"Entrai all'età di 15 anni nel seminario di Iglesias dove trascorsi 5 anni, terminando così il ginnasio. Quando, in ottobre, mi presentai al seminario regionale di Cuglieri per il liceo, mi furono richieste dal vescovo certe esigenze economiche alle quali i miei familiari non poterono aderire. Con la tristezza nell'animo, dovetti abbandonare il seminario e prendere un'occupazione". Questo è un brano della lettera che Flavio scrisse ai superiori dell'istituto comboniano quando mostrò il desiderio di farsi missionario e dalla quale traspare una particolare sofferenza che contraddistinse gli inizi della sua vocazione. Una lettera del rettore del seminario di Iglesias, datata 24 ottobre 1939, dà la spiegazione di quanto è sopra riferito. "Il giovane Campus Flavio uscì dal nostro seminario il 14 agosto u.s. per difficoltà finanziarie. Si trovava da noi da 5 anni e l'avevamo accolto gratis perché il babbo, pur guadagnando del suo impiego, (era infermiere, n.d.r.) aveva una grossa famiglia a carico. Avevamo chiesto un contributo per il seminario filosofico dove il giovane sarebbe andato, sicuri che il babbo potesse darlo, ma s'è rifiutato. Sua Ecc. allora, non ha permesso che il figlio rimanesse in seminario. Durante la sua dimora in seminario mantenne sempre regolare condotta. E' di indole mite e remissiva e di pietà buona". Papà Nicolino era una persona energica. Con otto figli da mantenere non ritenne opportuno permettersi spese che andassero al di fuori di ciò che era il vitto e il vestiario. Infatti, quando Flavio giunse al termine delle elementari ed espresse il desiderio di diventare sacerdote, si sentì dire un no chiaro e tondo. Gli altri 7 fratellini dovevano pur mangiare! Flavio non ci pensò due volte: una bella mattina fuggì da casa e si presentò al vescovo dicendogli: "Voglio farmi prete". Il vescovo lo accolse con amabilità e si recò subito alla casa dei Campus per tentare di convincere il babbo. Questi, dopo molte insistenze, consentì che il figlio partisse.
Minatore
A 18 anni Flavio mise da parte i libri e prese in mano il piccone, scendendo in una miniera di ferro. Il cambiamento, come è facile immaginare, fu sostanziale, ma il giovanotto non si perse d'animo. Con quella volontà che gli era propria si mise a sgobbare senza risparmio di energie. Nella sua testa aveva un progetto ben chiaro: lavorare a più non posso per mettere da parte il denaro sufficiente per proseguire gli studi in seminario. Un anno e mezzo nella miniera poteva essere la fine dell'ideale sacerdotale. Per Flavio fu, invece, un noviziato splendido. Una maturazione umana e spirituale magnifica. Non solo, ma il Signore lo attendeva proprio nelle viscere della terra per indicargli la strada della missione. Nei tempi liberi leggeva la rivista Nigrizia e, un poco alla volta, si persuadeva che le sue energie sarebbero state meglio spese tra i popoli pagani. Intanto faceva il missionario con i suoi compagni di lavoro. Il suo esempio di cristiano convinto, la sua serenità, la sua gioiosità pur nelle difficoltà di un lavoro così duro, gli attirarono la simpatia e l'affetto dei compagni. Quando questi seppero che Flavio era in quella miniera per mettere da parte i soldi in vista di un proseguimento degli studi per diventare sacerdote, la simpatia si trasformò in ammirazione, in rispetto profondo. AI momento dell'addio per il noviziato comboniano, qualcuno di quegli uomini dall'aspetto rude, si lasciò sfuggire una lacrima di commozione. Il papà, invece, alla notizia che il figlio stava per scegliere una strada così ardua, disse un altro dei suoi categorici no. "Queste sono fantasie belle e buone. Finché sarò in vita, non partirai".
Missionario
In una lettera ai superiori scritta dalla miniera, Flavio aveva detto: "Nelle tenebre della miniera ho visto una grande luce che ha illuminato la mia mente. E la vocazione missionaria è esplosa in me. Ora confido nel Signore e prego la Paternità Vostra di volermi accogliere in quel numero prediletto che ha lo stesso compito di nostro Signore Gesù Cristo: salvare le anime. Sì, anch'io ho sete di anime, anch'io voglio portare la parola di Cristo ai popoli che non lo conoscono. Sono della classe del '20', quindi in maggio mi toccherebbe la visita militare. Vorrei entrare prima che mi arrivasse l'ordine di presentarmi alla leva. Ho già perso troppo tempo. Ora sto lavorando per quelle spese che mi si richiedono per il corredo e per il viaggio. Non voglio pesare sui miei familiari". Flavio venne accettato con l'invito di presentarsi entro la prima metà di novembre. La lotta accanita con il papà ha lasciato l'eco in una lettera di Flavio scritta da Carbonia il 16 novembre 1939, quindi un giorno dopo il limite massimo consentito dai superiori per l'entrata in noviziato. "Carissimo Padre, in questo istante il singhiozzo mi strozza la gola ... Mio padre non vuol darmi il consenso di partire. Mi lascerebbe solo se potessi, in questo modo, evitare il servizio militare. Vane furono le esortazioni del parroco, vane furono e sono le mie suppliche ... Padre, sento che sarò un infelice per tutta la vita se non seguo questa vocazione. La mia strada è quella degli apostoli. La devo percorrere fino in fondo. Mia sorella partirà tra pochi giorni per farsi suora. Io non mi perdo d'animo. Chiedo a Vostra Paternità se posso entrare anche senza il consenso paterno. Io me ne assumerei tutte le responsabilità. Questo è il consiglio che mi ha dato il parroco e altri sacerdoti da me interpellati. P. Antonio Todesco gli rispose che, in forza del Concordato, ogni novizio è dispensato dal servizio militare. Quindi il papà dovrebbe cedere. Questi permise al figlio di partire. Dobbiamo dire che Flavio aveva un alleato nella sua vocazione missionaria: la mamma. Era una santa donna che lo aveva seguito e lo aveva "studiato" specie nel periodo della miniera. Con l'intuito proprio delle mamme aveva capito che il suo ragazzo non poteva essere altro se non un missionario. Flavio conserverà sempre un dolce ricordo dei suoi genitori; ma per la mamma nutrirà una speciale tenerezza e tanta riconoscenza. "Mamma Marianna - diceva - mi è doppiamente mamma: di me e della mia vocazione".
Comboniano
Finalmente il 2 gennaio 1940 il giovane poté varcare la soglia del noviziato di Venegono Superiore. Per uno che aveva vissuto l'esperienza della miniera, le difficoltà della nuova vita erano uno scherzo. Infatti p. Antonio Todesco, maestro dei novizi, scrisse: "Mostra buona volontà e lavora con impegno. Capisce ciò che deve fare per corrispondere alla sua vocazione. E' un ragazzo serio, adattabile anche se un po' nervosetto e irritabile". Alcuni mesi dopo Flavio fu trasferito al noviziato di Firenze dove, maestro, era p. Stefano Patroni. Questi scrisse: "Attende con impegno alle pratiche di pietà e all'osservanza esatta delle regole. Si presta volentieri a qualsiasi lavoro anche se faticoso. Come carattere è piuttosto timido e chiuso. Si sforza, però, di aprirsi con i superiori. Sente molto le piccole umiliazioni ma, passata la prima impressione, le accetta volentieri". Il 7 ottobre 1941 emise i Voti temporanei di povertà, castità e obbedienza. Era finalmente missionario comboniano. Poi a Verona per il liceo, e a Rebbio di Como per la teologia. Nelle periodiche domande di rinnovamento dei Voti o di ammissione agli ordini, risalta in Flavio la "irremovibile volontà di dedicarmi totalmente e per sempre alla vita missionaria per servire il Signore e salvare le anime". Il 31 maggio 1947 venne ordinato sacerdote a Verona da mons. Girolamo Cardinale, vescovo della città scaligera. La festa della prima messa solenne a Gardoni fu un avvenimento straordinario. Oltre ai parenti, agli amici e ai conoscenti, vi presero parte ben 5 miniere (operai e maestranze) al completo. Racconta la sorella Assunta che per 15 giorni si alternarono alla tavola della famiglia Campus cento persone al giorno. Il primo incarico che venne affidato a p. Campus fu quello di economo e propagandista della Casa Madre di Verona ('47 - '48), altrettanto fece a Firenze ('49 - '51) per poi ritornare ancora a Verona e quindi passare a Troia fino al 1955. P. Campus amava molto la predicazione e i vari ministeri sacerdotali, ma era uno specialista per le Giornate Missionarie nelle quali aveva un'arte tutta speciale per commuovere la gente. Nella difficile congiuntura del dopo-guerra p. Flavio fu la mano della Provvidenza.
Nel sertão brasiliano
A questo punto citiamo la lunga e bella testimonianza che p. Francesco Cordero ci ha inviato, sperando che anche altri confratelli facciano altrettanto per coloro che tornano alla casa del Padre e con i quali hanno condiviso lavori e fatiche. "Come ogni comboniano, p. Campus sognava le missioni dell' Africa. Ma i superiori lo inviarono nelle nuove missioni del Brasile. Accettò con gioia. Il Maranhão diventò la sua seconda patria. Il Maranhão era, ed è, una delle regioni più depresse del Brasile. P. Flavio si gettò a capofitto nel lavoro apostolico. Dove arrivava, si aveva l'impressione di un terremoto, un terremoto benefico, naturalmente. All'inizio predicava il vangelo, faceva catechismo, amministrava i sacramenti. Ben presto, però, si accorse che era inutile parlare di Dio a gente che aveva lo stomaco vuoto, e che viveva perpetuamente malata. Per questo cominciò a dedicarsi ai 'corpi'. Possedeva alcune nozioni infermieristiche, apprese dal babbo e dai medici che interpellava spesso. Le prime esperienze, coronate da successo, crearono attorno al giovane missionario un alone di ammirazione e di riconoscenza. La missione si trasformò in una specie di pronto soccorso permanente, dove affluivano ogni giorno decine e centinaia di ammalati. Tutti volevano il "padre medico". P. Flavio lavorava in casa, poi · viaggiava nell'immenso sertão. Non c'erano strade: gli unici mezzi di trasporto erano il mulo o la canoa. Il Padre era instancabile. Una forza superiore lo sorreggeva e lo rendeva perennemente allegro e sorridente. Davanti a tanta carità disinteressata, i cuori si aprivano al messaggio del vangelo. Solo Dio sa tutto quello che p. Campus realizzò nei 32 anni di vita missionaria nel sud del Maranhão: le piccole e grandi comunità di base fondate, le cappelle e chiese costruite, i sacramenti amministrati, i contatti personali per dare sollievo ai corpi e alle anime. Chi scrive ha ricevuto innumerevoli testimonianze: 'Devo tutto a p. Flavio'; 'P. Flavio mi ha salvato la vita; se non lo avessi incontrato, ora sarei nel cimitero', 'P. Flavio ha salvato la mia famiglia' ... Il viaggio trionfale della bara di p. Campus nelle varie parrocchie dove ha svolto il suo apostolato, penso che potrebbe essere definito: 'la riconoscenza di un popolo per il suo padre e salvatore'.
Il tramonto
P. Campus sembrava un colosso di salute. Era instancabile. Quando predicava, aveva una voce stentorea (in genere rifiutava il microfono). Né le zanzare, né l'acqua ripugnante di molti villaggi, né il cibo spesso inadatto, sembravano scalfirne le forze. Ma non era così. Negli ultimi anni Flavio cominciò a sentire i primi acciacchi dell'età e degli stenti. Aveva difficoltà renali. Nelle vacanze del 1982, a Verona, gli avevano raccomandato prudenza. Ma lui, come sempre, non vi aveva fatto caso. Un anno prima della morte, alle debolezze del fisico, si aggiunsero altre prove morali. Alcune persone (pochissime in realtà) non lo volevano più come responsabile della troppo grande parrocchia di Paraibano. P. Flavio soffriva e taceva. Un giorno si decise a fare domanda formale al vescovo ed al provinciale: 'Devo restare o abbandonare la missione?'. La risposta dei due fu categorica: 'Resta, se la salute te lo permette. Nessuno sogna di mandarti via'. Fu un momento di grande gioia per lui. Ai suoi parrocchiani disse, durante la messa della domenica seguente: 'Il mio fondatore, Daniele Comboni, diceva: O Nigrizia o morte. Io dico: 'O Paraibano o morte'.
A che serve la vita?
Nel 1987 p. Campus ha fatto le sue ultime vacanze in famiglia. Ha dimostrato un affetto specialissimo per i numerosi nipotini. Si è preoccupato molto perché nella famiglia continuasse a regnare l'armonia, il dialogo, la vera fraternità appresa dai padri. I familiari gli consigliarono di fermarsi un poco di più in patria per riprendere le forze. Non ne volle sapere. Dedicò invece i pochi mesi a fare giornate missionarie per la sua missione. In ottobre era di ritorno a Paraibano. Ma non stava bene. Febbre insistente, dolori ai polmoni cominciavano a preoccupare seriamente i superiori. All'inizio di dicembre fu trasportato nella capitale del Maranhão, S. Luis, e fu ricoverato in una delle migliori cliniche della città, l'Hospital Portugues. Sembrava si trattasse di cosa da niente: una comune polmonite. Poi, improvvisamente, le cose si aggravarono. Sopraggiunse un blocco renale. Faceva difficoltà ad esprimersi e anche a respirare. Una delle ultime cose che chiese fu che telefonassero alla carissima sorella Assunta. Ed ella, con la figlia Maria Novella, si precipitò a S. Luis. La gioia di Flavio fu immensa. Le due congiunte ebbero la fortuna di vedere più volte il malato, sia pure per brevi istanti. Tre giorni prima della morte, gli ho amministrato l'olio degli infermi. Ha capito tutto e ha seguito con devozione la cerimonia liturgica. Tutti speravamo in un miracolo: la sera del 21 dicembre perfino i medici erano ottimisti. Poi, ecco il crollo. Il 22 dicembre alle ore 5,30 del mattino un embolo polmonare stroncava la vita di p. Flavio. Il grande cuore che tanto aveva amato e sofferto, cessava di battere. P. Campus avrebbe compiuto 68 anni nel prossimo mese di febbraio. C'è chi pensa che la vita sia una perla preziosa da conservare nello scrigno. Per alcuni sembra che l'unico ideale sia vivere il più a lungo possibile ... P. Flavio Campus non la pensava così. Apprezzava la vita, sapeva curarsi, riposare, nutrirsi: penso che non abbia mai fatto stravaganze. Ma non è mai stato fanatico della vita. La vita per lui era uno strumento di lavoro. L'unica sua preoccupazione è sempre stata quella di usare questo strumento per il bene degli altri. E lo ha usato bene, fino all'ultimo, come i grandi missionari: Paolo, Saverio, Comboni. E' per questo, per la sua dedizione totale al lavoro missionario, che il sud del Maranhão e noi tutti, suoi amici e ammiratori, gli diciamo in coro: 'Muito obrigado por tudo': Mille grazie, p. Flavio. I funerali sono stati un'apoteosi. I confratelli e la popolazione ha voluto portare la salma in tutte le parrocchie che il Padre aveva animato nei suoi 32 anni di Brasile e, dappertutto' ci furono preghiere e lacrime con una incredibile massa di popolo. I poveri, che erano stati la sua porzione prediletta in vita, gli furono i più vicini. Molti, che da anni non mettevano piede in chiesa, si confessarono e si accostarono ai sacramenti. P. Flavio continuava la sua missione di salvatore di anime anche da morto. Quando mons. Rino Carlesi disse che il Padre aveva rifiutato categoricamente di essere portato in Italia, si levò dalla folla un urlo che ben presto si trasformò in canto di gioia. Molti hanno parlato al microfono, perfino vecchi e bambini. La bara fu sommersa da una montagna di fiori. Alle 8 di sera, sotto un meraviglioso cielo stellato, p. Flavio fu tumulato nel cimitero di Balsas. Ora riposa accanto ai confratelli p. Marco Vedovato e p. Franco Sirigatti nella cappella all'estremo angolo destro del camposanto". A noi comboniani p. Flavio lascia l'esempio di un amore grande alla vocazione, di un altrettanto grande amore al lavoro missionario e di uno zelo instancabile per la salvezza dell'uomo, anima e corpo. Per cui possiamo tranquillamente affermare che il suo programma di vita fu: evangelizzazione e promozione umana. Che dal cielo interceda per le missioni del Brasile e, soprattutto, per le vocazioni che da quella grande nazione la Congregazione e la Chiesa si aspettano.
P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 158, luglio 1988, pp.58-64