In Pace Christi

Pagliani Giuseppe

Pagliani Giuseppe
Data di nascita : 02/02/1894
Luogo di nascita : Casalgrande RE/I
Voti temporanei : 13/11/1924
Voti perpetui : 29/06/1930
Data decesso : 31/07/1985
Luogo decesso : Verona/I

«La personalità di Fratel Pagliani - dice padre Santandrea che gli fu compagno di missione - può essere concentrata nel binomio benedettino, preso all'inverso: labora et ora. Ma attenzione, il labora non era altro che il suo modo ordinario di pregare». Nato contadino, la vocazione al lavoro gli è venuta con la vita. Una vita dura, zeppa di lotte interiori e di sofferenze, che ha certamente influito sul suo carattere. Una lettera del papà, Alessandro, scritta ai superiori, fa luce sulla drammatica situazione familiare. «Venuto a conoscenza che mio figlio Giuseppe è assolutamente deciso a far parte, in qualità di missionario, al suo Istituto, e ad intraprendere un viaggio all'estero, il sottoscritto, quale padre, si rivolge a codesto spettabile Istituto di Missionari perché prenda in seria considerazione quanto sto esponendo onde evitare la rovina della propria famiglia. Papà e mamma di anni settanta, aventi poca salute; due figli morti in guerra, il primo dei quali, di anni 31, lascia la moglie e due bambini. Il secondo, di anni 28, lascia pure la moglie e 4 orfani tutti a carico del sottoscritto. Inoltre ci sono altre due figlie e un figlio con nuora e quattro bambini tutti in tenera età. Il che forma un totale di 19 persone alla testa delle quali c'è il figlio Giuseppe che è appunto il richiedente di prendere parte alle Missioni. Per la qual cosa dovrebbe appunto abbandonare la direzione di questa grossa famiglia. Il sottoscritto fa inoltre notare che il terreno sul quale travasi la famiglia è abbastanza vasto per cui trovasi nella necessità di ricorrere a molta mano d'opera, per la quale pure si rende necessario che un suo componente, il più adatto e competente, sia sempre presente a sorvegliare il buon andamento. Non potendo permettere la rovina della mia famiglia, non posso concedere il permesso a Giuseppe di partire, e confido che l'Istituto respingerà ogni domanda che lo stesso possa fare».

Una vocazione di ferro

Ma la vocazione di Giuseppe era a prova di bomba. «Già fin da bambino, assicura il suo parroco, il giovinetto ha dimostrato chiari segni e vivo desiderio di consacrarsi al Signore come sacerdote o religioso. Ma ciò gli fu impedito dalla famiglia, prima, e dalla guerra, poi. Quella del Pagliani è una vera vocazione che da anni coltiva e che con questi ultimi tempi si è fatta sentire in modo decisivo. Il papà e la famiglia non sono per niente in condizione di non poterne far senza, perché rimangono altri due fratelli per la gestione del fondo. Le condizioni economiche sono buonissime, essendo in 10, e la famiglia Pagliani è proprietaria di un largo fondo rustico e di case. Il Pagliani Giuseppe non ha per nulla obblighi di coscienza. Ha sempre lavorato per la famiglia ed è pronto a rinunciare alla sua parte. Non si può più trascurare una vocazione così bella e decisiva». Nella mischia entrò anche un cugino sacerdote e professore che, in un primo tempo, difese la vocazione di Giuseppe e poi, forse commosso dalle argomentazioni del papà, pregò i superiori di non accettare la domanda del candidato in quanto due dei fratelli che dovevano mandare avanti la famiglia non andavano d'accordo per cui uno sarebbe uscito di casa. Il parroco intanto, in una seconda lettera, rilasciava una splendida testimonianza su Giuseppe «nato ed educato da genitori veramente cristiani, fin dai primi anni ha dato prova di rara pietà e di vocazione allo stato ecclesiastico. Ciò nonostante ha sempre vissuto la vita ritirata esercitandosi nelle virtù e nel lavoro, edificando non solo i familiari ma anche l'intera parrocchia. Non fuma, non gioca, non ama i divertimenti, non ha mai amoreggiato né pensato a formarsi una famiglia. Si è sempre esercitato nella santa purità passando la sua vita nella famiglia, nella chiesa, nel Circolo del quale da vari mesi è presidente. Ed anche come combattente nell'ultima guerra, è stato di ammirazione ai suoi superiori ed ai suoi compagni. Ora il Signore lo chiama imperiosamente all'ideale radioso delle missioni africane. Lascia l’agiata famiglia e i vecchi genitori di cui è l'idolo, i giovani, dei quali è l'apostolo, la parrocchia di cui è l'esempio, Don Primo Carotti, priore. San Damiano 26 gennaio 1923».

Il Signore è buono

Tra l'infuriare della bufera, Giuseppe «dall'animo sensibilissimo e molto attaccato ai familiari e ai parenti» (p. Santandrea) provò le pene dell'inferno. Da bravo figliolo, voleva sì, partire ma con la benedizione del vecchio padre. Le parole del Vangelo «chi ama il padre e la madre... » gli risuonavano sempre più forti alla mente, tuttavia voleva rispettare anche il quarto comandamento. Egli, che era stato tra i Lancieri di Mantova e che, nella disfatta di Caporetto, era arrivato con la sua cavallina, Nina, fino a Bologna, avrebbe potuto fare un gesto clamoroso. Invece no: bisogna seguire il Signore, ma facendo il meno male possibile al prossimo. Tanto fece, tanto pregò, che finalmente riuscì a scrivere, con una bellissima calligrafia, la lettera decisiva. «A.M.D.G. 27 marzo 1923 M.R. Padre, Il Signore è buono e mi ha aiutato totalmente, che ormai posso partire per la missione. Se non col consenso del papà, almeno lo lascio più persuaso e rassegnato. Perciò sono lieto di farle sapere che, dopo Pasqua, in un giorno che le comunicherò con un'altra lettera, mi porterò direttamente a Venegono. Intanto la ringrazio della lettera che ha mandato a papà, e di quanto ha fatto per me. Voglia seguitare a volermi bene e favorisca a voler domandare al Sacratissimo Cuore di Gesù la completa rassegnazione per il mio papà e per la famiglia tutta. Le porgo i migliori auguri di buona Pasqua. Mi ricordi al Signore perché mi aiuti a partire bene dai miei cari. Suo nel Signore, Pagliani Giuseppe». L'ultima frase è tinta di sangue che scaturiva dal suo cuore di figlio affettuoso.

Una strana malattia

Il primo novembre 1923, Giuseppe fece la vestizione e diede inizio al periodo di noviziato. Dopo quello che ha detto il parroco, possiamo immaginare l'impegno che mise nel compiere i suoi doveri. P. Alceste Corbelli, maestro, scrisse di lui: «Ha buona volontà e va bene in tutto. Buono, pio, puro, schietto, osserva bene le regole, è umile e obbediente, diligente nei suoi doveri. Grande lavoratore, carattere affabile, mansueto, riflessivo, ma poco espansivo». Questa scarsa espansività se la portò dietro per tutta la vita. Anche al Centro Ammalati di Verona, assicurano gli infermieri, pur partecipando volentieri alle ricreazioni e dimostrando un grande amore per la comunità, egli stava zitto. Amava ascoltare gli altri, magari commentare con un sorriso le loro battute, ma difficilmente interveniva, quasi che le cose dette dagli altri fossero più interessanti di quelle che avrebbe potuto dire lui. Fatta la professione il 13 novembre 1924, quindi dopo appena un anno e pochi giorni di noviziato (anche questo è significativo), fu inviato a Verona come cuoco. Vi rimase per un anno e mezzo. «Lavorava con il maggior impegno - dice padre Santandrea - ma psicologicamente era insoddisfatto. Lui, che aveva affrontato tanti e tali sacrifici per andare in missione, vedendosi tra le pentole, cominciò a dimagrire finché dovette mettersi a letto. Eppure cercava di fare volentieri quella "volontà di Dio". Il medico capì la malattia e ordinò la cura: Africa. E i superiori lo ascoltarono.

Evangelizzazione e promozione umana

Nel dicembre del 1926 Fr. Pagliani era a Kayango, nel Sudan Meridionale, umile allievo di P. Arpe. La salute, improvvisamente, era rifiorita. Abbiamo già detto che il lavoro, per Fr. Giuseppe, era una forma di preghiera. Ma era anche un modo di evangelizzazione e di promozione umana. Come altri confratelli hanno concretizzato la loro missionarietà principalmente nella scuola, Fr. Pagliani l'ha concretizzata nel lavoro. Dice P. Santandrea: «Fr. Giuseppe ha evangelizzato e annunciato Cristo educando al lavoro gli Africani. Lavoro che egli praticò con vera passione cercando di inculcarne l'amore alla gente d'Africa». L'impresa fu ardua ma non inutile. Basta sfogliare le pagine della NIGRIZIA di quegli anni per constatare che razza di attività avevano messo in piedi i missionari, come officine, falegnamerie, lavoro dei campi.. . Fr. Pagliani fu un protagonista in questo settore, lasciando ai confratelli sacerdoti maggior tempo e disponibilità per l'evangelizzazione vera e propria. Prospettata la fondazione di Deim Zubeir, a 180 chilometri da Kayango, vi furono collocati alcuni catechisti i quali coprivano, con la loro attività, zone abbastanza lontane tra loro. Al centro doveva poi restare stabilmente il famoso Battista Mufiki, vero martire per la fede ucciso dai musulmani nel 1964, quando i missionari furono espulsi in massa dal Sudan Meridionale (Per questi fatti si può consultare Archivio Comboniano Anno IX - 1971 -1, pag. 140 e seg.). Per circa due anni la nascente stazione di Deim Zubeir veniva visitata varie volte all'anno da P. Arpe cui, di solito, si accompagnava Fr. Pagliani. La stazione vera e propria venne fondata nel 1926 dai padri Bernhardt e Gubert. Nel dicembre di quell'anno i due furono raggiunti da Fr. Pagliani il quale doveva partire da zero come lavoro materiale. Finalmente si sentiva un vero missionario.

Giustizia e realismo

Dopo le vacanze del 1935-36, trascorse a Padova come sagrestano, fu inviato a Mboro, Mupoi, Raffili e Kayango, per finire sempre a Deim Zubeir, almeno per lunghi periodi, dove - a detta di molti - aveva lasciato un pezzo di cuore. In ogni missione ha lavorato senza risparmio di fatica, dando tutto se stesso, ogni giorno, «e insegnando agli Africani la quasi impossibile legge del lavoro con pazienza infinita e amore sconfinato» (P. Santandrea). «Nel suo modo di lavorare - dice Fr. Fabris - vanno messe in risalto due caratteristiche: Prima, il senso di giustizia con i suoi operai· per cui si faceva un dovere di coscienza nel dare loro la giusta mercede, una mercede che consente al lavoratore di mantenere dignitosamente la propria famiglia secondo le esigenze del luogo». In questo si scorge il riflesso del possidente emiliano, abituato a trattare con le persone - e da cristiano - senza trucchi e sotterfugi. «La seconda caratteristica - prosegue Fabris - è il realismo. Pagliani non vedeva di buon occhio l'affluire di facili offerte alle missioni. Offerte abbondanti che alle volte spingevano a spese e a lavori pressoché inutili. Egli era del parere che ogni missionario deve fare affidamento sul proprio lavoro per mantenersi, in spirito di povertà, per seguire l'esempio di San Paolo che fabbricava ceste per non dipendere dagli altri, e in ossequio al comandamento divino che impone di guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte. Il lavoro era un dovere sacrosanto». Queste sue teorie furono causa di vivaci discussioni e gli procurarono qualche ‘nemico’. «Lavori meno e parli di più», scrisse un superiore su quei ‘famosi’ fogli che oggi appaiono come l'emanazione di qualche polizia segreta o sacra inquisizione, e d'altra parte sono anche tanto utili per capire la personalità del soggetto (e anche di chi scrive). Dopo un annetto scarso di vacanze tra il '47 e '48 a Rebbio come ortolano, Fr. Pagliani ritornò ai suoi luoghi di missione, prestandosi in tutti i lavori di cui la missione abbisognava, con una certa preferenza per l'orto dove l'anima contadina di Giuseppe trovava lo spazio più adatto. Intanto le malattie cominciarono a fare capolino. Per almeno due volte andò in pericolo di vita a causa della febbre nera che gli diede forti bastonate ai reni. Per cui, nel gennaio del 1958, dovette rimpatriare definitivamente. Ma lui sperava sempre di poter ritornare, finché i fatti del 1964 vennero a dirgli che, per il Sudan Meridionale, l'unica attività che si poteva fare era quella di una preghiera costante e fiduciosa. Visse abbastanza a lungo per vedere il ritorno dei confratelli in quella terra.

Ora parlo con Dio

Padova, Roma-Parioli, Firenze furono le case che videro la silenziosa attività di Fr. Pagliani, portinaio, ortolano, sagrestano, ad omnia insomma. Le testimonianze dei giovani che sono stati con lui sono concordi nel definirlo «uomo del consiglio». Sapeva dare consigli giusti, opportuni, senza darsi delle arie di uno che sa, ma cavandoli dall'esperienza della sua vita dura e dal suo buon senso di lavoratore e contadino. «Sì - dice un confratello che è stato a Firenze con lui - ci faceva sgobbare ma ci voleva tanto bene. Sulla tavola non mancava niente. La frutta e la verdura erano sempre varie, sane e abbondanti. E come godeva quando ci vedeva mangiare di gusto!». Un altro dice: «Superai una brutta crisi di vocazione proprio confidandomi con Fr. Pagliani. Mi disse che la lotta era parte necessaria nella nostra vita, per maturare; mi parlò anche delle sofferenze che dovette sostenere per essere fedele alla sua chiamata, soprattutto mi parlò delle gioie interiori che il Signore riserva a coloro che si sacrificano per il suo Regno». Nel periodo fiorentino, dal '60 al '77, Fr. Giuseppe dimostrò un particolare «fiuto» per individuare le vocazioni vere da quelle fasulle. Pur usando la massima discrezione in questo delicato compito, sapeva dire la parola giusta, alla persona giusta, nel momento giusto. Dal 1977 dimorò al Centro Ammalati di Verona. Il vecchio e incallito lavoratore non si smentì. Sempre puntuale, lo si vedeva presso l'ufficio Nigrizia per imbustare, incollare indirizzi, piegare i fogli che l'incaricato gli passava. Ci dava dentro sodo, senza perdersi in chiacchiere inutili. Come a Firenze si adoperava volentieri per accompagnare il confratello sacerdote nelle giornate missionarie, così a Verona era lieto di poter offrire la sua testimonianza missionaria ai giovani del GIM, che vedevano in lui la figura del missionario autentico. Quando anche questo lavoro gli divenne gravoso per nuovi disturbi che si aggiungevano ai vecchi (nel '79 dovette mettersi il pace maker per sostenere il cuore), si diede totalmente alla lettura spirituale e alla preghiera. «Ora parlo con Dio», disse ad un infermiere. E in questo colloquio maturò il desiderio di andare con Cristo il più presto possibile. «Sembra strano - dice Fr. Gianni - ma Pagliani desiderava sul serio di morire. E lo diceva candidamente. Non perché ormai si sentisse incapace di lavorare, ma proprio spinto dal desiderio del pellegrino che non vede l'ora di tornare a casa. Non è una cosa tanto comune, questa, tra gli anziani». Quindici giorni prima della morte, ebbe una paralisi, perdendo la parola. I reni si bloccarono, il cuore non reggeva più. Eppure la fibra, nonostante i 91 anni, era ancora forte. «Era nell'atteggiamento di continua accettazione - assicura Fr. Meloni - accettazione e preghiera, senza lamentarsi. Eppure soffriva molto, moltissimo direi. Solo nei momenti di maggior acutezza dello spasimo emetteva un esile gemito. Il 31 luglio 1985 spirò. Durante la messa funebre, P. Catellani - suo coetaneo - illustrò la figura di questo autentico e sincero missionario. Ricordò il buon esempio che Pagliani, reduce dall'Africa, diede agli apostolini di Padova nel 1935, il suo esempio di missionario di poche parole e di tanto lavoro, di amore vero ai confratelli, di povertà vissuta realisticamente e di umiltà profonda per cui amava mettersi all'ultimo posto. La sua lunga vita, oggi, diventa una scuola alla quale ognuno di noi trova qualche cosa da imparare. La salma è stata tumulata nel cimitero della sua parrocchia, San Donnino.                         P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 147, ottobre 1985, pp.75-79