In Pace Christi

Agostini Lamberto

Agostini Lamberto
Data di nascita : 16/12/1903
Luogo di nascita : Verona/I
Voti temporanei : 25/03/1933
Voti perpetui : 25/03/1939
Data decesso : 04/01/1987
Luogo decesso : Verona/I

Pochi giorni prima di morire, gli tagliarono una gamba nella speranza di scongiurare la cancrena che si andava formando. Quando gli chiesero il permesso, disse con una disinvoltura da sbalordire: "Fate pure, vuol dire che mando avanti i pezzi".

Umorismo, allegria e ottimismo furono le caratteristiche di questo nostro fratello che dedicò tutta la sua vita al lavoro e alla preghiera. "Mi chiamano il vecchio, ma quando c'è da fare una nuova missione i superiori dicono: 'Chi mandiamo? Mandiamo il vecchio "'.

Nato a Verona, nella parrocchia di San Giorgio in Braida, Lamberto apparteneva ad una famiglia di ortolani e di piccoli commercianti. Con il papà, la mamma, i 7 fratelli (3 maschi e 5 femmine) coltivava gli ortaggi nella zona dove oggi si trova parte  dell'ospedale di Borgo Trento e poi andavano a venderli in città. "Io e mia sorella avevamo il mercato in Piazza Isolo. Avevamo roba buona, lavorata da noi, e ci accontentavamo di un modesto guadagno per cui i clienti non mancavano. La mamma invece vendeva in Piazza Erbe. Poi abbiamo messo su un negozio grande dietro il palazzo della Gran Guardia per fornire gli alberghi. La sorella maggiore stava in casa e voleva che andassimo in giro con i vestiti sempre puliti e stirati". Mentre raccontava queste cose, indicava con il dito le piante che si trovavano vicino alla chiesa di San Giorgio, e diceva: "Vedi quelle piante? Tutte le ho scalate quand'ero ragazzo. Perché ero vivo e non riuscivo a star fermo".

La sua era anche una famiglia di musicisti. Il fratello, a 13 anni d'età, suonava l'organo in San Giorgio e accompagnava le messe a quattro voci. Alcuni nipoti fecero parte del coro e dell' orchestra dell' Arena di Verona. In questo clima di lavoro e serenità familiare, Lamberto crebbe sano di anima e di corpo. "Sono sempre stato sano come il ferro!" E al tempo giusto fece il servizio militare a Torino nel Corpo Cavalleria. "A terra, a cavallo, a terra, a cavallo! E io su e giù come una palla".

Nel 1923 la mamma, Teresa Bellorio, andò in paradiso. "Era una santa. Quante preghiere ci faceva recitare, anche se nella stagione estiva i lavori premevano. Non finiva di raccomandarci di essere onesti, sempre, specie nel commercio dove è così facile 'sbrissiare'. La mamma, e anche il papà, facevano molta carità passando verdure e qualche pezzo di carne ai poveri".

La chiamata

Lamberto si considerava un miracolato. "A quattro anni presi la difterite, una malattia che allora era mortale. Ebbene, su dodici bambini colpiti nella mia zona, solo due si salvarono, io e un altro". Questo fatto rimase sempre nel subconscio di Lamberto per cui, quando a 26 anni sentì l'impulso di donarsi alle Missioni, la conclusione che tirò fu spontanea e immediata: "Se il Signore mi ha salvato, sapeva il perché". La circostanza della chiamata si situa proprio nella sua chiesa di San Giorgio in Braida durante la messa di un giorno di festa. "Ero inquieto, quel giorno. Dopo la Comunione chiesi al Signore che cosa volesse da me. 'Che tu muoia a questo tipo di vita e che mi segua come missionario'. Io conoscevo i missionari comboniani in quanto venivano al mio banco a fare le spese, e li stimavo per il loro zelo e amore per gli africani. Quando le mie sorelle mi dicevano di sposarmi (avevo delle brave ragazze che mi stavano attorno) io rispondevo sempre: 'Che fretta, lasciatemi pensare!'. Quella mattina capii che il Signore mi voleva comboniano. Senza il consiglio del padre spirituale (che non avevo), andai presso la Casa Madre e feci la mia domanda. Fui accettato". Il parroco di San Giorgio, don Alfonso Ferrari, testimoniò che "il giovane Agostini Lamberto ha sempre ottenuto una condotta ottima, esemplarissima. Ha dato prova di vocazione religiosa, e credo che farà ottima riuscita. Tanto per la verità".

Ortolano

Entrato in noviziato a Venegono il 18 settembre 1930, Lamberto cominciò subito col frenare la sua esuberante allegria. Aveva come padre maestro il padre Bombieri il quale non condivideva i gorgheggi dell' Aida o della Traviata per i corridoi o per le scale del noviziato. Come tutti sanno, fr. Agostini conosceva a memoria i pezzi più celebri delle opere areniane, e li cantava di gusto con bella voce e con movenze da grande attore. A chi gli chiedeva: "Fratello, perché non canti più?" egli rispondeva: "Per amore di Bombieri e del Buon Gesù". Nonostante gli sforzi, tuttavia, "qualche pezzettino piccolo piccolo, mi scappava tra i denti mentre zappavo l'orto o annaffiavo le verze". Sì, perché fratel Lamberto, in ossequio ai suoi talenti, ebbe l'incarico di ortolano, sia in noviziato, sia a Verona. Infatti, dopo i Voti, emessi il 25 marzo 1933, fu destinato in Casa Madre come addetto alla campagna. E vi rimase per quattro anni procurando verdure fresche e abbondanti ai numerosi confratelli residenti e a quelli che tornavano dalla missione, dopo lunghi anni di Africa "dove di verdura ne avevano visto poca. Io ne approfittavo per rimpinzarli molto bene. E come mi ringraziavano!".

Missione dura

Fr. Agostini fu uno dei primi ad andare in Etiopia come missionario. Il suo diario, molto particolareggiato, comincia con queste parole: "Arrivai a Massawua il 18 settembre 1937. Il caldo era soffocante. Il giorno dopo partii per Asmara, i nostri Comboniani avevano iniziato da poco una stazione missionaria. Con Mons. Villa andai a cena dal Governatore. Molta aristocrazia ma, forse in confronto alla fame che avevo, il cibo era scarso. Il giorno dopo, di buon mattino, preso un po' di caffè, ci mettemmo in viaggio raggiungendo altezze di oltre 3.000 metri. Panorami stupendi... Così fino alle 17, con lo stomaco vuoto, sazia la mente e il cuore solo di belle vedute. Era solo un antipasto, perché a Chercher, dove finalmente arrivammo, si pativa letteralmente la fame. E per crudele ironia c'era un'aria così fine che avrebbe fatto venir fame ad un morto".

Fr. Agostini si dilunga con dovizia di particolari a descrivere la costruzione della fornace per i mattoni, fatta insieme a fr. Lanfranchi, i rosari recitati dopo il lavoro accanto ai ruscelli "limpidi e canterini", i magri pasti preparati sulla stufa che si divertiva a mandare il fumo negli occhi, le economie all'osso per tirare avanti, i digiuni interminabili per stare al passo con i copti, il "bell' orto che ci procurava molta verdura", la costruzione della casa, la fatica eroica per abituare un mulo a tirare il carretto... "era un mulo molto capriccioso, il quale, dando uno strappo scappò su per la collina ricoperta di sassi. Si videro una alla volta saltare in aria le ruote, e il nostro carrettino, costruito con tanta pazienza, andò in mille pezzi".

Gli schiavi

Prima che arrivassero gli italiani in Etiopia, coloro che facevano i servizi più pesanti ed umili erano schiavi. Anche la missione guidata dai Lazzaristi aveva tre schiavi. I Comboniani (che presero il posto dei Lazzaristi), come prima cosa, liberarono gli schiavi concedendo loro piena libertà. "Quando furono liberi si convertirono - scrive fr. Agostini -. Una donna, poi, divenne 1ebbrosa. Allora le costruii una casetta tutta per sé. Si sentiva felice e, nonostante il male, le pareva di essere una reginetta. Potei anche assisterla con cibo e qualche medicina. Dopo un anno morì serenamente. Le feci una bara di legno e venne sepolta con molta solennità alla presenza di una grande folla di cristiani e di copti. Questi rimasero sbalorditi nel vedere che avevamo messo il corpo di una che era stata schiava in una cassa di legno e l'avevamo trattata proprio come una libera".

Dare la vita

Dopo l'esperienza di Chercher, fr. Agostini fu inviato a Socotà dove c'erano i due padri Ceccarini e De Lai. Bisogna ricordare che i primi Comboniani che sono andati in Etiopia lo hanno fatto come cappellani militari al seguito delle truppe italiane che andavano in Africa a "conquistarsi un posto al sole". A Socotà fr. Agostini ripeté le imprese e i sacrifici di Chercher. I missionari non erano favoriti dai militari in quanto tenevano ben distinto il loro ruolo da quello dei soldati. Cappellani sì, ma con la segreta speranza di fondarvi una missione, come avvenne poi. "La baracca dei Padri, quattro metri per quattro, consisteva in tre stanze divise da un pezzo di tela. Il tetto di lamiera era così basso che si poteva toccare con la mano. Le pareti, di assi, avevano fessure di due centimetri che lasciavano passare certi lucertoloni! Stando a letto potevo vedere le iene che venivano a bere l'acqua con cui avevo lavato le stoviglie".

Fratel Agostini costruì la casa di sei stanze, in pietre e fango. Ma la guerra si avvicinava a Socotà. Amba Alagi era caduta. Il 26 aprile 1941 successe il finimondo. Il fortino militare e la vicina casa dei missionari furono assaliti con violenza inaudita. I nostri confratelli, che avevano trovato rifugio nel fortino, capirono che ormai non c'era più nulla da fare. "Vedendo vicina la nostra fine, presi il mio crocifisso e lo diedi a p. De Lai perché lo mostrasse al soldato che sparava dalla finestra. Se per caso quello era un cristiano, forse ci avrebbe risparmiati. Padre De Lai alzò il crocifisso, ma l'abissino, vedendolo, spianò il fucile e gridò: 'Dammelo o ti sparo'. Il padre glielo diede. Preso il crocifisso, l'abissino (al comando degli inglesi) fece uscire il padre e gli sparò tre colpi a bruciapelo, nella schiena. Il padre mandò un grido e cadde. Quindi afferrò anche me, ma riuscii a svincolarmi da quel forsennato e tornai al nascondiglio (il bagno) ... Ad un tratto entrò un soldato. Per terra trovò una baionetta. Mi guardò sghignazzando e fece per innestarla sul fucile. Con un pugno avrei potuto stenderlo a terra e stappargli l'arma, ma pensai che ero un missionario venuto per salvare quella gente, e pregai: 'Signore, ti offro la mia vita per la conversione di questa gente'. E aspettavo sereno la morte ... Nel frattempo passò davanti alla finestra un altro abissino il quale, vedendo che qualcuno dentro si muoveva, fece fuoco e uccise il mio assalitore... Uscii dopo aver rinnovato l'offerta della mia vita al Signore. Gli abissini erano occupati nel togliere i vestiti ai soldati italiani morti. Uno mi sparò, ma feci in tempo ad afferrare la canna del fucile e deviare il colpo. La pallottola, tuttavia, mi colpì ali 'inguine facendo uscire molto sangue. Allora io mi buttai a terra fingendomi morto".

Morire non è difficile

"Mi spararono alla testa - prosegue fr. Agostini nel suo diario - ma non mi presero. Spararono anche al ventre, e colpirono solo il dito di una mano. Poi mi levarono le scarpe, le calze, la veste. Tentarono di togliermi anche i calzoni, ma vedendo che erano troppo vecchi, me li lasciarono. Vollero levarmi la camicia: era troppo insanguinata e me la gettarono vicino al collo, lasciandomi con il petto scoperto. Arrivò un abissino che facilmente doveva conoscermi, prese in mano la camicia e mi coprì il petto dicendo: 'Perché hai ammazzato questo?". L'altro rispose: 'Che importa a te?". E mi indirizzò un pesante insulto ... Di nuovo mi si avvicinarono quattro o cinque abissini che mi scoprirono di nuovo. Tenevano le canne dei fucili a due centimetri dalle tempia. Sembrava che avessi gli occhi chiusi, ma potevo sentire e vedere tutto. E si domandavano se ero vivo o morto. Io, in preda a una calma grandissima, offrivo mentalmente la vita per loro. Uno, con la canna del fucile mi strofinò più volte il mento, il naso, gli occhi ... Ed io lì immobile come un morto. In quell'istante mi sentii solo con Dio. E capii come tutte le cose che inseguiamo su questa terra sono vanità. Finalmente uno di essi disse: 'E' morto'. E se ne andarono. Esperimentai che morire non è difficile. Il Signore ti dà la forza al momento giusto".

Questa tremenda esperienza, che fr. Lamberto racconta in lungo e in largo, segnò anche la fine della sua esperienza missionaria in Etiopia. La conclusione che ne ricavò e che ripeterà altre volte nella vita, fu: "Quando il Signore vuol salvare una persona, la salva". Il 3 settembre arrivava a Verona insieme ad altri confratelli provenienti da quelle missioni.

Mozambico

Dopo un soggiorno in Portogallo per dare una mano alle costruzioni e per imparare la lingua, fr. Agostini fu inviato in Mozambico. Vi giunse nel 1947. Era partito da Roma insieme a p. Quinto Nannetti e fr. Baggioli, via Francia, Spagna e Portogallo. La visita ai santuari di Lourdes e di Fatima fu di buon auspicio per il nuovo lavoro che lo attendeva.

Prima tappa fu la missione di Mossuril, dove c'era tutto da fare. "La casa che abitiamo, con veranda prospiciente il mare era il locale di un' antica missione abbandonata da moltissimi anni. Il reverendo p. Zambonardi, che ci aveva preceduto di un anno e che aveva lavorato sodo da solo, ha saputo sistemarla in modo da renderla un 'abitazione gradita. Mossuril, villaggio completamente mussulmano, è il capoluogo governativo, sede dell' Amministrazione della circoscrizione omonima. Questo sarà il centro di irradiazione del nostro apostolato, il punto di lancio per le conquiste nell'interno dove le popolazioni pagane sono più disposte alla penetrazione del Vangelo".

Fratel Agostini si dedicò subito alle costruzioni dimostrando un gran talento. Vi lavorò ininterrottamente fino al 1975, salvo tre brevi periodi di vacanza in Italia nel 1956, nel 1965 e nel 1971. Praticamente cooperò alla fondazione di Namahaca, Mueria, Lurio, Alua ... passando da un posto all'altro sempre "cantando e con una gran voglia di lavorare". La disponibilità di fr. Agostini divenne proverbiale, dimostrandosi in questo un vero fratello comboniano. Pur dedicandosi quasi esclusivamente alle costruzioni, non disdegnava di tornare - e con piacere - alla sua vecchia passione dell' orto, all'ufficio di sagrestano, di cuoco e di lavapiatti. Sempre con uguale disinvoltura e allegria. I confratelli che sono stati con lui sono concordi nell' affermare che fr. Agostini aveva una grande capacità di affiatamento con gli africani. Lavorava con loro e sapeva farli lavorare. Li trattava con giustizia e con molta carità. Anche se di carattere piuttosto impulsivo, sapeva dominarsi molto bene per cui i Neri lo ammiravano e gli erano molto affezionati. Con i confratelli, poi, era elemento di pace in comunità. "Agostini era furbo. Pur di portare (o di mantenere) la pace, dava ragione ai due contendenti. Quando poi veniva scoperto in questo suo doppio gioco, diceva 'La pace in casa vale ben qualche piccolo trucco. E allora tutti si mettevano a ridere e la pace tornava sul serio'.

Un nuovo campo: il Malawi

Dal 1975 al 1979 fr. Agostini fu in Italia. Le faccende del Mozambico, intanto, chiusero la porta ai missionari. Il nostro fratello ci rimase male. Ma la tempra del missionario non subì incrinature. E scrisse al Padre Generale: "Dato che la mia salute è ottima, anzi ottimissima, e che non posso più tornare in Mozambico, le chiedo se mi lascia andare in Uganda a fare cappelle e altre cose". Invece dell'U ganda, gli venne prospettata la possibilità di un servizio in Malawi. Agostini rispose: "Dal profondo del cuore la ringrazio che mi ha dato la possibilità di tornare in missione e mi sento confuso davanti al Signore perché questa è una grazia proprio grande. Spero di poter essere - con l'aiuto di Dio - strumento per fare un po' di bene. io posso fare il carpentiere, l'idraulico, l' orticultore, l'infermiere ... Se occorre qualche diploma sono disposto a mettermi sotto per prenderlo, pur di rendermi utile in missione. Sono convinto che solo facendo la volontà di Dio possiamo essere strumenti nelle sue mani per la salvezza delle anime".

Bisognava vedere fr. Agostini mentre preparava le casse di materiale e poi le valigie per la partenza. Le note dell' Aida rintronavano per tutta la Casa Madre, suscitando commenti di disapprovazione in certi vecchi che, all'anagrafe, ma solo all'anagrafe, erano più giovani di lui.

Scolaro modello

A questo punto mi sembra giusto riportare la testimonianza di p. Salvatore Bragantini che, in quel periodo, si trovava in Casa Madre per riprendersi dalle fatiche e dalla malattia contratta proprio in Malawi. "Ho saputo qui in Messico che il Signore ha chiamato a sé il caro fr. Agostini Lamberto. Io dico che il Signore gli si è manifestato pienamente, proprio il giorno 4 gennaio festa dell'Epifania, almeno qui in Messico. Fratel Lamberto, alias il Dragone di Savoja, come usava chiamarlo con il suo sorriso sornione il caro padre Imoli, con un acrobatico salto del suo cavallone ha superato l'ultimo ostacolo - la porta di San Pietro - ed è entrato in Paradiso. Perché sto scrivendo di fr. Lamberto? Negli ultimi mesi del 1978 capitavo disfatto per due malarie cerebrali in Casa Madre. Venivo dal Malawi. Mai avrei voluto stare in Casa Madre anche se sono di Verona. Mi sentivo distrutto fisicamente e abbacchiato moralmente. Sentivo terminata la mia vita missionaria e anche la mia esistenza, a 34 anni. Perché, Signore? Perché volevi farmi incontrare nella sofferenza altri confratelli ammalati ed anziani che giacevano in certe stanze del secondo e terzo piano. Volevi farmi conoscere il tuo amore attraverso l'amore dell'indimenticabile Angelo Viviani (uno dei pochissimi che aveva capito, ancor prima che io capissi, a che profondità ero caduto per le conseguenze della mia malattia) e di p. Besco (Momi Lasta) sempre allegro e sdrammatizzante, e p. Tomasin "Vita, Vita!, e Aldo Accorsi che essendo provato dalla sofferenza capiva chi soffre, e Alex Zanotelli il quale, anche se a modo suo, mi ha tanto aiutato ... e potrei continuare ... Ma voglio intrattenermi su Lamberto Agostini, il Dragone, appunto. Sì, lui, apparentemente burlone e spensierato, ed invece così attento, così fine nella carità. Il Dragone si era reso conto che stavo male. A volte mi sentivo morire in quella stanza del terzo piano. Fr. Lamberto capitava in stanza con le tasche della giacca piene di mele, le più belle, che rubava alle monache della cucina, e me le scaricava una ad una sulla scrivania. Ricordo che faticava a tirarle fuori, sia perché erano grosse, sia perché aveva una giacca stretta, corta, proprio come quella dei clown da circo. Il tutto era completato da un cappello bombetta! però sotto quelle apparenze burlesche batteva un cuore innamorato di Dio e squisito nella carità. Passava ogni giorno lunghi momenti davanti al Santissimo in cappella. S'interessava dei parenti, degli amici, di mia mamma che era anziana e malata. Se poteva, andava in giro con il suo proiettore per mostrare i suoi lunghi cortometraggi missionari. Era un innamorato dell'Africa. A mia mamma diceva: 'Signora, bisogna che vada in Africa di nuovo, altrimenti divento vecchio'. Lamberto ha insegnato a tutti la dimensione gioiosa della vita missionaria. Durante le sue visite nella stanza 25 del terzo piano, io gli insegnavo un po' di Chichewa, la lingua del Malawi. Egli prendeva appunti e ascoltava con diligenza le cassette che gli registravo. Il migliore degli scolari non poteva applicarsi di più e meglio. Eppure aveva 75 anni. Solo un innamorato dell' Africa può mettersi a studiare una lingua indigena a quell'età". E partì per il Malawi.

L'apostolato della gioia

L'undici giugno 1985 p. Calvia (generale) scriveva a fr. Agostini: "Con questa mia ti assegno alla provincia italiana a partire dal primo giugno. Sapevo della malaria che ti aveva colpito in Malawi dove hai lavorato tanto bene e con tanta generosità e allegria, non sapevo però che essa si era aggravata tanto da richiedere il tuo rientro in Italia. Comunque so che tu prendi le cose con molto ottimismo e con molta tranquillità, e questo non è solo un segno della tua fede ma anche un mezzo per ottenere più velocemente la guarigione".

Infatti fr. Agostini si riprese abbastanza bene anche se subiva spesso degli alti e bassi. Passò qualche periodo a Gordola da dove cercò di venir via il più presto possibile: "Là è come un convento di trappisti, io ho bisogno di vita, di parlare, di scherzare". Poi fu a Verona dove si trovava bene: "Noi veronesi Verona l'abbiamo qua nel cuore", ma dovette lasciarla per la scarsità di stanze rispetto alle numerose persone di passaggio: "el superior nol me vol tra i piè". E andò a Thiene.

Il superiore di quella comunità dice: "Appena arrivato è andato diritto nell'orto. Il primo amore tornava veemente. E poi con i ragazzi! La sua allegria, la sua gioia di essere missionario, il suo entusiasmo sempre e dovunque. Uomini così sarebbero indispensabili in ogni casa di formazione". Poi la malattia quasi improvvisa. Il sangue si rifiutava di circolare in quelle gambe che avevano fatto tanta strada per il Signore. Ricoverato all'ospedale di Borgo Trento, fu poi trasferito a Borgo Roma dove subì l'amputazione della gamba destra. Ritornò a Borgo Trento. La sorella di p. Bragantini scrive: "Non sono capace di scrivere lunghe lettere per descrivere una persona come il carissimo fr. Agostini perché la sua vita è già scritta con esempi di carità di chi ha il dono di una fede genuina. Lo vidi l'ultima volta in ospedale dopo l'intervento. Mi parlò dell'operazione e mi disse che quando gli hanno tagliato la gamba ha sentito cr, cr, cr,'. Non so come facesse a parlare mentre c'era in lui tanto dolore. Ma ancora una volta ha portato la sua croce col sorriso. Ci siamo allontanati dal suo letto, io e mio marito, salutandolo con la mano. Anch'egli alzò la mano e ci sorrise. Quanto gli sarà costato quel sorriso?". Pochi giorni dopo si rendeva necessaria l'amputazione anche della gamba sinistra. Agostini non pose obiezioni: "Come ghe piàse al Signor, anca a mi". Furono le sue ultime parole. Morì con la sua gamba. Una sola, ma sufficiente per farlo entrare di corsa nella Casa del Padre. Pur avendo quasi 84 anni, ha lasciato in tutti il ricordo di un uomo giovane e un grande esempio di missionario realizzato, sempre contento ed entusiasta della sua vocazione e dell' Africa.                  P. Lorenzo Gaiga

Da MCCJ Bulletin n. 154, Luglio 1987, p. 61-67