All'alba della festa di Cristo Re, 20 novembre 1977, Dio volle chiamare a sé il suo servo fedele, Fr. Enrico Vanzo. Nato a Conegliano Veneto (TV) il 23 ottobre 1912 da piissimi genitori, Enrico ebbe una fanciullezza molto provata. Nelle sue memorie troviamo: «Rimasi orfano dei miei genitori fin dalla mia prima giovinezza con un fratello e due sorelle da mantenere. Poco prima che mio padre morisse si emigrò in Lombardia, a San Macario (Varese). Ai miei tempi avevano appena messo la quarta elementare, ma io non potevo frequentare la scuola. Dovevo lavorare per mangiare e poter mantenere i miei».
A 16 anni sente forte il desiderio di andare in seminario, ma «non posso entrarvi - scrive - per ragioni di famiglia e finanziarie. Rimango in parrocchia e divento assistente dei “Pinucci”.
La chiamata e la crisi
«Eravamo nel 1931 - scrive ancora il Fratello - e un missionario (era il P. Sisto Mazzoldi , che sarà più tardi suo Vescovo in Sudan) in una predica parlava dell'Africa meravigliosa e della necessità di nuovi missionari sia come sacerdoti che come cooperatori detti Fratelli. Rimasi profondamente colpito. Conversai con il missionario e venni alla decisione: darmi totalmente alle missioni africane». Esuberante di energie, di una avvenenza non comune, con il puro entusiasmo di un giovanotto di 19 anni, dopo aver sistemate le sue sorelline presso gli zii di Ancona, Enrico entrava il 2l.9.1931 nel noviziato di Venegono Superiore. «Qui cerco di attuare la mia aspirazione al sacerdozio. Chiedo al P. Molinaro di poter studiare per diventare sacerdote, ma non vengo ammesso per mancanza di preparazione scolastica. Rassegnato, ma non troppo, accetto di essere missionario coadiutore» . Imbevuto dello spirito missionario del nostro Fondatore, Fr. Enrico emetteva i santi Voti il 19 marzo 1934. Nello stesso anno, in ottobre, partiva per il Sudan.
A distanza di soli quattro anni, nel 1938, scrive: «Desidero tornare in Italia per studiare da prete. Non mi sarei mai immaginato che cosa vuol dire la mancanza del sacerdote in missione. Sì, il Fratello Coadiutore è più che utile, direi necessario, specialmente in questi ambienti, in queste missioni dove c'è tutto da fare. Ma il sacerdote è indispensabile. Accorre tutti i giorni, di notte e di giorno a tutte le ore. Ecco perché vorrei essere sacerdote». Passò una crisi tremenda. Dio volle che trovasse in P. De Berti una guida sicura per rasserenare il suo spirito tanto agitato. Obbedì, e rimase in missione.
Vita di missione
Dai suoi scritti pubblicati a San Macario abbiamo una breve cronistoria della sua vita dagli anni 1940 al 1963. «Nel 1940 scoppiò la guerra. Noi missionari fummo internati in un nostro collegio. Io solo ebbi il permesso di uscire per cacciare animali e rifornire di cibo la missione, che allora comprendeva 35 missionari e 150 studenti. Nel 1942 ritornai a Rejaf per alcune riparazioni di quella missione. Nel 1943 fui trasferito in una tribù Madi. Dovetti imparare una nuova lingua. Vi erano molte cose da fare ... anche una scuola da costruire. Mi ingegnai come potevo e in mancanza di strumento da disegno e del compasso, dovetti disegnare le arcate aiutandomi con un ago e del filo, o con dei bottoni...». Più tardi riprende i lavori della chiesa, ma per mancanza di mezzi va questuando in Uganda.
Nel 1949 è obbligato, per salute, a rimpatriare. Viene operato. Passa pochi mesi in Inghilterra e nel 1950 lo troviamo a Rejaf per la costruzione della cattedrale. Viene quindi mandato a fondare il seminario per i Fratelli Sudanesi. Con vero piacere egli ricorda nelle sue memorie quella sua missione prediletta: «Ripresi i lavori di costruzione. A tempo libero curo i malati e distribuisco medicinali: pulisco piaghe, fascio ferite e medico infezioni. Ho conquistato molta stima e influenza tanto che tutti volevano andare da "Bancho" (così mi chiamavano); la zona stessa da allora ebbe due nomi: KIT e BANCHO».
Ma il 6 gennaio 1963 ebbi l'ordine di lasciare il Sudan entro 6 settimane. Prima di partire ebbi la grande consolazione di battezzare il Capo tribù ... Il giorno 8 febbraio ero a Roma» .
L'apostolo infaticabile
Da varie testimonianze di confratelli e da alcuni altri suoi scritti possiamo avere un'idea del lavoro prezioso di questo caro missionario, che nella semplicità e umiltà evangelica, per il suo zelo apostolico seppe avvicinarsi tanto al Comboni. P. Santinoli attesta: «La sua grande virtù: quella dell'umile fratello, pieno di fede, collaboratore del padre missionario, il factotum della missione, il fratello di casa, costruttore, catechista, infermiere, maestro d'arti e mestieri e predicatore... Era un apostolo con i suoi operai. Li seguiva spiritualmente. Metteva a posto i casi matrimoniali e li incoraggiava nella loro vita cristiana. Alla domenica era lui che guidava la preghiera e predicava, specie quando i Padri ancora novellini non sapevano sbrigarsi sufficientemente nella lingua locale che lui conosceva bene». «Dio - scrive P. Baj - non lo ha accontentato nel suo desiderio di essere suo ministro ufficiale, ma lo ha voluto suo ministro sacrificale ogni momento, specialmente dopo la notizia che egli non poteva continuare gli studi, che i Superiori gli avevano concesso di iniziare nel 1971 ». P. Adelmo Spagnolo ci assicura che Fr. Vanzo «non è dimenticato tra i Bari. Mi chiedono sempre notizie di lui. E a lui hanno dedicato la fornace di mattoni, quella che lui stesso aveva iniziato: The Bancho's Tiles Factory ... Il caro Fratello è sempre stato un'ispirazione per me. .. Amava i suoi Bari. Sapeva a perfezione la loro lingua. Si intratteneva spesso coi vecchi ed anziani che lo ascoltavano volentieri perché parlava chiaro e capivano che lo faceva per il loro bene. Aveva un cuore grande e generoso per i ragazzi. Per me è sempre apparso come un Fratello completo nella sua vocazione missionaria». E Mons. Mazzoldi: «La sua vita di preghiera era intensa: meditazione, sacrificio, tutto animato da una grande fede per la crescita della Chiesa, la salvezza dei fratelli, la gloria di Dio. Amava in modo particolare insegnare il catechismo. Spiegava il Vangelo, predicava e trascinava i fedeli che avevano per lui una grande stima e venerazione». P. Lombardi ricorda che «era comune il detto: "la missione è di Fratel Bancho"! A chiunque si chiedesse: "Dove vai?" la risposta era: "A consultarmi con Bancho". Alla domanda: "Da dove vieni?", non sentivi altro che risponderti: "Da Bancho, naturalmente!". Quando quella processione del 19 marzo 1943 che si stava facendo per ottenere la pioggia fu improvvisamente interrotta da un inaspettato e provvidenziale acquazzone, la voce si sparse che "Bancho fa miracoli". Non contento della parola, Fr. Enrico adoperava anche la penna per fare del bene ai seminaristi, agli amici in Italia, specialmente ai giovani, agli ammalati. I suoi scritti, così pieni di tanta semplicità francescana e della saggezza evangelica, meriterebbero di essere pubblicati a parte.
La grande prova di amore
Con la gioia immensa di aver battezzato il Capo tribù, Fr. Enrico chiuse la sua vita di apostolato diretto in Africa per iniziare in Italia la seconda parte della sua esistenza, piena di mortificazione, sofferenze, amputazioni ed angosce, che lo rese simile all' “Uomo dei dolori”.
La sua Via Crucis durò quattro anni. La croce gli divenne così pesante da farlo soccombere. Non ha trovato nessun cireneo.
Ecco la sua Cartella clinica
Arriva a Verona, Casa Madre, nel 1973. Dal 25.1.1974 al 9.4.1974, primo ricovero all'ospedale di Negrar. Diagnosi: Miocardio sclerosi in scompenso, -diabete, -amputazione 4° dito piede sinistro per gangrena diabetica. Ai primi del 1975: ricovero a Negrar, e più tardi, amputazione completa dell'arto sinistro. Giugno 1975: nuovo ricovero per rieducazione dell'arto, con protesi. Novembre 1975-febbraio 1976: ricoverato per prostatectomia. Marzo-ottobre 1976: ricoverato per insufficienza vascolare periferica in diabetico; -amputazione arto inferiore destro; -affezione in corrispondenza delle unghie della mano. Febbraio-marzo 1977: ricovero per amputazione di tutto l'arto destro; -grave vasculosclerosi del moncone destro; -collasso cardiaco-circolatorio per rottura dell'arteria femorale. Agosto 1977: incisione di un grosso ascesso, e in settembre grave stato tossico con ipertermia e perdita della coscienza. In novembre, asportazione di una grossa piastra necrotica-purulenta: frequenti polmoniti. Il 19, crisi di grave ipertensione con edema polmonare. Il Padre delle misericordie lo chiama a sé il 20 novembre alle 4 del mattino per crisi e collasso cardiocircolatorio.
Fr. Duilio Plazzotta attesta: «Ho seguito Fr. Enrico da quando è venuto a Verona. Gli ho vissuto accanto in tutti i momenti dolorosi di questi 4 anni. Quello che ho apprezzato di più in lui è il suo modo di accettare la sofferenza in ogni momento, con tutti i lati dolorosi, come l'inattività, l'impotenza fisica, la immobilità, ecc. Non ha mai chiesto conto al Signore della sua sofferenza, mai chiesto il perché. Accettava tutto quello che di nuovo c'era nel suo dolore. Molte volte mi domandavo come facesse a non scoraggiarsi. Edificava tutti, e nonostante le sue condizioni sapeva infondere coraggio agli altri con qualche battuta scherzosa, spesso sulle sue magagne. Credo che lo sentirò sempre presente nella mia vita, perché l'averlo incontrato ha certamente cambiato un po' di me». Il suo pietoso lamento era: «No, mamma mia!» e «Maria Santissima! », invocazioni che esprimevano tutta la sua devozione per la Madonna.
C'era un'altra sofferenza. «Ho sofferto molto fisicamente, ma più ancora spiritualmente. Non sono diventato sacerdote. Non ho mai detto una Messa. Non ho mai liberato un'anima dal peccato!». La sua commozione mi colpiva tanto da non trovare parole di conforto. «La tua Messa dura da quattro anni - gli dicevo -, qui sull'altare del tuo letto. Il pane è il tuo corpo martoriato e il vino il tuo sangue che continuamente spargi». Come Cristo nell'Orto degli Olivi, così anche Fr. Vanzo sentiva tutto il peso del sacrificio. Fissandomi prima in volto e poi guardando al suo corpo martoriato ridotto ad un troncone di essere umano, esclamò: «Ma io sono verme, non uomo!». Non ebbi il coraggio di contraddirlo. E continuò: «Signore, se è possibile, passi da me questo calice». P. Tomasin, tanto da lui desiderato per la recita quotidiana del Rosario, ebbe la grazia di accompagnarlo alla soglia del Cielo con l'Unzione degli Infermi.
Coscientemente, generosamente Fr. Vanzo ha saputo bere fino alla feccia il calice così amaro per la salvezza dell'Africa e per la sua perfezione e santificazione. Il desiderio di divenire sacerdote lo consumò. La sofferenza, una vera Messa cruenta, lo purificò. La sua immolazione finale divenne redenzione per molti.
P. ZelindoA. Marigo, FSCJ Verona, 30 gennaio 1978.
Da Bollettino n. 120, aprile 1978, pp. 77-80