Era un ragazzino di 12 anni quando, appena messo piede nel seminario diocesano, ebbe modo di ascoltare la parola ardente di padre Beduschi, il missionario che tutti conosciamo. Poi le cose andarono avanti normalmente. Paolo era un ragazzino estremamente vivace, ma altrettanto generoso, per cui i superiori si aspettavano di avere un assistente di oratorio di primo grado e poi un prevosto pieno di zelo e di iniziative apostoliche. «Reverendissimo padre Vianello - scrive in una lettera del 14 luglio 1922 - oggi sono stato a Milano e ho fatto visita al mio Rettore del seminario maggiore. Lì incontrai padre Beduschi che non vedevo dall'età di 12 anni. Con loro concertai di far subito la domanda ai miei superiori diocesani e di tagliar corto. Prima di stendere la domanda voglio informare lei... da domani provvedo a regolare ogni partita nell'amministrazione della Cooperativa e poi cercherò di ottenere il consenso dei miei genitori evitando quella lotta che sarebbe troppo dolorosa per tutti. Procurerò di rimandare in famiglia la zia che è con me...».
Don Paolo era sacerdote da due anni, essendo stato ordinato a Milano il 20 settembre 1919; ora era coadiutore a Castano Primo.
Possediamo una stampa di don Paolo in mezzo ai giovani di Castano Primo. Risaltano immediatamente i suoi occhi grandi e ardenti (spiritati, li chiamavano da vivo). Suor Aurora, comboniana, riandando a questo periodo, dice: «Per il suo zelo e la sua generosità si conquistò ben presto la fiducia e l'ammirazione da parte di tutta la popolazione. Avvicinò a Cristo parecchie anime con il suo bel modo un po' buttato là. In particolare è stato animatore di vita cristiana per molti giovani, alcuni dei quali seguirono poi la vita consacrata. I Castanesi hanno serbato sempre per padre Cereda profonda gratitudine ed intenso affetto, anche dopo la sua partenza per entrare tra i missionari comboniani».
La vocazione missionaria di padre Paolo è stata “sofferta”. Il Rettore, con terminologia calcistica, dice a padre Vianello che «don Cereda sarà certamente un buon acquisto per la Congregazione, perché, pur essendo vivace, è docile, lavoratore e ben intenzionato. Da chierico mi aveva interrogato riguardo alla vocazione missionaria, ma questa s'assopì durante la guerra».
Don Paolo afferma in una lettera del giugno 1922 al superiore di Verona: «Mi preme avere la sua illuminata parola, tanto più che diffido assolutamente di me. Non avevo mai pensato a una Congregazione missionaria, pur avendo sempre avuto il desiderio di essere missionario. Mentre 4 o 5 anni fa l'idea di farmi frate mi avrebbe spaventato e mi sarei opposto assolutamente e tenacemente, ho subito unito l'idea missionaria mia a quella di Congregazione. Mi spaventa la mia debolezza in fatto di pietà, il poco fervore e una certa dissipazione. Il mio direttore, don Motta, mi ha dato il pieno consenso. I miei genitori, nonostante la pietosa guerra dell'affetto, mi lasciano libero e già mi tengo libero perché la voce del confessore mi ha assicurato della chiamata del Signore. Se si è fatta udire la voce del Signore non voglio dilazionare neppure di un giorno. Sono disposto a tutto pur di assicurare la santificazione dell'anima mia e la salvezza di altre anime almeno col mio sacrificio perché altro non son capace di fare». «Spirito di pietà eccellente - scrive il suo Rettore - aperto, gioviale, pieno di iniziative, gode la simpatia di tutti».
Il primo novembre 1922 don Paolo faceva la vestizione nel noviziato di Venegono e cominciava il suo tirocinio per diventare missionario comboniano.
La grande avventura
Emessi i Voti temporanei il 4 novembre 1923, dopo appena un anno di noviziato, verso la fine dello stesso mese era già a Rejaf in Sudan meridionale.
La vita missionaria di padre Cereda fu una grande avventura all'insegna dell'entusiasmo, dell'allegria e di qualche «spacconata» alla milanese. Gli episodi sarebbero infiniti e divertenti. Qualche esempio? Tra un safari e l'altro aveva l'hobby di allevar cani e cavalli. A parole si diceva espertissimo in questa materia e conoscitore consumato della psicologia animalesca. Ma ecco che un brutto giorno venne morsicato da un asino. Fu una delle sue più grandi umiliazioni.
Fr. Gaspare Lazzari fu compagno del Padre nel periodo di Rejaf. Egli ricorda: «Ho ancora in mente il padre Paolo quando nel lontano 1924 era a Rejaf insieme a padre Zambonardi. Si mise subito al lavoro con grande entusiasmo. La stazione era stata fondata da appena 4 anni. I cristiani aumentavano lentamente e avevamo bisogno di una grande spinta. Padre Paolo si diede subito ad imparare la lingua, ma era più inclinato al lavoro che allo studio. Appena aveva imparato qualcosa di Bari cominciò i safari, ma la lingua non era il suo forte. Una volta, trovandosi con un gruppo di ragazzi e ragazze, domandò a una ragazzina di circa 6 anni, quanti anni avesse. La parola anni, in Bari, è simile alla parola mammella. Uno del gruppo rispose subito che ne aveva due. Il Padre fece le meraviglie e disse che la ragazzina ne doveva avere almeno sei. Il che fece scoppiare tutti dalle risa.
Un'altra volta era arrivato in un villaggio con la bicicletta. I suoi bagagli sarebbero arrivati dopo con i portatori. Un ragazzo gli domandò come stesse la sua sorella Alifan che era in missione. Il nome della sorella era simile al nome di una medicina. Il Padre, credendo che il ragazzo chiedesse la medicina, rispose, che Alifan era nella cassetta che stava per arrivare.
Avevamo comperato un mulo per il lavoro della missione. Era una bestia talmente selvaggia che nessuno poteva domare. Solo la volontà e la tenacia di padre Paolo la spuntò su quella bestiaccia. Da qui la sua fama di domatore.
Dopo un anno, cioè da quando padre Paolo era giunto a Rejaf, tutti sapevano delle sue eccellenti doti di missionario e del suo lavoro. Venendo Mons. Vignato a visitare Rejaf, disse a padre Paolo che lo voleva a Gulu. Per noi fu una sorpresa e un dispiacere al solo pensiero di perdere un tipo che teneva allega tutta la brigata e dava una carica di entusiasmo a tutti. Ma monsignore disse che a Gulu aveva bisogno di uno come padre Cereda».
Superiore ideale
Dal 1925 al 1930 padre Cereda si trovò a Gulu. Un confratello che gli è stato suddito in quel periodo, ci lascia la seguente testimonianza: «Quando arrivai a Gulu, il 4 gennaio 1927, vi trovai pure padre Cereda come superiore e parroco della missione. A lui debbo molta riconoscenza per avermi guidato nei primi passi della vita missionaria con vero amore di padre. Mi voleva accanto a sé quando spiegava il catechismo ai catecumeni, mi voleva con lui nell'ufficio parrocchiale quando parlava ai catechisti, ai maestri, quando scioglieva situazioni e questioni pastorali con i cristiani, soprattutto voleva che lo ascoltassi quando dava direttive. Di tutto quanto andava facendo mi dava minute spiegazioni, voleva che ne conoscessi le ragioni. Quello che gli stava soprattutto a cuore era che io imparassi a condur bene il catecumenato in missione. Un orario dettagliato fissava il tempo della preghiera, dell'istruzione, del lavoro. Il cibo per tutti questi catecumeni (mai meno di 200, divisi in 3 gruppi) era in massima parte provveduto dalle coltivazioni fatte dai catecumeni stessi, nel pomeriggio, sotto la direzione di capi-uomini secondo le direttive del Padre. Erano giornate piene davvero. Ogni due mesi un gruppo riceveva il santo battesimo. P. Cereda seguiva più da vicino questi, in quanto sentiva al massimo la responsabilità di fare dei nuovi cristiani.
Al mattino del giorno del battesimo, il Padre portava i neofiti in uno dei fabbricati che servivano per l'istruzione dei catecumeni e lì dava le ultime esortazioni insistendo in modo particolare sul dolore dei peccati. Dall'uso di quei fabbricati per portare i battezzandi a pentirsi dei loro peccati, ne venne il nome di «ot tar bal» casa dove si chiede perdono dei peccati.
Finita la solenne funzione, nella piazza davanti alla chiesa i nuovi cristiani davano sfogo alla loro gioia: un vero tripudio di santa letizia. Ed il Padre partecipava a quella gioia e ne godeva, preso lui pure com'era dallo stesso entusiasmo.
Dopo il battesimo, l'istruzione ai nuovi cristiani proseguiva per altri due mesi. P. Cereda in persona spiegava il Nuovo Testamento e insisteva soprattutto sull'amore fraterno, il perdono cristiano e l'aiuto vicendevole, le colonne del cristianesimo, come diceva lui.
Nel pomeriggio dell'ultimo giorno della loro permanenza in missione, aveva luogo la solenne cerimonia della consegna del rosario e del crocifisso messo al collo. Dopo il rinnovo delle promesse battesimali e la benedizione eucaristica, tutti cantavano a squarciagola «Io sono cristiano» e la mattina dopo tornavano ai loro villaggi. Non era finita qui. P. Cereda mi portava nei suoi safari per visitare i cristiani, richiamare chi sbagliava, sostenere chi vacillava. Il Padre voleva che imparassi bene come si fanno i safari perché i cristiani ne abbiano a trarre il più grande profitto spirituale possibile. Quelle visite alle cappelle, insieme a Padre Cereda, furono un vero tirocinio di pratica, di intensa conoscenza di quanto un missionario doveva fare. Sì, devo proprio dire che P. Cereda fu un superiore di missione ideale, un vero padre per i giovani che arrivavano dall'Italia, un missionario genuino, un amico sincero».
Per il suo acceso zelo missionario e per il suo carattere esuberante, ha sofferto talvolta nei contrasti con qualche superiore.
Prigioniero
Durante le vacanze in Italia P. Cereda diventava un animatore convinto ed efficace. Certamente aveva presente la figura di P. Beduschi e ne batteva le orme. Nel suo modo di fare c'era qualcosa dell'attore: il gesto, la battuta, l'espressione del viso e degli occhi, per cui era un vero piacere ascoltarlo. Il suo parlare era intercalato da espressioni di genuino milanese che i molti anni passati in Africa non erano riusciti ad attenuargli. Non per niente quando si è trattato di scegliere un missionario per fare la parte nel film «Okiba non vendermi» il regista ha scelto proprio lui, P. Paolo.
Dal 1940 al 1947 fu cappellano militare in Libia. Abbiamo qualche fotografia del Cereda in divisa con tanto di stivaloni tirati a lucido e il cinturone... «A quei tempi, quando si nominava l'Italia tutti si levavano il cappello. Oggi ci sputano!» - disse un giorno stigmatizzando il cambiamento di “stagione”.
Servendo la patria finì prigioniero in Sudafrica. Nel campo di concentramelo P. Paolo fu il sostegno, la forza, la speranza, il padre, l'amico, insomma il sacerdote per tanti giovani delusi e avviliti. Essendo un tipo che non sopportava le ingiustizie, parecchie volte difese i prigionieri esponendosi in prima persona e pagando poi delle dure conseguenze.
Il ricordo di P. Paolo, come di altri nostri confratelli prigionieri, restò in benedizione. Col suo modo di fare seppe entrare nella psicologia dei soldati (un po' meglio di come era entrato in quella degli animali) e fece un gran bene.
Addio Africa
Dopo 10 mesi di riposo nel 1947, si sentì pronto a partire di nuovo per l'Africa: Lerwa, in Sudan meridionale. Undici anni difilati. L'Italia non poteva mandare aiuti alle missioni essendo tutta a pezzi per le conseguenze della guerra. P. Paolo non si impressionò: con l'aiuto dei catecumeni mise in piedi una “farm” modello, che era in grado di dar da mangiare a tutti i missionari e catecumeni, e che contribuì alla promozione umana della gente che evangelizzava. «Se imparano la lezione, non sapranno più che cosa vuol dire fame», diceva con orgoglio mostrando le coltivazioni di caffè, di ortaggi, di piante da frutto, di grano e l'allevamento di mucche.
Giurava che l'Africa avrebbe accolto le sue ossa, tanto ne era innamorato. Invece, dopo quattro anni finì in Italia per curarsi gli acciacchi che corniciavano a farsi sentire e per dedicarsi al ministero. L'obbedienza poi lo scagliò negli Stati Uniti. Incredibile! Questo cavallo brado riuscì ad adattarsi al clima americano e resistere per 4 anni. Anche in America si considerava un missionario d'Africa, di quell'Africa che portava continuamente nel cuore e che raggiunse nel 1970 accontentandosi di essere vice parroco ad Aloi, in Uganda.
Mandeme un colpet
P. Cereda aveva una grande paura nella sua vita: quella di finire su un seggiolone. Lo disse chiaramente un giorno quando esclamò: «Non mi capiterà mica di ridurmi seduto su un seggiolone in qualche casa di riposo!». E per scongiurare questo pericolo, quando rispondeva alle litanie della Madonna, invece di dire «ora pro nobis», egli pregava «mandame un colpet». Entrava anche questo nello stile di padre Cereda.
In una lettera al padre Generale (Briani) caldeggia con espressioni pittoriche la costruzione di un Centro per malati e anziani. Egli stesso si diceva disposto a cercarlo o a cercare i soldi per costruirlo. Bastava buona volontà e costanza: «Ponza e ponza e ponza,... è saltata fuori la monaca di Monza». Poi, con un po' di amarezza riprende: «Se sarò confinato su una sedia a rotelle, dov'è la casa dei vecchi da lei promessa? Penso sempre agli ultimi giorni della mia vita e non vorrei essere di preoccupazione come lo fui tante volte».
Inoltre aveva il desiderio di morire giovane. «Il mio motto è: più vita per i miei anni, e non più anni per la mia vita». Invece vedeva che gli anni passavano segnando il suo corpo ancora forte. Cominciarono ad apparire sulle gambe delle piccole piaghe che stentavano a guarire. Il buon umore e il fare un po' spregiudicato lo accompagnavano sempre e lo aiutavano a tenersi su di morale, ma nel suo intimo si insinuava sempre di più un filo di angoscia, prima quasi impercettibile e poi, via via più consistente. Dio stava preparando quel suo missionario a diventare un grande missionario, un pezzo da novanta, anche nella sofferenza, come lo era stato nell'attività apostolica.
Ancora 9 anni
Nel 1975 P. Cereda dovette lasciare l'Africa definitivamente. Nonostante i suoi 77 anni sentì l'amarezza di quel distacco perché era ancora un uomo pieno di vita e ricco di ideali. Andò a Gordola, in Svizzera. Intensificò le sue preghiere nella speranza di una veloce partenza da questo mondo, ma mancavano ancora 9 anni all'incontro col Signore.
«Lo vidi a Gordola nell'estate del 1979 - dice un confratello. - Andai a trovarlo per intrattenermi con lui, come un tempo. Lo trovai seduto, lui che non era capace di star fermo. Era proprio su di un seggiolone, come aveva sempre temuto. “Le mie vie non sono le vostre vie”. Le gambe non lo reggevano più. Celebrava la santa Messa seduto. Ho ascoltato anche la sua spiegazione del vangelo alla comunità cristiana di Gordola. La voce era meno viva del solito, meno forte, ma l'ardore della sua fede era quello di un tempo, anzi con un tocco in più datogli dalla sofferenza che ormai era diventata sua compagna inseparabile».
P. Cereda non si ribellò al dolore, lo accettò come parte integrante della vita cristiana e come coronamento dell'attività missionaria. Ministero e sofferenza erano i due binari su cui il Signore aveva posto la sua santità.
Il tempo del ministero, dell'attività apostolica, era passato. Poi a Verona, in casa madre, per gli ultimi anni. A tratti anche la mente cominciava ad offuscarsi. Ma anche in quei momenti di tenebre il gran vecchio mostrava la lega di cui era temprato; e pregava, e offriva a Dio le sue pene quasi per un moto istintivo dell'anima, per una lunga abitudine maturata durante la vita.
Dice ancora Fr. Lazzari: «La loquacità di P. Paolo era nota a tutti. Nessuno poteva immaginare che si riducesse a diventare quasi muto, negli ultimi mesi. Infatti non diceva più una parola, si lasciava fare come un bambino.
Fu per me una pena quando, un mese prima della morte, lo vidi nella saletta TV dell'infermeria, che dormiva. Gli picchiai sulla spalla, ma non si svegliò. Non volli insistere e lo lasciai dormire. Mi allontanai con un gran nodo al cuore. Aggravatosi, fu portato all'ospedale. Domandai al fratello infermiere come stava. Mi rispose che doveva essere imboccato. Dopo qualche giorno appresi che era morto. Esclamai dentro di me: "Tempo crudele che rodi e consumi!". Dopo due giorni lo portarono in Casa madre per le esequie, io ero vicino alla cassa. Mi pareva impossibile che contenesse colui che era stato P. Cereda. Mi pareva che lui mi dicesse: "Coraggio fratellino (mi chiamava sempre così) tu non puoi immaginare quanto io sia felice". Un'ultima cosa voglio dire. P. Cereda ha amato immensamente i Fratelli, per essi si è fatto in quattro, sempre. Aveva capito la nostra vocazione non facile, spesso scarsa di consolazioni apostoliche e ricca di nascondimento... Caro padre Paolo!».
P. Cereda è stato sepolto a Venegono Superiore nella cappella dell'Istituto. Con lui scompare un missionario della prima ora, la cui esistenza è alonata da eroismo e da leggenda. Ci lascia l'esempio di un grande uomo di Dio, una di quelle figure che imprimono il segno, che hanno fatto, insomma, della salvezza delle anime l'unico movente della propria vita. p. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 143, ottobre 1984, pp. 65-70