna sovente in queste poche righe.
Il chierico Vian venne accettato. I suoi genitori si dichiararono felici di poter dare un figlio alle missioni, "anche se - scrisse il chierico con molto realismo - soffrirono un po' nel vedermi partire quando stavano per raccogliere i frutti di 10 lunghi anni di continui sacrifici".
Un particolare che mette in risalto il suo amore all'Istituto, ancora prima di farne parte, è sottolineato dalle seguenti parole scritte in una lettera: "Avrei qui a casa la macchina da scrivere. Potrebbe essere utile al loro Istituto? Se lei mi dice che ne hanno bisogno, che può servire, io la porto senz'altro. E non mi preme neanche di poterla usare. Basta che serva agli altri".
Un altro passo ci dice quanto la virtù della castità stesse a cuore al nostro seminarista: "So che in Africa vi saranno molti pericoli quanto alla bella virtù. E io ho un po' di paura perché ho anch'io le mie tentazioni. Sono sicuro, però, che il Signore è largo dei suoi doni a chi li chiede con fiducia".
Col passare dei giorni aumentava il desiderio di entrare presto in Istituto. Un desiderio colorato dai sogni che solo un'anima candida come il chierico Mario poteva avere. "Il pensiero di entrare tra voi mi ha conquistato talmente che non mi lascia mai. Lo sogno di notte e penso quando dormirò per terra sotto la tenda in mezzo alla foresta, ecc. Questo pensiero, però, è ben lontano dall'essere un'ossessione: è invece un pensiero calmo, che mi dona pace e conforto. E termino sempre ringraziando il Signore d'avermi chiamato a questa vita. Egli, che mi ha condotto fin qui, mi spianerà la strada verso tutte le difficoltà e mi farà diventare un santo missionario, basta che io lo voglia. Ancora un mese di seminario e poi sarò sempre con voi. Le dico ancora che sono felice; l'uomo pi- felice. Oh! quanto è bella la vita se è spesa per un nobile ideale!"(Trento, 30 maggio 1947).
Comboniano
Il 18 agosto 1947 Mario poté finalmente entrare nel noviziato di Firenze. Maestro dei novizi era padre Audisio con il quale, poi, lavorerà in Brasile. Il maestro fu subito entusiasta di un discepolo che era entrato tra i Comboniani immaginando la vita missionaria come una sequela di sacrifici e rinunce.
"Entrato in noviziato con un grande desiderio di santificarsi, anche per mezzo di qualche particolare mortificazione, rimase sorpreso come tutto fosse così facile nel noviziato e ci fosse tanto poco da soffrire. Pi- che esatto nell'osservanza delle sue regole, ne dimostra tutta la stima impegnandosi perché anche dagli altri vengano osservate, nella sua qualità di vice-bidello. E' un po' esigente con gli altri (tuttavia è pieno di riguardi con tutti), ma lo è perché è esigentissimo con se stesso.
Non si notano in lui particolari doti di intelligenza, ma grande buona volontà e capacità sufficienti. Ubbidiente, umile e laborioso, è desideroso di migliorarsi sempre di pi-. A questo va unito un criterio ed un buon senso di uomo maturo. Di carattere è docile, gioviale ed allegro. E' sempre uguale in ogni circostanza. Salute ottima. Insegna latino in prima liceo". Questo il giudizio di padre Audisio.
Alla fine del noviziato il Maestro sottolineava come in Mario si era affinato lo spirito di servizio verso gli altri e come era aumentato il suo amore alla regola e alla disciplina. E aggiungeva: "Soffre intimamente quando vede qualcuno venir meno al suo dovere. Non ha mai avuto il minimo dubbio circa la sua vocazione".
Durante il secondo anno di noviziato, Mario frequentò il terzo anno di teologia. Il 9 settembre del 1949 emise i Voti e poi fu trasferito a Venegono Superiore per il quarto corso teologico.
Venne ordinato sacerdote a Milano il 3 giugno 1950.
Anziché andare sotto la tenda in una foresta africana,
padre Mario fu inviato a Verona come addetto alla tipografia. Doveva tenere la contabilità e dare una mano a padre Uberti, incaricato della medesima. Nelle ore libere, si recava presso la chiesa di San Tomio per il ministero delle confessioni.
Riusciva bene nei conti, perché era un tipo preciso, minuzioso ed esatto. Così, dopo qualche mese, i superiori pensarono di inviarlo a Carraia come economo. Un anno dopo, il 10 ottobre 1951 andò a Viseu, in Portogallo, per prepararsi alla missione del Brasile che stava aprendosi ai Comboniani.
In Brasile
Nel luglio del 1952 padre Mario raggiunse la missione di Loreto nel Brasile del nord, con l'incarico di superiore, per passare, un anno dopo, a Riachao sempre come superiore. Erano i tempi duri degli inizi, dove bisognava cominciare da zero su tutte le linee, sia quelle pastorali come quella dell'organizzazione degli edifici, dell'orto e dei viaggi che si facevano a dorso di mulo.
Padre Mario lavorò sodo, dando tutto se stesso, impegnato com'era nelle visite ai villaggi e negli incontri con la gente, specialmente con i ragazzi e i giovani che erano completamente digiuni di nozioni catechetiche.
I suoi viaggi di evangelizzazione da un villaggio all'altro nelle sconfinate praterie, lo impegnavano per intere settimane. I disagi che doveva superare alle volte erano superiori alle sue forze. Tanto pi- che per questi spostamenti poteva servirsi solo del mulo. "Un giorno - scrisse in una lettera ai familiari - durante uno dei miei soliti viaggi, essendo il prossimo villaggio ancora lontano e la notte già vicina, non mi restò che improvvisare un pernottamento all'addiaccio. Sapendo che quella era zona infestata da pericolosi serpenti, decisi di arrampicarmi su di un albero e improvvisare su di esso, tra foglie e rami, una specie di letto. Anche se il materasso non era dei pi- confortevoli e stabili, riuscii a sonnecchiare. Al sorgere dell'alba, però, dovetti amaramente constatare che la mia cavalcatura era sparita. Qualcuno se l'era fatta sua. Confidando nella Provvidenza, caricai sulle spalle quanto mi era rimasto e mi rimisi in viaggio".
Dopo un paio d'anni di questa vita, padre Mario dovette andare nella pi- centrale e pi- confortevole missione di Balsas per curarsi la salute. Lì fratel Todesco era riuscito a dissodare un pezzo di terra arida e trasformarla in un orto che forniva una certa varietà di verdure.
Per quattro anni, fino al 1958, padre Mario sarà procuratore della missione e segretario di mons. Parodi, vescovo di Balsas.
Coprì la carica di segretario con esattezza, fedeltà e competenza. Un tipo come lui era tagliatissimo per questo genere di lavoro. Compilando un foglio "attitudinale", alla domanda: "Quali attitudini credi di avere?" rispose: "Sono più portato per i lavori sedentari che di movimento. Mi piace il ministero della predicazione e delle confessioni. I viaggi mi stancano eccessivamente. I superiori che mi hanno conosciuto giudichino se ho qualità come padre spirituale o come amministratore".
Anche la salute, intanto, perdeva colpi. Già nel 1957 il padre provinciale, Domenico Seri, aveva scritto: "Se non sarà richiamato in Italia, mai si rimetterà completamente in salute".
Tuttavia il Padre non si tirava indietro neanche quando doveva sostituire provvisoriamente i confratelli che andavano in vacanza o a fare gli esercizi. E' arrivato a cambiare destinazione anche tre volte in 20 giorni. "A me basta sapere che questa è l'obbedienza, cioè la volontà di Dio", scriveva.
Dopo una scappata in patria per tre mesi di vacanze (giugno - settembre '58) durante i quali si prestò come predicatore di giornate missionarie nella Casa Madre di Verona, i superiori lo mandarono a Viseu, in Portogallo, a fare il padre spirituale dei seminaristi comboniani. Vi rimase fino al 1961 instillando in quei giovani tanta stima alla vocazione missionaria e tanto amore alle anime. Stima e amore che giustificavano largamente i sacrifici che bisognava affrontare per perseverare. E di sacrifici se ne facevano tanti in Portogallo. "Qui si lavora molto, si mangia male e si patisce tanto freddo", scriveva. Però aggiungeva anche: "Non mi trovo male e non sarò mai io a forzare la mano dei superiori per andare in Brasile a tutti i costi. Non mi voglio prendere questa grave responsabilità. Desidero solo fare presente il mio desiderio vivissimo, la mia disponibilità, ma tutto condizionato al beneplacito dell'obbedienza".
Il forte richiamo
Il richiamo del Brasile si faceva sentire con sempre maggior insistenza per cui, il primo gennaio 1962, s'imbarcò di nuovo per la terra che ormai sentiva di amare pi- di ogni altra. Ma invece di andare sul campo, dovette chiudersi in un ufficio di Rio de Janeiro per fare il superiore e il procuratore. Egli che aveva esperimentate le necessità e i disagi di chi è in prima linea, si fece in quattro per venire in aiuto ai confratelli e per poter soddisfare nel modo pi- esauriente le loro necessità.
La sua vita, però, non era fatta solo di aridi numeri. Appena poteva si dedicava con vera passione e zelo al ministero. Divenne confessore e padre spirituale di una fitta cerchia di anime, anche di suore, che ricorrevano a lui per usufruire della sua esperienza e della sua bontà.
In questo ministero padre Vian passò sei anni. Furono anni sereni, pieni di soddisfazioni, anche se il richiamo della prima linea ogni tanto gli faceva sognare le sue prime missioni del nord.
Erano ormai passati 16 anni dalla sua prima andata in Brasile. C'era stato il Concilio Vaticano Secondo, si parlava di missione nuova, di comunità di base e di tante altre cose che potevano lasciare perplesso qualcuno che, di natura, non era un "avanguardista". Inoltre, nel 1968 ebbe un brutto incidente di tram che gli compromise il buon funzionamento del ginocchio, rendendogli difficoltosa la deambulazione. A questo guaio si aggiunse quello dei "tempi nuovi", delle idee nuove che scuotevano le convinzioni e i principi di quelli della prima ora.
Padre Mario sentì il bisogno di confrontarsi, di fermarsi, di aggiornarsi. Chiese ed ottenne di andare a Roma per il Corso di aggiornamento che fece dall'ottobre del 1968 al marzo del 1969.
Poi tornò nuovamente in Brasile, al vecchio amore, nelle missioni di Pastos Bons e poi di Balsas, come segretario e vicario generale del Vescovo. I suoi compaesani di Vigo scrissero che padre Mario era quasi vescovo e bisognava chiamarlo monsignore. Egli sorrise e rispose che era vescovo come la "java" (nonna Maria) una vecchietta che tutti conoscevano per le sue trovate umoristiche.
Coprì la carica fino al 1975, data in cui tornò in Portogallo per diventare amministratore delle riviste missionarie che hanno sede a Lisbona, e procuratore.
Nel dicembre del 1980 era nuovamente in Brasile, a San Luis, nello Stato del Maranhao con la nomina di parroco della centrale chiesa di San Giovanni.
Trepidante attesa
Essendo rimasto per quasi 6 anni assente dal Brasile senza rinnovare il visto, padre Mario aveva perduto il diritto di permanenza in quella nazione. Quando vi ritornò, lo fece con un permesso "ad tempus", quasi come un turista, sperando di ottenere il permesso di permanenza stabile una volta giunto a destinazione. Non fu così. Dopo un poco, infatti, la polizia cominciò a ricordargli che doveva lasciare il Brasile. Tanto pi- che padre Mario era andato in una parrocchia dove, prima di lui, c'era stato un confratello che aveva fatto arricciare pi- volte il naso ai "tutori dell'ordine" per le sue idee - sempre secondo il regime - troppo avanzate.
Qui cominciarono i corsi e i ricorsi tra curia e sede provincializia, che proclamavano la necessità della permanenza in Brasile di padre Mario per il bene della Chiesa e della gente, e il tribunale, che si appellava alla legge per sollecitare la sua uscita dal Paese.
Le carte si ammucchiarono fino a riempire un sostanzioso dossier con proposte e controproposte, richiami di una determinata legge e contrapposizione di un'altra legge. Padre Mario visse mesi, anzi, anni di trepidante attesa.
Questa situazione di incertezza e di instabilità non gli impedì di dedicarsi anima e corpo al ministero. La sua parrocchia funzionava bene, perfettamente organizzata: visite ai malati, incontri con la gente e con i giovani, catechesi, sacramenti, preparazione dei fidanzati al matrimonio, animazione dei catechisti… In una lettera egli scriveva: "Che il Signore mi aiuti ad essere fedele annunziatore della Parola che salva con l'esortazione e, pi- ancora, con l'esempio della vita".
La presenza di padre Mario in quel periodo fu provvidenziale in quanto, essendo sorti dei conflitti in comunità (a San Luis c'erano due comunità comboniane) egli faceva da pacificatore.
Chi era presente in quel periodo assicura: "Padre Mario era veramente un uomo di pace. Con il suo sorriso, con il suo equilibrio, con la sua calma e padronanza dei nervi lasciava che tutti si sfogassero, poi, quasi sottovoce, ma con fermezza, diceva la sua opinione che era normalmente quella giusta o, comunque, quella capace di tranquillizzare le acque. Stranamente tutti avevano di lui un grande rispetto e anche i pi- focosi, di fronte alla sua parola e al suo atteggiamento, si ammansivano. Sono certo che questa autorità morale che Mario aveva, gli derivava dalla sua vita interiore intensamente vissuta. Era, infatti, un uomo di molta preghiera. Gli derivava anche dal suo buon esempio. Di fronte ad uno che si comporta da vero religioso, che è coerente nelle sue azioni con quanto dice con la bocca, ci sono pochi salti da fare. Tutti avevano di lui la massima stima e il massimo rispetto. Sì, la sua presenza a San Luis in quegli anni fu davvero provvidenziale".
Passarono quattro anni. La permanenza in Brasile di padre Mario era sempre pi- difficoltosa. Come reagì egli di fronte a questo via vai di pratiche? Lo fa sapere in una lettera scritta ai superiori di Roma: "Del mio visto di permanenza non so pi- nulla. Il segretario generale della CNBB dice che il mio caso è difficile. Io non mi pongo questo problema, preferisco obbedire come ho fatto tante altre volte" .
A Roma, umile e fedele
A Roma, intanto, nella casa generalizia, c'era urgente bisogno di un uomo che affiancasse padre Orlando nella carica di vicario generale e di archivista della Congregazione. Padre Vian poteva essere il soggetto giusto. Infatti non deluse le aspettative dei superiori. Dopo alcuni mesi di prova, il padre generale gli diede la nomina ufficiale (anche se era una nomina ad interim in quanto l'Amministrazione in carica stava per scadere e presto ci sarebbe stato il nuovo Capitolo). "Siamo stati contentissimi della scelta che abbiamo fatto; non solo in considerazione del tuo rendimento e del servizio che dai, umile e fedele, quotidianamente, ma soprattutto perché, per fare questo, hai dovuto rinunciare alla tua missione in circostanze non certo facili… Grazie, padre Mario, per la tua dedizione, per la tua disponibilità, per il servizio prezioso, anche se nascosto - forse proprio perché nascosto - che rendi ai confratelli e alla Congregazione (17 dicembre 1984).
Con il nuovo Capitolo, padre Vian conservò la carica di archivista, un lavoro capace di assorbire completamente la giornata di un confratello. Un lavoro, inoltre, che richiedeva pazienza, costanza, calma e attenzione perché c'era da aggiornare i dati e i luoghi di missione di ogni confratello.
A detta di tutti, anche nella casa generalizia padre Mario fu di vera edificazione. Con semplicità accoglieva i nuovi venuti e si fermava, senza mostrare fretta, per scambiare due chiacchiere, per chiedere notizie sulla salute e poi della missione o della casa da dove il nuovo arrivato veniva. "Ogni mattina, immancabilmente - afferma suor Rosaria che lavora in un ufficio vicino a quello che fu di padre Mario - il Padre passava, metteva dentro la testa, salutava e augurava buona giornata e buon lavoro, accompagnando le parole con il suo solito sorriso rassicurante. Si vedeva chiaramente che aveva stima delle persone, che apprezzava il loro lavoro, che comprendeva le inevitabili difficoltà. La sua parola era di stimolo e di incoraggiamento, di aiuto fraterno e di invito a mettere tanta fede e tanta retta intenzione in ciò che si faceva. Per me padre Vian era un vero santo. Mai una arrabbiatura, mai una parola contraria alla carità, mai un commento meno favorevole nei confronti degli altri. Per lui tutti erano bravi e buoni. Con il suo sorriso e col silenzio, se era necessario, risolveva ogni cosa".
Potrei dire qualche cosa anch'io della cura e della sua sollecitudine con la quale mi passava le cartelle per preparare i necrologi dei confratelli. Si preoccupava di fornirmi i dati mancanti e mi mandava con sollecitudine le eventuali testimonianze che arrivavano dai confratelli sui vari defunti. Scherzosamente, consegnandomi i plichi, mi diceva ogni volta: "Prossimamente sarà anche per me". Ed io, altrettanto scherzosamente: "Vai tranquillo, Mario: ti farò un bel lavoretto". Non credevo che ciò si sarebbe avverato.
La morte lo colse sulla breccia, come un buon soldato. Padre Mario ebbe un attacco di influenza come altri confratelli e molta gente in quel periodo. La portò un po' a letto e un po' in piedi perché appariva "normale". Durante la notte tra il 18 e il 19 marzo, padre Gilli si accorse che il confratello si agitava e si lamentava in modo strano. Corse a chiamare il superiore, padre Leso. Arrivò immediatamente anche il medico, uno scolastico che risiedeva in casa, quindi anche la suora infermiera. Si vide subito che la cosa era piuttosto grave. Il Padre, infatti, era in stato di quasi incoscienza. Verso le cinque arrivò l'ambulanza del pronto soccorso e portò l'ammalato all'ospedale S. Eugenio. I sanitari diagnosticarono che si trattava di un brutto infarto e cercarono di prestare le cure del caso.
Il Padre, intanto, ricevette tutti i sacramenti rispondendo come poteva alle preghiere. La situazione, dopo una stasi, peggiorò improvvisamente. Alle ore 13 e 30 di quel 19 marzo subentrò un ictus cerebrale e per padre Mario fu la fine. Nell'ultima lettera alla sorella Rita, pochi giorni prima della morte, aveva scritto, tra l'altro: "E' bello aiutarsi fra vivi e anche fra morti. La comunione dei Santi vuol dire proprio questo". Forse un presentimento della sua dipartita?
Dopo i funerali in casa generalizia, la salma proseguì per Vigo di Fassa dove, il 22 marzo, si rinnovarono le esequie con la partecipazione di molti confratelli, sacerdoti e fedeli. Era presente anche suo fratello comboniano, fratel Giovanni, convalescente da una difficile operazione.
Dopo la cerimonia, padre Leso portò ai familiari, con le condoglianze e la partecipazione dei superiori e dei confratelli, i ricordi dello scomparso: tre corone del rosario, una delle quali donatagli dal Papa, un'agenda con tanti indirizzi e l'orologio che aveva al polso al momento della morte. Nient'altro. Questo suo distacco dalle cose temporali, questo suo esempio di povertà ha lasciato commossi tutti i paesani che, al di là della tomba, sentono ancora il messaggio evangelico proclamato ai poveri di questo loro concittadino.
I confratelli colgono da padre Mario la testimonianza di un autentico comboniano che è stato coerente con se stesso conservando lo spirito del noviziato fino alla fine, nel lavoro silenzioso e costante, nella preghiera incessante e nell'esercizio della carità. In questo modo ha saputo costruire il Regno di Dio nella sua vita di consacrato e in coloro che gli sono stati vicini. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 159, ottobre 1988, pp.73-80