Ernesto Luigi Berto proveniva da una famiglia numerosa: due fratelli e nove sorelle. Appena terminate le elementari, espresse il desiderio di farsi missionario. "Erano tempi difficili - scrive il fratello Giuseppe - perché le condizioni economiche erano precarie, le bocche da sfamare tante, ed io mi trovavo sotto le armi. La fede in casa nostra, per•, era viva e la certezza che la Provvidenza non sarebbe mai venuta meno era più grande del bisogno. Il Signore mostrò la sua benevolenza verso di noi chiamando Ernesto alla vita missionaria e una sorella a quella religiosa nella Congregazione delle Suore della Passione di Gesù. Quando io ritornai dal lunghissimo periodo di guerra, Ernesto era in Inghilterra per completare il periodo di noviziato".
Con questi scarni tratti il fratello delinea il contesto di fede e di sofferenza nel quale è maturata la vocazione di Ernesto.
Terminate le elementari, il ragazzino fu accolto nel seminario missionario comboniano di Padova. Ma forse per la scarsa preparazione avuta nella scuola elementare del paese, faticava negli studi, tuttavia la sua applicazione fu sempre encomiabile e riconosciuta dai superiori.
Dopo la terza media, si trasferì con i compagni a Brescia per la quarta e quinta ginnasio.
Missionario ad ogni costo
Ernesto aveva paura ad affrontare gli studi. Gli sembravano troppo difficili e complicati per le sue capacità Un giorno andò dal superiore e gli disse: "Non so se ce la farò con il greco e la matematica, tuttavia io voglio essere missionario a tutti i costi. Se non posso diventare sacerdote, per me va bene anche diventare fratello". Padre Dell'Oro sorrise e gli assicurò che, se era solo per gli studi, sarebbe diventato sacerdote e anche... vescovo. Ernesto ritrovò la sua serenità e si impegnò ancora di più nella selva dei numeri e delle lettere greche.
Il 16 giugno 1946, dopo aver conseguito la promozione con voti discreti (quattro 6, un 7, due 8, un 9 e due 10), il giovane stese la sua domanda per entrare in noviziato. La riportiamo, perché ci svela una parte di anima di questo futuro missionario responsabile ed impegnato fin quasi allo scrupolo.
"E' col cuore pieno di gioia che ora mi inginocchio innanzi al Signore per chiedere a lei, Reverendissimo Padre, una grande grazia, grazia che da più di cinque anni sospiro: l'ammissione al nostro noviziato. Se nei primi quattro anni di scuola apostolica sentivo vivo in me questo desiderio, ora che il sogno sta per realizzarsi, uno strano tremore m'invade, la paura di non essere sufficientemente preparato a tanta bontà da parte del Signore.
Prima di mettermi a scrivere questa lettera, più d'una volta bussai alla porta del Reverendissimo Padre spirituale, per chiedere minute informazioni e, soprattutto, per chiedere se veramente sono in grado di compiere questo grande passo. La risposta che ogni volta ricevetti fu sempre un vivo incitamento a fare la domanda.
Non le nascondo, Reverendissimo Padre, la difficoltà negli studi. Se oggi sono arrivato alla fine del quinto corso ginnasiale, lo devo ai miei buoni superiori che, nonostante la mia debole intelligenza, sempre mi spronarono a continuare nella vita intrapresa, esortandomi a mettermi interamente nelle mani del Signore. Ora, giunto il momento dell'ultima decisione, tutto mi metto anche nelle sue mani e l'assicuro, amatissimo Padre, che riceverò come volontà di Dio la sua ultima decisione...(Brescia 16 giugno 1946). Il 12 settembre seguente, entrò nel noviziato di Firenze.
Trapianto in Inghilterra
Ernesto affrontò subito la nuova vita con estrema serietà, tanto che padre Patroni, maestro dei novizi, poté scrivere: "E' uno dei novizi migliori del primo anno. Fin dall'inizio si mise con impegno nel suo lavoro di formazione e vi continua con profitto. Ama il sacrificio, osserva bene le regole e compie con diligenza le pratiche spirituali. Di carattere è espansivo e allegro, senza cadere in esagerazioni. Benché magro, è sano fisicamente e non ha mai accusato alcun disturbo. Dà speranza di ottima riuscita per la convinzione e lo spirito di fede con cui lavora".
A quei tempi si usava mandare qualche novizio di Firenze (e in seguito anche di Gozzano) all'estero per completare il noviziato. Logicamente venivano scelti coloro che davano migliori garanzie di riuscita e che erano in grado di apprendere con una certa facilità la nuova lingua. Benché non fosse una cima, Ernesto venne mandato in Inghilterra. Con il suo comportamento avrebbe potuto contribuire a dare un'impronta di combonianità e di impegno a quel giovane noviziato. Le aspettative dei superiori non furono deluse. Scrive padre Albertini, maestro dei novizi di Sunningdale: "Si applica con impegno e moderazione in tutto. Riceve umilmente ammonizioni e osservazioni e cerca seriamente di correggersi. E' di buon esempio a tutti".
Poi segue un'osservazione interessante: "Quantunque sembri mediocre, e quantunque in passato abbia incontrato serie difficoltà riguardo allo studio, qui - testimoniano tutti gli insegnanti - con la sua diligente applicazione, ottiene un risultato più che soddisfacente. Nella sua attività mostra spirito di iniziativa e di organizzazione. E' riflessivo e ordinato. Ama dipendere in tutto. E' molto sensibile e affettuoso per cui ha bisogno di essere compreso, sorretto e incoraggiato. Nessuno ha dubbi riguardo alla sua idoneità per la professione religiosa".
Nella domanda per la professione trapela l'eco delle sofferenze e delle lotte sostenute per giungere a quella meta. "E' col cuore pieno di gioia che ora umilmente chiedo ciò che ho sempre intensamente bramato. Proprio ora, mentre scrivo, passano nella mia mente tutte le sofferenze, le lotte, i pericoli, i momenti di ansia che incontrai e superai con l'aiuto del Signore e della Madonna lungo la non facile strada della mia formazione. Le confesso che, negli anni trascorsi, dovetti lottare molto per la mia vocazione che ho amato più di ogni altra cosa. Ora, grazie al cielo, tutto è passato e mi sento veramente felice di essere giunto al sicuro dopo una lunga notte di burrasca.
In questi due anni di noviziato ho potuto rendermi conto che, se la vita religiosa porta con sé dei sacrifici, offre però, a colui che cerca di viverla bene, pace e grandi gioie spirituali.
Sicuro dell'aiuto della Madonna e spinto da un grande desiderio di offrirmi vittima al Signore per il bene della mia povera anima, della Congregazione e degli infedeli, le chiedo la grande grazia di essere ammesso a far parte della Congregazione con la professione religiosa".
Padre Albertini aggiungeva: "Raccomando umilmente, ma caldamente questa domanda. Fr. Ernesto mostra tanto attaccamento alla sua vocazione, tanta buona volontà di lavorare e di corrispondervi, tanto criterio e senso pratico, tanto spirito soprannaturale e tanta iniziativa, che tutti fanno previsioni che sarà un santo missionario".
Il 7 ottobre 1948 Ernesto emetteva i primi Voti temporanei compiendo, così, il primo passo del suo sogno. Avendo imparato bene la lingua inglese i superiori lo fermarono in Inghilterra anche per lo scolasticato.
Dal paradiso mi aiuterà
Nel 1949 un grandissimo dolore venne a colpire l'anima tanto sensibile di Ernesto: la morte della mamma. Mamma Maria Zarabella aveva avuto una parte determinante nella sua vocazione. Lo aveva sostenuto nei momenti di difficoltà con la sua preghiera e con gli scritti, semplici ma pieni di buon senso e di fede in Dio. Ernesto cercò di dominare la sofferenza che gli spaccava il cuore riversandola nel Signore. "Mi è sempre stata molto vicina - scrisse - ma ora dal paradiso lo sarà ancora di più e mi aiuterà come possono aiutare i beati del cielo".
"Nel momento della grande prova - scrisse padre Centis - era con noi. Allora ci accorgemmo quanto fosse profonda la sua fede e radicata la visione soprannaturale degli avvenimenti. Inoltre si constatò quanto affetto e stima s'era guadagnato da tutti".
Ernesto rimase a Stillington due anni, fino al completamento degli studi liceali. Le testimonianze sulla sua condotta sono lusinghiere e ripetitive. "Ha edificato Padri e ragazzi con la sua pietà, umiltà, laboriosità e modestia. E' il vero tipo di religioso, sempre fedele al suo ufficio a costo di sacrifici non indifferenti. Aperto e schietto, attivo e intraprendente fu di grande aiuto nello juniorato. Austero, i ragazzi lo rispettavano e lo amavano. E' un educatore nato, pieno di intuito e oculatezza" (padre Centis).
"Il suo candore e dipendenza dai superiori, la sua umiltà e spirito di sacrificio, il suo amore al lavoro congiunto alla capacità di eseguire tanti piccoli lavoretti, soprattutto la applicazione alle pratiche di pietà e la sua vita di virtù di cui ha dato prove continue (non soltanto durante il noviziato) sono motivi per sperare bene di lui" (padre Albertini).
"Sarà un missionario che farà tanto bene alla Congregazione e alla Chiesa. La sua presenza in Inghilterra è stata una vera benedizione. Che Dio ci mandi tanti giovani come Ernesto" (padre Bresciani).
A quando l'Africa?
Con queste credenziali, nel luglio del 1950 Ernesto tornò in Italia per gli studi teologici. Col passare del tempo, la sua virtù si perfezionava. Il pensiero del sacerdozio che si avvicinava e il concetto della sua indegnità lo tormentavano per cui aveva bisogno della parola rassicurante dei superiori per continuare senza troppi batticuori. La Madonna, per la quale aveva una tenera devozione, gli infondeva fiducia e sicurezza. "Per vivere da buoni religiosi bisogna lottare e soffrire: Questo, amato Padre, non mi spaventa, perché sento al mio fianco la Vergine santa che mi sorregge e mi incoraggia" (16 agosto 1951).
"Non mi spaventa il sacerdozio con i suoi gravissimi impegni perché mi appoggio unicamente su Dio e mi affido totalmente alla Madonna la quale non mi lascerà mai solo" (24 maggio 1953).
Il 12 giugno 1954, nel Duomo di Milano veniva ordinato sacerdote dal Card. Alafrido Idelfonso Schuster. Padre Ernesto era sicuro che i superiori lo avrebbero inviato subito in Africa, poiché conosceva l'inglese. Invece, dato che si era dimostrato un educatore di vaglia, venne inviato a Rebbio come educatore e insegnante dei seminaristi comboniani. In questo seminario, per la verità, aveva trascorso anche i primi anni di teologia sempre come assistente e insegnante. Rimase a Rebbio fino al 1956 lasciando in tutti il ricordo di un vero amico dei giovani.
E l'Africa? I superiori avevano bisogno di un educatore e insegnante in Inghilterra. Puntarono gli occhi su padre Ernesto. Egli non ribatté parola e partì. Fu una festa per tutti rivederlo. Un po' meno per lui; tuttavia si applicò dando tutto se stesso a quei giovani che s'incamminavano a diventare missionari.
Il sospirato permesso per l'Africa arrivò tre anni dopo, nel 1959, con destinazione Uganda.
Ancora educatore
Con cinque anni di esperienza sacerdotale sulle spalle e una vita passata praticamente tra i giovani, padre Ernesto s'imbarcò per l'Africa. Era il primo ottobre 1959.
Fu destinato al seminario di Lacor (Gulu), Uganda. Lavorò intensamente, prima come coadiutore della missione, poi come vicerettore dei giovani che si preparavano al sacerdozio. Una parte di cristianesimo africano dipendeva dal suo modo di formare i seminaristi. Questa responsabilità lo spaventava, ma egli non si perse d'animo. Per supplire a quella che egli riteneva una sua incapacità al grave compito assegnatogli dall'obbedienza, si rifugiava sempre più frequentemente in chiesa a chiedere luce e forza al Signore. Ogni sera, sostando davanti alla statua della Madonna, metteva sotto il suo manto, uno ad uno, tutti i seminaristi, soffermandosi su coloro che gli parevano più bisognosi di aiuto.
Padre Ernesto aveva un grande rispetto dei giovani africani. Rispetto che gli derivava dalla consapevolezza che un domani la Chiesa d'Uganda si sarebbe appoggiata sulle loro spalle, quelle spalle che, in certi casi, gli sembravano tanto fragili e insicure. I giovani capirono la sua attenzione, il suo amore per loro e per la loro vocazione. E ricambiavano.
Trascorsero così 7 anni. Anni intensi e logoranti. Quando, nel dicembre del 1966, padre Ernesto ritornò in Italia per le vacanze, sentiva il bisogno di rifarsi fisicamente. Più di tutto, però, aveva desiderio di confrontarsi con altri più esperti di lui nel campo della formazione, voleva aggiornarsi spiritualmente e teologicamente. Chiese, perciò, di poter frequentare il Corso di aggiornamento a Roma. Gli fu concesso.
Nell'agosto del 1968 era di nuovo in Uganda. Ancora come vicerettore e insegnante dei seminaristi di Lacor.
No, questo no!
Trascorsero quattro anni sempre a ritmo serrato. L'Africa intanto camminava, e padre Ernesto aveva l'impressione di rimanere indietro. Il lavoro di educatore gli sembrava ogni giorno più difficile, più complicato. "Fisicamente mi sento molto stanco - aveva scritto nel 1971 - e se chiedo con insistenza di essere rimosso dall'ufficio di vicerettore, è perché ho i nervi a pezzi e perché non mi sento più sicuro in un ufficio così delicato e di responsabilità".
I superiori non erano d'accordo sulle sue perplessità, tanto che, appena si richiese la presenza di un educatore per l'Inghilterra, misero gli occhi ancora su di lui. Se l'Uganda gli faceva paura, che dire dell'Inghilterra che viveva in pieno le conseguenze della contestazione del "68"? Il Padre prese immediatamente la penna in mano e scrisse: "La prego, reverendissimo Padre, di voler soprassedere alla decisione del mio trasferimento, anche per non creare a voi superiori una grande delusione e a me un grosso fiasco". Poi saltava fuori il religioso obbediente, umile e disponibile, per cui aggiunse: "Se in coscienza non mi sento di accettare questo ufficio, non è per rifiutarmi di fare l'obbedienza, ma perché sento di non aver l'esperienza e la preparazione per una attuale formazione di aspiranti al sacerdozio".
Vista, però, l'insistenza dei superiori, rispose in un'altra lettera: "Ora aspetto la sua decisione, pronto sempre ad obbedire. Il Signore mi aiuterà se è lui che mi chiama". E poi: "Preferirei la missione vera, quella delle cappelle nei villaggi dove la gente è semplice e ti ascolta senza contraddire troppo. Dove non ci sono problemi di strutture, di programmazioni complicate e cose del genere... Predicare il Vangelo e fare catechismo in semplicità.. Ma forse sto sognando. Dunque sia fatta la volontà del Signore".
Sono in condizioni pietose
Nell'aprile del 1973, prima di partire per l'Inghilterra, padre Ernesto prese parte alla conferenza per padri maestri e per padri incaricati dei postulandati che si tenne a Venegono Superiore. "Ho capito che in questi ultimi anni si son fatti dei bei passi avanti nel campo della formazione. Cercherò di fare tesoro delle cose che ho sentito. Io obbedisco, sicuro dell'aiuto di Dio e della Madonna".
Giunto a Sunningdale nell'agosto di quel 1973 come superiore e formatore, cercò di inserirsi nel lavoro meglio che poté. Ma le difficoltà che aveva previste si dimostrarono un'ombra rispetto alla realtà. E per il Padre si profilavano mesi di autentico purgatorio.
"I seminaristi fanno discretamente bene - scriveva nel 1974 - e la comunità religiosa sembra contenta. Purtroppo, colui che non si è ancora ambientato sono proprio io. Eppure dovrei essere felice, invece... I motivi? Dalle otto del mattino fino alle cinque della sera questa enorme casa resta vuota e silenziosa come una tomba, perché i seminaristi sono a scuola. Quei pochi religiosi che vivono in casa, marciano per conto proprio. Qualcuno poi è un autentico "rough". Soprattutto mi mette in crisi il nuovo sistema di educazione che non condivido proprio per niente. Si cammina troppo sul filo del rasoio... Ciò mi provoca un continuo tormento. E non ho nessuno con il quale consigliarmi, confrontarmi. Un'ultima difficoltà: la mancanza di sufficiente lavoro. Abituato a Moyo e a Lacor a un lavoro intenso e sistematico, non è facile ora abituarsi al dolce far niente, fatta eccezione per alcune ore di preghiera e di studio... Caro Padre, la mia potrebbe essere una vita facile e comoda, se lo volessi, ma in coscienza questo non me lo posso permettere perché, grazie al cielo, sono ancora giovane e in buona salute. Il lavoro apostolico, che qui non si può fare, lo ritengo parte essenziale della mia vita e della mia vocazione...
Mi perdoni, Padre, per la sofferenza che le reco con questa mia lettera, ma mi creda che lo faccio proprio perché la misura è colma. Nella mia vita di sacerdote non mi sono mai trovato in condizioni così pietose. Che il Signore mi aiuti!".
Dopo una scappata in Inghilterra, il padre generale constatò che padre Ernesto non aveva esagerato. E lo trasferì alla provincia italiana. Era il primo settembre 1974.
Un gran bel lavoro
L'esperienza africana e quella inglese avevano abilitato il Padre a compiti molto importanti in Italia, compiti che egli svolse con umiltà, semplicità e prudenza a Padova, a Thiene, a Brescia e a Rebbio.
La sua opera missionaria si diresse in tre direzioni: preparazione dei futuri missionari, animazione missionaria delle comunità parrocchiali, servizio alla provincia italiana come superiore di comunità, consigliere e vice provinciale per un periodo di tre anni.
Padre Ernesto era un uomo paziente, sapeva ascoltare e valutare le ragioni di chi dialogava con lui e sapeva dire la parola giusta, rassicurante. Anche quando non poteva condividere i progetti o era costretto a dire di no, lo faceva con garbo, con carità e con una certa sofferenza che gli traspariva dal volto, per cui l'interessato si rassegnava e capiva che non poteva essere diversamente. Ma ciò che maggiormente colpiva chi lo accostava erano la sua dolcezza, la sua umiltà e la sua carità
Scrive un confratello: "Un giorno passai da Brescia e mi fermai a pranzo in casa nostra. Padre Ernesto mi accolse con vera gioia, facendomi subito sentire a mio agio, poi mi chiese se avevo qualche esigenza per il cibo, dato che era a conoscenza di un mio disturbo quanto a salute, infine mi invitò a fare un pisolino. Non essendo disponibile alcuna stanza insistette perché andassi nella sua, sul suo letto. Egli "riposò" passeggiando in cortile.
Non solo i confratelli, ma anche la gente ebbe una grande stima di lui e a lui ricorreva per consigli e direzione spirituale. Padre Ernesto accoglieva tutti e non mostrava mai fretta. Una signora assicura: "Se sono tornata alla vita cristiana, dopo tanti anni durante i quali rimasi lontana da Dio, lo debbo alla carità, alla sollecitudine, alla pazienza di padre Ernesto".
Nell'orazione funebre tenuta nella chiesa parrocchiale di Rebbio, padre Andrea Polati ebbe a dire: "Padre Ernesto non ha costruito case, non ha costruito ospedali, non ha fatto opere esterne per le quali possa essere ricordato. Eppure ha lasciato profonde tracce della sua presenza. Queste tracce sono nella vita di tanti seminaristi europei e africani che, grazie alla sua intelligenza e al suo cuore, sono oggi ottimi sacerdoti.
Queste tracce sono in molti uomini che vivono una vita di famiglia autenticamente cristiana grazie a lui, al suo lavoro di formatore. I suoi ragazzi erano il suo completamento e la sua misura. La misura di una paternità che veniva da Dio e che portava a Dio. Le sue tracce sono nella vita di tanti confratelli che lui ha amato e servito senza mai chiedere niente in cambio. Voleva bene senza smancerie. Un seme così difficilmente va perduto. La sua è stata una presenza discreta, ma sempre accogliente e aperta a tutta la realtà che lo circondava. Io che l'ho conosciuto a fondo posso dire che è di sacerdoti come padre Ernesto che la nostra società ha bisogno, oggi. Si, padre Ernesto ha fatto proprio un gran bel lavoro".
La fine inattesa
Padre Ernesto era a Rebbio come superiore da poco più di un anno. Considerando le cose dall'esterno, era l'unico in quella casa di anziani e malati pienamente efficiente. Secondo i piani umani "doveva" star bene e tirare la carretta... Ma i piani del Signore non sempre collimano con quelli degli uomini. La morte lo colse quando aveva appena preso un impegno di ministero con un sacerdote, per telefono. E fu una morte spietata, fulminante, senza concedergli neanche un minuto di tempo. Si accasciò a terra nel corridoio, e giacque. "Infarto", sentenziò il medico prontamente chiamato.
"Perché è morto così, senza una parola, senza un saluto?", si chiesero tutti. Non c'è risposta. C'è solo da chinare il capo ai disegno di Dio. In questo sta la grandezza della fede di chi si proclama credente.
Il rappresentante del vescovo di Como ha detto: "Forse questo modo di morire è il più bello. Ma tutti restiamo con i nostri perché. Se ne è andato con la cornetta del telefono in mano per rispondere a un invito di ministero. Ogni risposta di ministero è risposta alla voce di Dio... Dio chiama... Dio "lo" chiamava. Ed egli, da buon servo fedele, con quello spirito di obbedienza che lo ha sempre caratterizzato, ha risposto: "Eccomi". Se il giudizio dei sacerdoti e del Vescovo vale qualcosa, devo dire che padre Ernesto era preparatissimo a questo evento improvviso e inaspettato. Che il Signore gli dia la corona di gloria riservata ai suoi servi".
Dopo i funerali, la salma è partita per il suo paese natale dove riposa accanto a quella dei genitori. Il parroco, don Giovanni Cappello, che insieme ad altri sacerdoti e confratelli ha partecipato alla concelebrazione presieduta da mons. Edoardo Mason, ha detto: "La figura di padre Ernesto si alza luminosa nella sua semplicità indicando agli adulti, e soprattutto ai giovani, che solo nel servizio ai fratelli ci sono quelle gioie e quelle grandezze che non conoscono tramonto".
A noi Comboniani padre Ernesto lascia la testimonianza vissuta di obbedienza e di disponibilità anche a costo di sacrifici e rinunce, e di dedizione totale alla non facile causa della formazione. Una causa che ora in cielo ha il suo protettore. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 159, ottobre 1988, pp.49-57