In Pace Christi

Pizzioli Carlo

Pizzioli Carlo
Data di nascita : 16/07/1897
Luogo di nascita : S. Ambrogio Valpolicella VR/I
Voti temporanei : 29/09/1920
Voti perpetui : 08/12/1922
Data ordinazione : 17/03/1923
Data decesso : 15/12/1985
Luogo decesso : La Paz/MEX

Quando si è diffusa la notizia della morte di P. Carlo, qualcuno, con una frase un po’ iperbolica, ma profondamente vera, ha fatto il seguente commento: “Il mondo ha perso un sorriso”. La frase colpiva nel segno, perché tutti ormai conoscevano P. Carlo per il suo costante e imperturbabile sorriso, segno evidente di una vita serena e pienamente realizzata nel carisma comboniano vissuto quotidianamente. Eppure la lunga esistenza di P. Carlo fu contrassegnata da croci e sofferenze derivategli principalmente dalla salute sempre precaria, che lo ha tenuto sul filo del rasoio per tutta la vita. “Quando era nostro padre spirituale a Brescia negli anni 1935-36 - dice P. Giovanni Fortuna - ci sembrava un vecchio decrepito. Dovette anche andare a Padova per farsi curare, ed era opinione comune che fosse già spacciato”. La sofferenza non fu causata solamente dalla salute, ma anche da un'infanzia “provata” che contribuì ad acuirgli la sensibilità, per cui le immancabili contrarietà della vita scavavano profondamente nella sua anima. P. Carlo, però, non si è mai ripiegato su sé stesso, non ha mai fatto la “vittima”, bensì ha saputo accettare e offrire “per Dio e per le anime”. Prima di spirare ha fatto in tempo a scrivere un tremolante bigliettino: “Lode e gloria a te, Signore Gesù”. La frase, lasciata sul comodino, riassume il contenuto della sua esistenza di sacerdote e missionario.

Qua e là come una pallina

I Pizzioli facevano parte di una delle famiglie nobili che costellavano il Veneto. Il papà, Tito, uno dei 14 fratelli, aveva studiato come tutti gli altri. “Poi le malattie e i dissesti finanziari - dice la Sig. ra Virginia, unica sorella vivente di P. Carlo -, hanno fatto piazza pulita di tutto. Noi eravamo in quattro: tre femmine e un maschio, Carlo per l'appunto. Io sono la più giovane; ho 84 anni. Le disgrazie hanno bussato presto alla nostra porta. Il papà, esperto marmista, morì cadendo da un'impalcatura mentre sistemava il cornicione di una chiesa a Budapest. Aveva 36 anni. Carletto frequentò le prime classi elementari a Sant'Ambrogio e poi emigrò a Verona presso due zie paterne che insegnavano italiano e tedesco all'Istituto Giacomelli. Essendo nubili, lo circondarono di cure e di affetto. Dovette trovarsi molto bene perché, quelle poche volte che tornava a casa, non vedeva l'ora di rientrare a Verona. Dopo le elementari terminate presso la scuola Segala di Verona, cominciò a frequentare il ginnasio all'Istituto Stimmate, ma ben presto si trasferì al seminario diocesano, sentendo il desiderio di farsi sacerdote. Fu qui che conobbe i Comboniani. Parlava spesso con la mamma del suo desiderio di andare in Africa. Ella, pur dimostrandosi preoccupata per una vocazione che le sembrava difficile, non si opponeva. Gli zii materni, invece, lo chiamavano esaltato e senza cuore. Erano contenti che si facesse sacerdote, diocesano però, in modo da poter assistere poi la mamma. Carletto sorrideva, ascoltava e poi diceva che lui sarebbe andato in Africa, in barba a tutti quanti. Infatti terminò il ginnasio nella scuola apostolica di Brescia. Ripeteva spesso che era stato compagno di scuola di Paolo VI al Collegio Arici di Brescia... La nostra famiglia non era nuova a vocazioni religiose. Una zia di P. Carlo era clarissa, proprio lì a San Giovanni in Valle. La vocazione le portò bene, perché morì quando mancava qualche mese al compimento del centesimo anno di età. Uno zio, P. Agostino, era Frate Minore presso il convento del Cimitero. Morì abbastanza giovane ad Assisi... La mamma era una creatura semplice come P. Carlo e di una bontà senza limiti. E non sbagliò a permettere al figlio di farsi missionario perché, in vecchiaia, i Comboniani le passarono un modesto mensile, sufficiente per vivere dignitosamente. Morì nel 1941”.

Novizio e soldato

Per il noviziato, Carlo Pizzioli dovette lasciare Brescia e ritornare alla sua Verona che tanto amava. Fece la vestizione il primo novembre 1914, quando già si respirava aria di guerra mondiale. Carlo era un ragazzo delicato di salute e anche un po' viziatello per via delle zie che lo avevano “quasi asfissiato” di affetto. L'anno di scuola apostolica a Brescia non era servito a disintossicarlo del tutto, per cui il noviziato si rivelò severo. Levata alle 5, freddo terribile d'inverno, poco movimento, silenzio, lavoro e preghiera... Non fa meraviglia dunque, se qualche dubbio sulla vocazione missionaria cominciò a fare capolino nella mente del giovane. Il padre maestro, pur riconoscendo che Carlo era: “Pio, casto, obbediente, schietto”, riconosceva che “Manifesta sempre dubbi nebulosi sulla vocazione alla vita missionaria”. E poi spiega quel “nebulosi”, “cioè confusi, senza vere ragioni”. È logico perciò che qualche volta sia “un po' nervoso. Tuttavia pratica la virtù e dimostra grande bisogno di essere sostenuto. È ancora un ragazzo”. Questo era il giudizio di P. Barnabè. Ma ecco che un avvenimento, per un certo verso traumatizzante e anche provvidenziale venne ad inserirsi nella vita di Carlo: la chiamata alle armi. L'Italia, infatti, era entrata nel conflitto mondiale. Messi da parte i dubbi, il novizio chiese di essere ammesso ai Voti, che fece il 29 settembre 1916. Quello stesso giorno, dopo la cerimonia in cappella e una frettolosa colazione in refettorio, prese la sua valigetta e si diresse verso la caserma. Egli così timido, delicato e scrupoloso, si trovò immerso in una bolgia. Ma non si perse d'animo: sapeva che la vera forza viene da Dio e Dio non la fa mancare a chi gliela chiede. Intensificò la preghiera e la mortificazione per ottenere dal Signore e dalla Madonna, di cui era devotissimo, la perseveranza nella vocazione. Ragazzo di 18 anni, combatté sull'Ortigara e sulla Bainsizza. Fu ferito due volte, mille altre vide la morte in faccia. Fu coinvolto nella ritirata di Caporetto e poi prese parte alla controffensiva. Rientrò nella Casa dei Comboniani a Verona dopo 4 anni di quell'inferno, esattamente il 17 gennaio 1920, quando la guerra era già terminata da due anni. Solo Dio sa i sacrifici che il soldato Pizzioli aveva affrontato per ascoltare la Messa, per cercare un sacerdote che gli desse la Comunione, per studiare un po' di teologia in vista del sacerdozio. P. Bertenghi riassume il periodo militare di Carlo con questa frase: “Ha dato molto buon esempio a tutti. Ed è riuscito a fare anche qualche esame di filosofia per cui ora può frequentare la prima teologia” (1 maggio 1920). La prova era stata tremenda, ma aveva contribuito a dissipare anche le ultime tracce di dubbio sulla sua vocazione. E 1'8 dicembre 1922, festa dell'Immacolata, poté emettere i Voti perpetui usufruendo della dispensa di 10 mesi di Voti temporanei. Il 17 marzo 1923 venne ordinato sacerdote. Come si può notare dalle date, in un solo anno P. Carlo portò a termine quasi tutto lo studio della teologia. Dico “quasi tutto” in quanto, dopo aver ottenuto una seconda dispensa, quella di poter essere ordinato sacerdote nella prima metà del quarto anno di teologia, dovette completare gli studi. L'ordinazione sacerdotale ebbe luogo a Gambellara (Vicenza). Ciò costituì un fatto eccezionale. Fu dovuto esclusivamente all'amicizia che correva tra P. Vignato (di Gambellara) e Mons. Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza.

In Africa

Il primo campo missionario di P. Carlo fu l'Africa. Il suo primo ministero fu quello di “prefetto” tra i 59 giovani di Khartoum. Per la sua bontà e mitezza si fece subito benvolere da tutti, anche se non era “un asso” quanto a tenere la disciplina. L'anno seguente, infatti, ebbe l'incarico di vice-cooperatore. Il contatto personale con la gente gli si confaceva maggiormente rispetto all'attività tra i giovani turbolenti e mai stanchi. Le persone che frequentavano la chiesa dei Comboniani cominciarono ad ammirare questo giovane missionario dall'atteggiamento umile, sempre disponibile per le confessioni, mai stanco di pregare, uomo capace di dare consigli giusti. Un giudizio scritto dagli esterni assicura che P. Carlo “È pio, zelante, mite e buono”. I confratelli tagliarono più corto dicendo: “Amante della vita religiosa, ma senza molta attività esterna”. Sì P. Carlo era più contemplativo che attivo. Infatti nel 1926 (dopo appena tre anni di missione, causa anche la salute precaria) fu fatto vice-padre maestro a Venegono, dove nel frattempo era stato trasferito il Noviziato. Vi rimase fino al 1931. Tra i suoi novizi ci fu Fr. Viviani. In una lettera scritta a quest'ultimo, P. Carlo assicura che: “Le intense ispirazioni che vi spingono a donarvi totalmente e incondizionatamente al Signore, sono autentica voce di Dio”. A Venegono salvò tante ottime vocazioni che, altrimenti sarebbero state falcidiate dallo zelo “radicale” del maestro P. Bombieri. Rimase in Noviziato fino al 1931, data del Capitolo Generale. In quello stesso anno ripartì per Khartoum con l'incarico di Superiore Provinciale (Superiore di Circoscrizione). Dal 1932 al 1933 fu anche Superiore a Port Sudan, ma poi la salute cominciò a vacillare di nuovo. Quel clima, decisamente, non gli si confaceva.

La lunga sosta in Italia

Dal dicembre del 1933 al novembre del 1938 fu padre spirituale a Brescia. I ricordi lasciati nei suoi discepoli di allora sono belli, edificanti. Indubbiamente era un uomo capace di guidare i giovani sulla via della perfezione religiosa e della vita missionaria. Alla sua parola aggiungeva la sofferenza causatagli dalla poca salute per cui la sua “testimonianza” era completa. Da febbraio del 1939 a luglio del 1941 fu a Sulmona, sempre come padre spirituale. A Pesaro, dal 1941 al 1947 fu Superiore. Qui visse gli anni duri della seconda guerra mondiale, il disastro della “linea gotica” che tenne divisa l'Italia per mesi, e trovò mille espedienti per salvare i seminaristi. In un recente raduno a Pesaro di ex comboniani, c'è stata una meravigliosa testimonianza di affetto indirizzata a P. Pizzioli. Ma la sua vocazione, almeno in Italia, era quella del padre spirituale. Ed esercitò questo ministero a Troia per due anni, dal 1947 al 1949. A Troia raffinò, se così si può dire, la sua devozione alla Madonna. Il santuario della Mediatrice risentiva ancora della carica spirituale di P. Sartori. P. Pizzioli non si tirò indietro, bensì cercò di mantenere l'atmosfera di fervore che animava quella comunità di seminaristi e di fedeli, prestandosi per tridui e predicazioni, e soprattutto per le confessioni. Sedici anni passarono veloci. Furono però anni difficili, per la situazione creatasi nel dopoguerra. P. Pizzioli, sempre fragile quanto a salute, ricevette l'ordine di partire per il Messico. Pianse molto: si raccomandò ai confratelli perché convincessero il P. Generale a risparmiargli quella sofferenza... Qualcuno gli disse di mettere in pratica ciò che aveva insegnato ai novizi, e di partire senza tante storie. Egli obbedì... con il cuore che gli sanguinava. In Messico ritrovò la piena salute fisica e tanta gioia. Scherzi della Provvidenza! Lui, sempre moribondo, camperà 88 anni!

In Messico

Il 29 settembre 1949 s'imbarca a Napoli sulla nave Italia insieme ai PP. Sterza, Panozzo, Franco e ai Fr. Olivieri e Negrini. Pizzioli era il “superiore di viaggio”, come si diceva allora. I 6 facevano parte del secondo gruppo di comboniani che partivano per il Messico. Dopo una tappa a Pala, negli Stati Uniti, P. Carlo proseguì per Todos Santos (Bassa California). Si applicò allo studio della lingua in modo da potersi ben presto dedicare al ministero delle confessioni. Nel 1950 dettò un corso di Esercizi spirituali ai confratelli. Dal 1953 al 1960 fu Vicario Delegato del Vicario Apostolico Mons. Alfredo Galindo, di Tijuana, e per alcuni anni coprì la carica di rettore del Seminario della prefettura. Fin dall'inizio appoggiò le iniziative di quanti credevano nell'animazione e promozione vocazionale. A proposito di questo, P. Pizzioli ebbe molto da soffrire. Nella disputa tra confratelli, sorta in Bassa California a proposito dell'opportunità di mantenere in vita il seminario di La Paz, P. Carlo scriveva: “Qualche confratello mira con sguardo di compassione a questo nostro seminario di La Paz. La compassione è fuori posto. Sì, lo ammettiamo, sono pochi i seminaristi: 26 (non 20), essendo sempre difficili gli inizi in un seminario in missione, qui specialmente. Eppure solo a questo piccolo seminario in marcia, lenta ma sicura, un giorno noi figli genuini del Comboni come quelli d'Africa, affideremo i frutti del nostro sacrificio, e ci ritireremo perché avremo allora la “plantatio Ecclesiae”. I fatti gli dimostreranno che aveva ragione. Cinque di quei giovani sono oggi sacerdoti. Altro gemito di P. Carlo, quando lo stesso gruppo di “profeti minori” voleva abbandonare l'attività missionaria nella Bassa California per dedicarsi esclusivamente a quella tra gli Indios. Per capire l'importanza e l'autorevolezza delle espressioni di P. Carlo ricordiamo che era stato, come abbiamo appena detto, Vicario Delegato del Vescovo di Tijuana e consigliere dei Provinciali P. Patroni e poi P. Giordani. Quest'ultimo, allo smembramento della diocesi di Tijuana, divenne Prefetto Apostolico di La Paz. “Fu un vero trionfo che coronò i sacrifici dei nostri missionari e preparò gli animi ad ulteriori lanci nel bene, come provano i fatti”. E quanto agli Indios: “Bellissima l'idea di una nuova missione tra gli Indios. È il mandato divino: Ite et docete. Però non a spese della missione della Bassa California. Neppure nelle nostre missioni africane, con sufficiente clero e prelati locali, si pensa di ritirare i nostri missionari per aprire altre missioni. Qui abbiamo un solo sacerdote del territorio. Un giorno, completato il lavoro in Bassa California, andremo, e volentieri, nelle altre missioni. Qui, per mancanza di sacerdoti, la popolazione è stata per molti anni abbandonata spiritualmente, per cui grande era l'ignoranza religiosa, generale l'assenteismo degli uomini dalla Chiesa, innumerevoli le unioni matrimoniali illegittime e potente la massoneria. I Padri hanno lavorato alacremente e con totale dedizione. Ognuno di essi celebra ogni domenica tre Messe, spostandosi nelle varie cappelle, distanti talora 30-50 chilometri. In Bassa California siamo un gruppo di missionari compatti e decisi a mantenere ciò che la Congregazione e la Chiesa ci hanno affidato”. In questa lettera si vede la preoccupazione del pastore che vuole salvare il gregge, che non accetta di fare le cose a metà, che desidera piantare definitivamente la Chiesa per non cadere negli errori passati.

Mentre si distrugge l'abitazione terrena si prepara quella celeste

È San Paolo che parla così del seguace di Cristo. P. Pizzioli ha vissuto questa realtà in prima persona. Scrive P. Menghini: “Interessante notare, dallo studio delle fotografie, l'ingentilirsi delle sue fattezze umane. Il suo primo passaporto con la foto in borghese, mostra un uomo un po' duro, quasi ruvido. In quella del 1984, un bel nonnino sorridente e piacevole. Ma nelle ultime fotografie, prese nel novembre scorso e pubblicate come “ricordino”, lo vediamo davvero trasformato. Sembra che l'anima buona e unita a Dio abbia finito per sublimare anche il corpo. Era evidentemente maturo per il cielo”. P. Menghini, poi, passa a considerare qualche caratteristica del Padre: “Nessuno ha mai saputo che fosse di famiglia nobile. Nessuno ha mai saputo che sapesse suonare l'organo e l'harmonium. Si è venuti a saperlo dopo la sua morte da persone che lo sentivano quando nessuno dei confratelli poteva controllarlo. Fumava qualche sigaretta, ma lo faceva di nascosto, quasi per paura di scandalizzare. E se qualcuno lo 'scopriva', faceva un sorriso e diceva che era la prima”. “L'asse portante della sua spiritualità - prosegue P. Menghini - fu la devozione alla Madonna e al Sacro Cuore, che lo spingevano ad una dedizione e ad uno zelo per le anime senza badare alle sue esili forze. Dirigeva non so quante anime. E le dirigeva bene perché era ricercatissimo. Il suo 'pallino' era quello di non far attendere nessuno, di non disturbare. Se aveva qualche amarezza, era per il poco interesse che si dava alle cose di Dio. ‘Alle feste grandi e quando c'è speranza di ricevere qualche dono, i bambini vengono a sciami. Ma all'istruzione ordinaria stentano a venire. La colpa è dei genitori i quali, non essendo preparati loro, ancor meno si preoccupano dei loro figli', ripeteva spesso. Era commovente vedere come questo anziano missionario ormai 'sazio di giorni' ogni fine mese si recasse dal Superiore per il rendiconto delle spese fatte o di quelle che pensava avrebbe potuto fare. Fra parentesi va detto che non spendeva mai niente, tuttavia faceva il gesto come un fervente novizio”.

Saper invecchiare con saggezza

Gioviale, sempre entusiasta, P. Carlo era amato da tutti. Quando si rese conto che l'età e la salute non gli permettevano più un certo tipo di lavoro, seppe ritirarsi in disparte, non rinunciando, però, al ministero delle confessioni. La sua vita comunitaria continuò con lo stesso ritmo. Scrive P. Giordani: “Alle 5 del mattino era su: orazioni, meditazione e poi il 'cafecito'. Non lasciava il suo esame di coscienza prima del pranzo. Dopo, si ritirava in stanza a legiucchiare e, se lo prendeva il sonno, incrociava le braccia sul tavolino, vi appoggiava la fronte e, passato il sonnellino, prendeva il breviario e un libro di lettura spirituale per trasferirsi in chiesa dove si tratteneva per almeno un'ora... Il P. Provinciale dei Redentoristi che era venuto in Bassa California per predicare gli Esercizi, mi disse, riferendosi a P. Pizzioli: 'Che uomo di Dio! Avrei voluto fare con lui una confessione generale'. La bontà di P. Carlo attirava la confidenza di tutti. Fu anche l'uomo del servizio. Non si rifiutò mai di dare il suo aiuto a chi glielo chiedeva: ai parroci, ai fedeli, a tutti. Ma forse quei rettori di chiese avrebbero dovuto avere un po' più di riguardo per la sua salute, e fargli fare meno ore di confessionale in ambienti di correnti d'aria o disturbati dal frastuono di chitarre indiavolate e di cori poco angelici. Mi confidava che gli era molto pesante il ministero in simili condizioni. Tuttavia non disse mai di no e non impose condizioni”. “Aggiungerei - prosegue P. Giordani - che predicava con fervore. Più che dalle parole, spesso non facilmente intese, lo si scopriva dal tono della sua voce, dai suoi gesti. Un avvocato mi diceva: 'Ascolto volentieri le prediche di P. Carlo anche se non capisco quasi niente. Parla per lui la sua voce commossa, fervorosa, propria di chi è sincero, santo e convinto di quello che dice’”. Anche i familiari sono concordi nell'affermare questa 'santità' di P. Carlo. Le sue lettere sono un costante incitamento alla preghiera, all'onestà, alla rettitudine. Durante le sue rare vacanze in famiglia, viveva poveramente e passava le sue giornate o in chiesa o a visitare conoscenti, anziani e ammalati. “Sentiamo tanto la sua mancanza - dice la nipote Raffaella - gli volevamo un gran bene. Era poverissimo. E non voleva che gli comprassimo alcunché. Dovevamo usare i trucchi per infilargli nella valigia, all'ultimo momento, un po' di biancheria nuova. Egli non si stancava mai di ringraziare. Quanto ringraziava! Gli abbiamo regalato una catenina d'oro quasi per esprimergli il desiderio che ci portasse tutti con sé. 'Non piangete alla mia morte - ci disse l'anno scorso quando è stato in vacanza - Dal Paradiso vi aiuterò perché sarò più vicino a Dio e gli parlerò a tu per tu'. Anche otto giorni prima di morire ci scrisse di non piangere alla sua morte. Il paese gli voleva bene, lo venerava come un santo e gli mandava anche degli aiuti per la sua missione; egli ricambiava con tante preghiere”.

Alcuni fatti che ci lasciano perplessi

P. Carlo aveva cominciato a sentirsi male fin dai primi giorni di novembre 1985. Ricoverato alla clinica del Perpetuo Soccorso, vi trascorse tre settimane. Aveva fatto un piccolo infarto. Fu molto contento quando la Dr.ssa Virginia Gutierrez gli permise di tornare alla sua cara Casa Comboni di La Paz. Tuttavia la cardiologa gli consigliò di passare le notti in clinica. Egli obbedì. Vi andava dopo la recita dei Vesperi con la comunità e ritornava a casa verso le 10 del mattino del giorno seguente, dopo aver celebrato la Messa per le religiose e aver visitato gli ammalati. Sempre timoroso di far aspettare la gente, un quarto d'ora prima dell'ora stabilita, si trovava nella sala d'aspetto con le sue due camicie in mano e l'inseparabile cappello in testa, seduto o in piedi, con il capo inclinato sopra la spalla più bassa, immerso in orazione. Accoglieva chi veniva a prenderlo (di solito Fr. Marcolin) con un bel sorriso. Se qualcuno si metteva a chiacchierare con lui, egli regalava volentieri una mezz'ora del suo tempo. Era il confessore ordinario del vescovo, dei confratelli, dei sacerdoti e di tutti coloro che ricorrevano a lui. Poteva essere stanco morto, poteva trovarsi a letto o in refettorio a prendere il cibo, poteva essere in qualsiasi posto, ma quando uno gli chiedeva di confessarsi, egli balzava in piedi ed era pronto. Ad ogni peccato che gli si raccontava, diceva: “Que bueno, que bueno”, tanto che qualcuno lo prendeva benevolmente in giro per questa sua abitudine. L'8 dicembre, festa dell'Immacolata, celebrò due Messe. Nell'omelia parlò alle religiose della Vergine Santissima con espressioni “di paradiso”. Tutte rimasero profondamente emozionate. Alla fine della predica disse che si sentiva tanto stanco e che sarebbe stato contentissimo se la Madonna fosse venuta a prenderlo in quel giorno. Otto giorni dopo, domenica 15 dicembre, l'ultimo della sua vita, celebrò in clinica e parlò per quindici minuti appoggiando i gomiti sull'altare, tanto si sentiva stanco. Il suo tema fu: la gioia per l'imminente venuta di Gesù. Terminata la Messa, lo avvisarono che una bambina appena nata era molto grave. Egli andò subito a battezzarla. Poi riunì le cosette che teneva nella stanza da letto, lasciando solamente le pantofole e il rasoio elettrico. Una suora si accorse che quel giorno Padre Carlo indossava un vestito nuovo, mai messo prima. “Come mai, Padre, ha un vestito nuovo, oggi?”. “Perché oggi devo andare in paradiso”. E si incamminò alla porta a passi svelti per non far attendere Fr. Marcolin. “Non cammini così in fretta - gli disse la Madre Superiora - sa che la cardiologa non vuole che faccia sforzi”. Il Padre, allora, scherzosamente, cominciò a fare passettini corti, corti. “Adesso esagera”, protestò la Madre. P. Carlo riprese a camminare spedito, quasi di corsa, dicendo anche a lei: “Oggi vado in paradiso”. Arrivato a casa, ascoltò la confessione di Fr. Marcolin... Con questo sacramento di misericordia e di bontà chiuse il suo prolungato ministero sacerdotale. All'ora di pranzo si rallegrò molto quando lo invitarono a recitare l'Angelus e a benedire la mensa. Partecipò con gioia alla ricreazione, poi si ritirò in stanza. Era solito non uscire fino alle ore 16, per non disturbare i vicini. Quel pomeriggio, però, uscì tre volte per recarsi in cappella. Disse anzi alla cuoca, signora Aurora, che si sentiva come soffocare. Il giorno seguente (lunedì) aveva un appuntamento con la cardiologa. Egli, però, lo aveva rinviato al martedì, per poter essere presente al ritiro dei sacerdoti. Rientrò in stanza. Alla sera, non vedendolo, andarono a cercarlo in cattedrale, dove era solito recarsi per le confessioni. Ma non c'era. Il vescovo, avvertito della scomparsa del Padre aveva detto scherzando: “Come può perdersi quel santo vecchietto? Sarà certamente in qualche confessionale. Cercatelo”. Verso le ore 21 i PP. Marigo, Cadè e Villotti, con un'altra chiave aprirono la porta della stanza. P. Carlo si trovava semi disteso sul letto, di traverso, con i piedi per terra e la testa appoggiata al muro. Il suo volto era sereno, quasi ancora con il suo solito sorriso. Nella stanza tutto era in ordine. Alla cuoca che in quel pomeriggio voleva consegnare alcuni indumenti, aveva risposto che non gli servivano più. La notizia della sua morte commosse la città. La popolazione lo vegliò con affetto, come si trattasse di uno di famiglia. La veglia funebre si trasformò in una continua preghiera. P. Menghini scrive: “Le suore che lo composero nella bara, notarono che il suo braccio destro non si era irrigidito. Dopo più di 24 ore era ancora flessibile, mentre il sinistro no. Anche il signor Pepe Felix, che gli strinse la mano nel cimitero, nell'istante in cui fu aperta la cassa, notò che la mano destra era normale e non fredda... Quella mano che aveva assolto tanti peccati e distribuito tanta pace e misericordia... Il vescovo, nell'omelia della Messa aveva detto: “È stato un uomo di orazione costante, uomo di bontà tenera e misericordiosa, uomo di servizio totale ai fratelli”. E P. Giordani assicura che mai la cattedrale di La Paz si è riempita di fedeli come nel giorno dei funerale di P. Carlo. Ora P. Carlo riposa nel cimitero di La Paz, nella stessa tomba di famiglia, insieme ai PP. Cenghia e Adami.         P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 149, aprile 1986, pp.57-64