In Pace Christi

Pimazzoni Francesco

Pimazzoni Francesco
Data di nascita : 06/07/1856
Luogo di nascita : Verona/I
Data ordinazione : 23/12/1882
Data decesso : 06/10/1883
Luogo decesso : Khartoum/SD

Don Francesco Pimazzoni, nato a Verona il 6 luglio 1856, entrato come studente il 30 agosto 1879, partì pel Cairo il 4 novembre 1879, dove arrivò il 14. Ripartì il 28 dicembre 1880 per Khartum, arrivandovi il 28 gennaio 1881. Nel marzo 1882 discese al Cairo per malattia, e in novembre 1882 ritornò a Verona. Fu ordinato suddiacono il 21 dicembre, diacono il 22 e sacerdote il 23 dicembre 1882, e in gennaio 1883 ritornò al Cairo col Sogaro, e con lui andò a Khartum, dove morì il 6 ottobre 1883 (SPV, 62; SPC, pp. 11-12).

Tutti questi dati sono confermati da Grancelli nell'elogio funebre tenuto a Verona il 23 novembre 1883 nell'oratorio dei padri Filippini, dove aggiunge che rimase orfano di padre a 5 anni, e di madre ad 8, e fu educato da una zia. Mentre frequentava la I classe tecnica un giorno tornò a casa e disse alla zia: "Non vado più a scuola perché ho sentito bestemmiare" (B/222/15). Nelle "Memorie" del Comboni ne tesse un breve profilo, considerandolo come "uno dei più cari amici della mia giovinezza": erano coetanei (p. 420-421). Non resta che raccogliere quanto di lui scrisse Comboni a varie riprese.

Siccome non aveva fatto studi regolari, Comboni scriveva da Verona a Giulianelli in Cairo, il 10 luglio 1880: "Francesco poi deve studiare molto il latino".

Portatolo con sé a Khartum, il 12 febbraio 1881 scriveva a Sembianti: "Il missionario più virtuoso e santo è Francesco Pimazzoni, e cui darò domenica la chierica ed i quattro ordini minori. Studia in latino il Catechismo Romano" (A/16/5/26). E il 19 a suo padre: "Domani do gli ordini minori a Francesco Pimazzoni di Verona, che certo diverrà il più perfetto e santo missionario dell'Africa Centrale. E' quegli che scrive a voi, per conto del mio servo Domenico, l'inclusa lettera" (A/14/128).

Il 2 ottobre 1881 scriveva a Sembianti: "D. Francesco Pimazzoni (che ha offerto a Dio la sua vita perché metta fine il Signore alle perdite di vite di missionari e di suore in Vicariato) è ricaduto" (A/16/5/8). E il giorno dopo allo stesso: "D. Francesco, impressionato vivamente, è quasi agli estremi e chiese i sacramenti" (A/16/5/9). Il 4 ottobre 1881 Comboni scriveva a Giulianelli in Cairo: "D. Francesco e d. Battista (Fraccaro) pure sono ammalati. D. Francesco cadde in debilitazione straordinaria.

Pregate per noi, che siamo felici e rassegnati a portare la croce, su cui morì il dolce Gesù" (A/16/6/49). E a Propaganda il 3 precedente: "All'ora in cui scrivo mi ha chiesto gli ultimi sacramenti d. Francesco Pimazzoni, che per pietà e santità vera e senza dubbio il primo soggetto della missione, a cui aggiungere un criterio e talento ammirabili. Avendo dovuto interrompere gli studi per aver dovuto andar soldato, santificò la caserma e mantenne nelle sua compagnia la fede, la religione, e indusse molti compagni a frequentare la chiesa e i sacramenti; abbastanza perito nell'arabo, cominciava già a produrre buoni frutti qui. Perciò abbiamo messo in croce S. Giuseppe, e lo supplichiamo ardentemente che non muoia.

Ah! Non deve morire. Perciò appena compiuto il funerale di Palo Descandi, ho fatto subito togliere il catafalco, perché il Pimazzoni per ora non vi deve andar sopra" (A/13/57/7).

 

Sette giorni dopo moriva lo stesso mons. Comboni. Pimazzoni, oltre un mese dopo, ne faceva a p. Sembianti e ai suoi "fratelli" di Verona una toccante rievocazione, in data novembre 1881. Eccone i tratti salienti: "Mi permetta che oggi, giacché il vento mi obbliga a starmene in stanza, mi occupi di dare ai miei cari fratelli qualche idea del come deva disporre il suo cuore colui che aspira a venire in Africa, deducendolo dagli atti e parole del nostro illustre fondatore mons. Comboni.

"O nigrizia o morte" era la più eloquente e spontanea espressione che, partorita nel fondo del cuore, sfuggiva dalle labbra, ed era predicata e confermata dalle sue nobili azioni. E dopo aver ricordato i disagi del recente viaggio nel Kordofan e i vari lutti che precedettero la sua morte, continua: "Con l'aiuto di straordinaria virtù, superava l'illustre prelato il dolore e l'affanno apportatogli per tali notizie, e senza punto smarrirsi né alterarsi, almeno esteriormente, si era fatto angelo consolatore di quanti scorgeva afflitti e mesti per le sventure che affliggevano la missione... Passato a miglior vita d. Fraccaro, lo si vide venir meno e sfuggirgli una lacrima. Ora mettetevi nella posizione dei missionari e delle povere suore: occupati dietro agli ammalati, alle faccende di casa, tutti mesti, senza parole, con gli occhi grossi di pianto e bisognosi di riposo, che avevano lasciato per più notti dovendo assistere gli ammalati... Ma tutto era superabile, e la mestizia sarebbe scomparsa, od almeno mitigata, se l'Eccellentissimo nostro padre avesse goduto di quella salute richiesta in tali circostanze. Ma sebbene le sue parole fossero state consolanti e spiranti uniformità e rassegnazione, non erano però marcate di quell'accento potente che era proprio di monsignore: la febbre sofferta e altri disturbi di salute, uniti alle disgrazie che precoci si susseguivano, avevano reso il nostro adorato vescovo siccome confuso, e lo avevano derubato di certe sue qualità speciali; perciò tutta la casa era in lutto, mestizia e dolore. Doloroso riusciva il suono delle campane, che si di frequente accennava la morte o le esequie dei nostri cari, dolorosa la vista dei ragazzi e ragazze della casa, sorpresi ed esterrefatti pei tristi eventi, doloroso il dover necessariamente ristorarsi e mangiare, doloroso infine quanto si vedeva, si parlava e perfino si pensava. Una sola cosa giovava, che anche in questa circostanza fu esperimentata potentissima, anzi unica, ed era ricorrere a Dio, il rimettersi a Lui colla confidenza di figli, il ripetere nel fondo del cuore quel dolce fiat che tutto dice, tutto abbraccia, tutto comprende; parola che sola valse a sorreggerci, allorché nell'amatissimo nostro padre, alle ore 10 antimeridiane del 10 ottobre si manifestarono segni di quasi improvviso, gagliardo e pericoloso malore, che in due ore, privatolo dei sensi, con forte delirio, cagionato dalla perniciosi che gli era salita al capo, non glieli restituì se non quando subentrò il convulso, che gli impediva di proferire parola. Era ammirabile il nostro buon e caro padre, e degno che si ricordino le sue ultime ore. Rassegnato e tutto abbandonato in Dio - trattava anche nel delirio con quella dolcezza e amabilità che lo rendeva caro perfino ai suoi nemici, e solo qualche momento in cui rinveniva, dato un amoroso e significante sguardo ai suoi figli e figlie che addolorati lo assistevano, qualche furtiva lacrima umidiva il suo ciglio, che palesava quanto gli costasse sacrificio l'abbandonarci, quanto ci amasse e quanto a cuore avesse l'opera del suo apostolato. Ma ritornato col suo pensiero in Dio, non faceva che ripetere infuocati sospiri d'amore al suo amato Signore, d'uniformità al suo divin beneplacito, di confidenza, di dolore. Verso le ore cinque del pomeriggio pareva in qualche modo mitigato il male, e rianimati tutti a dolce speranza ci recammo in chiesa per adorare il SS. Sacramento ivi esposto, ringraziare la divina bontà del miglioramento creduto, e supplicarlo di ridonare al nostro amatissimo padre e pastore vita e salute. Ma non ci ascolto il Signore... Il male sembrava calmato, ma verso le 8 la febbre torno più forte di prima e fu sorpreso da forte convulso... Non poteva pronunciare parola, e solo quell'infuocato "Gesù mio, misericordia", sforzandosi, rendeva intelligibile. Finalmente entrò in agonia, e i due padri assistenti non mancarono di somministrargli l'estrema unzione, che il venerato paziente accompagnava col cuore e coi segni della più viva fede. Fecero, come il dolore loro permetteva, la raccomandazione dell'anima, fino a che, con un dolce respiro, se ne volò dalla terra al cielo, rendendo la sua bell'anima al creatore. 0 gran vescovo, caro padre e fondatore... il tuo corpo fu mortale - ma immortale e d'ammirazione saranno le tuo opere... immortale vivrai nel cuore di molti che beneficasti, indelebilmente sta scritto nel cuore e nella mente dei tuoi figli che orfani e derelitti lasciasti in Verona e sul glorioso campo dei tuoi sudori in Africa. Sì immortale vivrai nel cuore di noi tutti che ti conobbimo, non solo, ma teco trattammo e conversammo vivo, e che morto la venerata salma ripetutamente baciammo pregando e supplicando il clemente Iddio ad accelerarti l'ingresso nella celeste Sionne dove, nel coro degli apostoli, speriamo ancor noi venir prestamente a vederti coronato di gloria. immortale. Deh buon padre, che vivo tanto ci amasti, ora che sei più potente perché presso Dio, non ti dimenticar di noi... e ricorda al dolce Redentore l'opera tua, la tua Africa. Prega, anzi, domanda che l'opera tua abbia incremento e si propaghi veloce. Fa che i tuoi missionari e suore abbiano da sentir nel cuore la potente tua voce, e da questa rinvigoriti si adoperino indefessi a compiere la loro vocazione.

"Appena fu annunciata la morte di monsignore, le grida e le urla dei ragazzi e ragazze della casa ne propagarono la dolorosa notizia. Fu un momento: veder la corte riempita di gente d'ogni razza, che veniva a piangere e gridare... Dalle 10 di sera fino alle 11 del giorno appresso era un gridare e piangere senza interruzione; non si poteva reggersi dall'affanno e dall'assordimento... Volendo dir tutto, non si finirebbe più... Sappiate da quanto sopra persuadervi che chi vuole venire in Africa per fare il missionario deve essere disposto a soffrire e lavorare continuamente, non aspettandosi consolazioni e conforti dagli uomini, ma bensì da Dio. Non v'ha bisogno vi faccia minurtamente osservare e riflettere di qual genere di consolazioni fossero per noi ripieni quei giorni, e come nell'amarezza e nel pianto volgessero le ore comprese dal tramonto all'aurora e da questa il successivo calar del sole.

Ogni cosa ci ricordava le perdite fatte, ci dipingeva la nostra miserabile condizione e per poco, confesso il vero, estenuati od ammalati nel corpo e addolorati nel cuore, vagammo erranti nella perplessità e nel dolore, ma finalmente quella paterna e misericordiosa destra che affanna e consola ci dié forza e fede di pronunciare di cuore quel dolce ed unico fiat, e rassegnandoci ed abbandonandoci interamente alla provvidenza, si pose argine a quel dolore che diversamente avrebbe tradotto qualche altro al sepolcro.

"Esempi eroici, cari fratelli, diedero in quei giorni i padri e i laici di casa, e non meno eroine e da encomiarsi furono e sono le amorose nostre consorelle: lavoro, preghiera, assistenza agli ammalati, erano le continue e pressanti occupazioni in quei giorni eterni. Io che come ammalato non poteva adoperarmi, vidi tutto, ne fui più volte commosso fino alle lacrime, e mi è altremodo gradito poter testimoniare della loro virtù davanti a voi specialmente, perché apprendiate ad apprezzare e conoscere il nobile compito cui vi sentite vocati di eseguire. Preghiamo per ultimo tutti assieme per l'incremento dell'opera redentrice - preghiamo pei nostri superiori, non dimenticando la bell'anima del defunto fondatore - preghiamo vicendevolmente, ricordandoci che siamo tutti fratelli, figli del medesimo padre, tutti intesi ad uno scopo, scopo nobile, scopo santo, perché chiamati ad estendere il regno della verità e della giustizia..."

Si conservano le lettere che Pimazzoni scrisse, oltre un centinaio, specialmente a Sembianti (53) e Giulianelli (34), quando da Khartum arrivò malato in Cairo e vi si fermò nel 1882. Ecco come comunica la sua guarigione a p. Sembianti il 17 aprile 1882: "Erano già 9 giorni che non andavo dal medico inglese, dr. Grant. Si meravigliò sentendo che mangiavo di tutto con appetito e dormivo bene tutta la notte... e volle visitarmi nuovamente. Finito che ebbe, battendomi sulle spalle, sorridendo disse: Tutto è finito. Sospenda le medicine, mangi per rinforzarsi che non c'è più pericolo di niente... Quando potrò votare la mia misera vita per la salute dei poveri neri? Quando potrò rientrare nel vicariato?" (A/27/45/2) .

Il 1 giugno 1882 scrive al Canossa, chiedendo le dimissorie per poter venire ordinato in Cairo (A/27/41). Invece poco dopo successe il primo moto nazionalista in Egitto per opera di Urabi pascià, e tutti i membri della missione dovettero abbandonare in fretta e furia il Cairo per rifugiarsi a Verona. Pimazzoni, rimase solo custodia della missione. Ma non perse il buon umore. Ecco come informa della situazione p. Sembianti il 14 luglio 1882: "Chissà quante meraviglie al comparir di questo mio scritto. Oh! dirà, è ancora vivo? Sentiamo che cabale ci racconta, adesso che è solo può dirne delle grosse. Sentiamo... Davvero che le cose sono serie - non c'è via di mezzo: o vivere, o morire! Che gliene pare eh? Io che, grazie a Dio, sono indifferentissimo per le due, me la passo contento e pacifico più che mai. La settimana ventura, se le condizioni del paese me lo permetteranno, farò bucato. Cosa vuole; ci sono tante lenzuola, foderette, asciugamani ecc. della casa, oltre alla roba individuale, sucide, che mi fa pena lasciarla così, epperciò, ialla! - bucato. Se poi l'altra settimana le cose saranno al grado d'oggi, allora mi occuperò a stiracchiare - perché di stirare non son buono - il bucato fatto. Eh dirà, voi andate a pensare cosa farete da qui a due settimane, e noi sappiamo dai giornali che le faccende volgono precoci e pericolose da non lasciarci sicuro l'indomani. Che vuole che le dica, ha ragione anche Lei. Ma se vedesse il salotto che mi sono preparato per rifugiarmi in caso di bisogno, non farebbe nemmeno Lei conti diversi da quelli che fo io. Niente meno che ieri ho lavorato da quando ho incominciato fino a che aveva finito, per rompere il volto della galleria reale, che comunica tra le due case. Domenicone (Polinari) e gli altri Cairoti, e fors'anche Cairote, lo conosceranno; ma forse quest'ultime no, perché non son degne di passeggiare in essa e nemmeno di vederla. Fatto è che per quanta terra ci abbia gettato quando sono disceso, se non m'attaccavo, mi sprofondavo - è un pavimento un po' tenero, ha bisogno d'esser asciugato. Ci ho però posto riparo, distendendovi mattoni un po' grossi - le finestre non sono tanto larghe, ma sufficienti per vedervi con un occhio per volta.

La sua altezza è mediocre , ma per me un po' bassa - meglio, dissi, così starò seduto. A motivo delle finestre, il sole non disturba e si può passeggiare senza ombrellino, senza pericolo di prendere un colpo di sole. Insomma, è qualche cosa di raro; vederlo per credere. Se avrò poi la sorte di abitarlo, gliene darò più minuti ragguagli. Per porta d'ingresso vi è un terzo di botte, contenente carbone; volendo discendere, fa bisogno ritirare questa, discendere, e quindi tirarla a posto. Vede dunque che c'è motivo di star allegri - allegri dunque nel Signore. Oh che io davvero non temo di niente, ma sono dispostissimo , se a Dio piace, di irmene a veder la nostra tanto buona mamma la Madonna SS. e il nostro caro monsignore, come di restare per poter ritornare in Sudan. Adesso, anche volendo, non potrei andarci - la linea di Suez non - agisce - ma se resto, -ah corpo de mi solo, non voglio, aspettar altro a ritornar in vicariato, altrimenti capiterà un'altra storia e così via via non ci andrò più. In questo frattempo io non potrò né scrivere né ricevere lettere... (A/27/46/8).

Piu spassosa ancora quelle del 4 agosto 1882 allo stesso:"Sappia sig. Rettore, che qui tutta la comunità gode florida salute e si sono consolati coll'ultima lettera; di tutto questo posso farne fede io che sono interprete del pensiero di tutti, concentrandosi in me. Che solitudine, che quiete in casa... ma che confusione ed agitazione in città. Da dopo che gli Inglesi hanno preso Suez e paesi circostanti, gli arabi sono caduti in grave timore... se la pigliano col portone come fosse un uomo, anzi un loro nemico, e quando passano lo bastonano e se non hanno bastoni, buttano pietre e bizzeffe: sono matti si o no? Io credo che sarebbero degnissimi alunni del collegio di S. Servolo. Io ho da fare a frenare il servo copto, che se la piglia con tanto fuoco che, se lo lasciassi, sarebbe in baruffa tutto il giorno - altro furbo - piglia le difese del portone: che macaco davvero... Io lascio che si divertano, e quando sono stanchi, credo che se ne vanno da sé." (A/27/46/13).

Non meno spassosa la seguente del 15 agosto 1882: "Come vanno le faccende in Cairo? Quando crede Lei che saranno per terminare? Come, dirà, domanda a me come vanno le faccende in Cairo, lui che c'è dentro, o questa è garbata! Eppure è cosi. Io La prego, se può, darmi qualche schiarimento per norma, perché sono affatto all'oscuro di ogni cosa. Qui non si stampa che un meschinissimo giornale arabo ch'è il cabalista per eccellenza - non ci sono due parole veritiere - tutte le notizie sono adulterate e talvolta cambiate; esso mette sempre vittoria agli arabi, la mise perfino quando perdettero Suez. Secondo me credo la metterà fino a che gli inglesi gli entreranno in bottega, perche facendo diversamente non ne venderebbe tanti; e quel che è più, corre pericolo che se mette sconfitta agli arabi, gli entusiasti sconfiggano lui. Le facce smunte però e dimagrite di tanti meschini, anche arabi, fanno credere che non può durare a lungo così... Io mi lusingo che vorrà terminar fra breve - e Lei che lo può rilevare dai giornali me lo potrebbe significare. Ad ogni modo, per quelli che ci sono in Cairo non si prenda pensiero Lei - penserò io per tutti - basta che li raccomandi tutti ed assai al Signore e alla Madonna." E dopo aver accennato alla non ancora avvenuta nomina del nuovo vicario apostolico conclude: "Corpo di Bacco: S.P.Q.R. Mons. Comboni, di sempre felicissima memoria, traduceva queste iniziali: Sono Poltroni Questi Romani... E mi pare non avesse tutto il torto di dirlo, come faceva, anche davanti a cardinali e vescovi in Propaganda stessa..." (A/27/46/14).

E finalmente, il 23 settembre 1882, sempre dal Cairo al Sembianti: "Eheee! Quanta roba! Guarda guarda! Prima niente e adesso 14 lettere in un colpo: poverette, hanno fatto la quarantina a Porto Said. Sì, mio sig. rettore, la posta di stamattina mi portò le sue del 29 luglio, e 12, 19 e 26 agosto, oltre a molte altre di d. Giulianelli, famiglia, amici, ecc". E dopo aver accennato che spera di venire ordinato da mons. Sogaro, appena nominato, aggiunge: "Io sono agitato perché so che d. Giovanni (Dichtl) è solo in Khartum... nell'esercizio del santo ministero. In questa stagione c'è da alzarsi quasi ogni notte, perché quelle febbri non scherzano... Io davvero le dico col cuore in mano che se fossi ordinato non mi tratterrebbero nemmeno le catene, ma volerei a Khartum" (A/27/46/18).

Di ben altro tono è la seguente, sempre a Sembianti, del 17 novembre 1882, dopo l'arrivo al Cairo di fr. Felici: "Se sapesse quante miserie mi ha raccontate! Mi sembrava di sentire il panegirico di d. Arturo - col più che questo ha le mani forate e non cura gli interessi della missione. D. Dichtl ne ha sofferte di serie - me lo scrisse - e Battista (Felici) lo ha confermato. Le povere suore sono sempre sotto, o per Tizio o per Caio, devono sentirsi apostrofare coi termini più triviali e sconci, e veder criticare tutte le loro operazioni... Pare impossibile, eppur è vero: io ammiro d. Giovanni che si conserva calmo anche di fronte alle più critiche circostanze... Quando uno è stanco di tare in un luogo, ci fanno fastidio non solo i vivi ma anche i morti; e questi, di non andar d'accordo con nessuno, sono i sintomi più veridici di prossima partenza. Si fece intendere molte volte, ma io credo sarebbe meglio la affrattasse piuttosto che danneggiare la missione nella riputazione e nella finanze e di impedire che altri facciano quel bene che possono fare" (A/27/47/7). Si è voluto citare di proposito questo brano, perché qualche mese dopo Pimazzoni, ritornerà a Khartum sacerdote, dovrà subirsi la compagnia di don Leone Hanriot fino alla morte. Ne è conferma questa lettera di mons. Sogaro a Sembianti dal Cairo, 17 settembre 1883: "Pimazzoni ha bisogno di essere consigliato alla pace, alla tranquillità; in fondo in fondo le cose andavano bene... le suore sono contente, godono la pace e l'armonia fra di loro; cosa importa se anche qualche volta l'altro diceva loro con mal garbo ed anche senza creanza una parola! Ne avevano sofferte tante a Berber... Veramente fui io il primo ad esaltarlo un pò troppo... lo conosco, lo confessai e ne porto con pazienza le conseguenze; ma adesso, ogni volta che gli scrivo, gli faccio osservare,in bella maniera, certo fare arrogante che comincia a fare capolino nei suoi scritti, che veramente mi fa pena" (A/39/33/38).

Ecco quanto scriveva Pimazzoni a Rolleri, allora in Cairo, il 17 settembre 1883 da Khartum: "Il kharìf non fu affatto difficile, almeno fino ad ora, qui in casa si godette l'ordinaria salute come negli altri mesi dell'anno. Al di fuori parimenti febbri non ce ne sono che poche e anche quelle leggere." E dopo averlo informato che presto sarebbe partito pel Cairo Lorenzo Dal Lago, perché malandato in salute, continua: "Dico queste cose a lei... ma la prego farne l'uso il più limitato, per evitare dissapori. Avrà gi  inteso l'avvenuto per quella correzione fatta da monsignore a d. Leone; si regoli, perché non ne nascan di nuove. Anche d. Leone da tanto tempo spasima di partire... Io sono dispiacentissimo perché monsignore soffre dice per causa mia. Io la scongiuro di volerlo persuadere che io sono l'identico individuo di quando mi aveva a suo fianco, od almeno ad esortarlo a non disturbarsi tanto da star male. Il tempo schiarirà il tutto: preghiamo."

In un poscritto aggiunge: "Oggi viene il medico a tagliarmi dove ebbi la postema, perché son più di due mesi che continua a purgare: eccetto questa piccolezza sto bene, spero che le scriverà anche d. Leone, che so aver scritto differentemente: sembra mi voglia ammalato per forza!" (A/27/45/6).

L'ultima lettera Pimazzoni la scrisse a mons. Sogaro da Khartum il 29 settembre 1883, cioè 7 giorni prima di morire il 6 ottobre:

"Ritornai ier mattina da Geref, essendo venuto a darmi il cambio d. Leone; ora si trovano colà la madre, sr. Fortunata, Lorenzo, Santoni ed il padre. Di salute ,forse, meglio di tutti, checché ne dicano altri che sembrano congiurati ad addolorarsi anche da questo lato Povero il mio Papà! Quante sofferenze e fisiche e morali che l'hanno aggredito in sì breve lasso di tempo... Io poi non so concepire (sfido io) come il Signore abbia permesso che ancor io che tanto l'amo e che tanto desidero vederlo tranquillo e contento, avessi, appunto con i mezzi che intendeva consolarlo, ad aumentar di non poco le sue pene. Basta, il Signore sa il perché e basta. Quello ch'è certo è che se ha sofferto assai V. Ecc. ho sofferto moltissimo anch'io, tanto per veder Lei così disturbata, quanto per veder la superiora cader di frequente ammalata, vittima non altro che dei dispiaceri a cui era sottoposta. Non vi fu una sola volta che non cadesse ammalata dopo le amorevoli correzioni di d. Leone. Anche quest'ultima volta, che si credeva (giusta il medico) che morisse, essa cadde ammalata in seguito a rimproveri fatti da d. Leone su cose antiche già note a V.Ecc.za. Questi era molto impensierito quando la vide tanto aggravata, e ritengo avrà fatto qualche buon proponimento: ma basta, basta, basta"...(A/43/64).

Il giorno stesso della morte, 6 ottobre 1883, Lorenzo Dal Lago scrisse spasmodicamente la notizia a mons. Sogaro: "Il telegrafo le avrà già arrecata la nuova della morte del nostro buon padre Francesco. Io sono come insensato! Perdoni perciò se le mie parole non saranno del tutto chiare ma confuse... Le darò qualche particolare. D. Leone non lo può assolutamente! E' troppo colpito!... Io stava abbastanza male, per una dissenteria ostinata di quasi due mesi. Da Geref la domenica venivo a Khartum a prendere la posta. Rimasi fin dopo la benedizione. D. Francesco diceva deridendomi: Che soldato che non può stare in piedi. Io sto meglio di tutti e di tutte... Da tempo il p. superiore gli aveva proibito di più predicare; non faceva scuola... Il. mercoledì dopo pranzo ritornai a Khartum ed egli sorridendo mi disse: La signorina (la febbre) mi è venuta molto forte da questa mattina... anche adesso l'ho assai forte; ho mandato a chiamare il dottore, ma non è ancor venuto. Il dottore venne e gli prescrisse dei rimedi, assicurando che il giorno dopo, S. Francesco, sarebbe stato bene. La mattina volle dir messa, ma giunto all'epistola, sentendosi tropo debole, dovette far ritorno in sagrestia." Siccome il giorno dopo ritornò la febbre, corsi a Geref per chiamare d. Leone, che benché avesse avuto la febbre anche lui, partì la mattina dopo dando disposizioni perché lo raggiungessimo tutti a Khartum, il giorno seguente. A mezza strada ci venne incontro il custode, dicendoci che p. Francesco stava male. A briglia sciolta corsi a casa. Trovai tutti nel corridoio, mutoli e stupiditi. Io gridai: Come sta d. Francesco? E' morto! Restai di sasso. Rinvenuto dal mio abbattimento, pensai a quello che si doveva fare. Mi portai al telegrafo e avrà già ricevuto il telegramma."

"Le sera fino alle sette passeggiò con d. Leone in corridoio. Poi la febbre lo prese; andò in stanza, vomito, presenti il padre, le suore e i fratelli, e ridendo diceva: Sono qui alla commedia senza pagare! Poi verso le 10, vedutolo calmo, tutti, meno Domenichino, si allontanarono... Verso l'una cominciò a star male. Questa è la terza febbre, disse; ho paura. Domenico Donizzoni chiamò d. Leone, che lo confesso... Poi cominciò a vaneggiare, strinse i denti, quindi entrò in agonia. Il superiore gli amministrò l'estrema unzione, non potendolo viaticare. Verso le quattro e mezza spirò. Di che morì? Forse di tifo o di febbre perniciosa? R.I.P. Povera missione!" (A/26/23).

Da parte sua d. Hanriot scriveva a Sembianti il 9 ottobre 1882: "Ho pregato Hansal di avvertire i consoli e gli europei, ed io ho mandato il maestro d'arabo con una circolare per avvertire tutti i siriani e copti e alle 4.30 una quantità di siriani, copti e greci, avvertiti dal console e gli europei, con tutti i mori della corte e della casa, abbiamo portato il corpo alla sua ultima dimora. Requiescat in pace!" (A/27/6/28).

Don Giovanni Dichtl scriveva da Verona al Rolleri in Cairo in data 25 ottobre 1883: "Abbiamo fatto questa mane l'ufficio pel defunto nostro confratello, mio dilettissimo d. Pimazzoni. Non avrei mai creduto d'alzarmi dal tifo in Khartum per andar in Europa a far l'ufficio per lui! " (A/26/26/2) .

I due beniamini del Comboni, testimoni della sua morte, morirono entrambi giovanissimi: Pimazzoni a 27, Dichtl a 32 anni, fedeli al giuramento a lui prestato sul letto di morte. Grancelli, commemorando questa morte, esortava a non dimenticare le ultime parole da lui rivolte alle sorelle, agli amici: "Quando udrete dire: Francesco è morto, non piangete no, ma recitate il Te Deum, perché il Signore avrà esaudito i miei voti... il sogno, il sospiro, il voto di Francesco ebbero compimento: sospirava di morire in mezzo ai Negri, e vi è morto; pregava che le sue ossa riposassero sotto la polvere del Sudan, e vi riposano" (B.222/15).

Da  Bano Leonzio, Missionari del Comboni 4, p. 85-96

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il custode fedele della missione

Nato a Verona nel 1856, Francesco Pimazzoni rimase orfano di padre a 5 anni e di madre a 8 per cui fu educato da una zia. Mentre frequentava la scuola tecnica ha sentito un uomo che bestemmiava. Tornato a casa ha detto alla zia: “Non vado più in quella scuola perché là si bestemmia il nome di Dio”.

Trovò lavoro in una fabbrica di carrozze e, nei momenti liberi, frequentava l’oratorio dei Filippini dove ricevette un’ottima formazione. Andato soldato a Gaeta e a Messina dal 1877 al 1879 “santificò la caserma e mantenne nella sua compagnia la fede, la religione e indusse molti compagni a frequentare la chiesa e i sacramenti” (dal necrologio di mons. Grancelli). Il 30 agosto 1879 entrò nell’Istituto di Comboni a Verona.

Descrive la morte di Comboni

Comboni lo inviò al Cairo nel novembre del 1879 dove rimase per un anno come studente. “Francesco deve studiare molto il latino” scrive Comboni dal Cairo. Lo stesso Comboni lo porta con sé a Khartoum, via Mar Rosso. È il 12 febbraio 1881. “Il missionario più virtuoso e più santo è Francesco Pimazzoni a cui darò domenica la chierica e gli ordini minori. Sono certo che diverrà il più perfetto e santo missionario dell’Africa centrale” (Comboni).

Intanto Francesco continua gli studi per accedere agli ordini minori. A Khartoum si susseguono le morti di missionari stroncati dalla malaria e dal tifo. Il 2 ottobre 1881 Comboni scrive (mancano 8 giorni alla sua morte): “Don Francesco ha offerto la sua vita a Dio perché il Signore metta fine alle morti dei missionari e delle suore”. Il giorno dopo Francesco è morente e chiede gli ultimi sacramenti. Comboni si ribella e scrive: “Pimazzoni non deve morire, perciò abbiamo messo in croce San Giuseppe. Appena celebrato il funerale di Paolo Descandi, ho fatto subito togliere il catafalco, perché Pimazzoni per ora non vi deve andare sopra”.

Sette giorni dopo, il 10 ottobre 1881, muore lo stesso Comboni e Pimazzoni lo piange come un padre e poi ne fa una toccante rievocazione. Il suo scritto comincia con queste parole: “Scrivo qualche idea del come deve disporre il suo cuore colui che aspira a venire in Africa, deducendolo dagli atti e dalle parole del nostri illustre Fondatore”.

Attraverso la penna di questo chierico, Comboni diventa maestro di vita e di missione per chi vuole mettersi sulle strade dell’Africa.

Morte e vita

La morte di Comboni coincide con la guarigione quasi improvvisa di Pimazzoni. Il 1° giugno 1882, mentre si trova al Cairo, chiede al Canossa le dimissorie per essere ordinato sacerdote. Infatti brucia dal desiderio di andare a Khartoum come missionario di prima linea. Invece, poco dopo succede il primo moto nazionalista in Egitto per opera di Urabi Pascià e tutti i membri della missione devono fuggire a Verona, eccetto Pimazzoni che rimane solo a custodire la missione. “Davvero che le cose sono serie – scrive a Verona. – O vivere o morire, Io che, grazie a Dio, sono indifferentissimo per le due, me la passo contento e pacifico più che mai”. Poi, tirando fuori il fine umorismo di cui era dotato, aggiunge: “Posso assicurare che qui tutta la comunità sta bene ed, essendo solo, interpreto certamente il pensiero di tutti”.

Constatando che l’elezione del successore di Comboni tardava, si lamenta in questo modo con il superiore di Verona: “Corpo di Bacco: S. P. Q. R. Mons. Comboni, di sempre felicissima memoria, traduceva queste iniziali in questo modo: Sono Poltroni Questi Romani… E mi pare non avesse tutto il torto di dirlo, come faceva anche davanti ai cardinali e ai vescovi in Propaganda stessa”.

Segretario di mons. Sogaro

Intanto fu scelto mons. Sogaro come primo successore di Comboni. Questi chiamò a Verona Francesco Pimazzoni e, il 23 dicembre 1882, lo ordinò sacerdote. Aveva 26 anni. Celebrò la prima Messa nell’oratorio dei Filippini. In gennaio don Pimazzoni tornò al Cairo insieme a mons. Sogaro e con lui andò a Khartoum. Monsignore, infatti lo fece suo segretario. Durante il viaggio via Mar Rosso studiò l’acquisto di una casa per i missionari a Suakin.

Giunto finalmente a Khartoum si è interessato della crescente insicurezza creata dalla Mahdia. Le orde del Mahdi, infatti, portando con sé i missionari e le suore che avevano fatti prigionieri nelle missioni di Delen (Monti Nuba) e di El Obeid, avanzavano verso Khartoum.

Il 13 maggio 1883, vedendo che le cose si mettevano male, mons. Sogaro lasciò Khartoum portando con sé tutti i missionari e le suore insieme a tanti cristiani e riparò al Cairo in Egitto.

L’ora del Te Deum

Don Francesco Pimazzoni insieme ai confratelli don Giovanni Dichtl, don Leone Hanriot e i laici Lorenzo Dal Lago e Domenico Donizzoni volevano rimanere a custodia della mission di Khartoum. Ed ecco che il 6 ottobre 1883 don Francesco fu preso da una fortissima febbre. Fu chiamato anche il medico, ma ormai non c’era più niente da fare. Eppure aveva celebrato Messa anche quella mattina. Don Leone lo confessò e il superiore gli amministrò l’olio degli infermi e poi l’ammalato spirò. Aveva 27 anni. Prima di morire, Comboni aveva chiesto ai suoi missionari di essere fedeli alla loro vocazione fino alla morte: “Giura che sarai fedele alla tua vocazione missionaria”. Pimazzoni mantenne il giuramento.

Poco prima di spirare aveva scritto alle sorelle e agli amici: “Quando udrete dire: Francesco è morto, non piangete, no, ma recitate il Te Deum, perché il Signore avrà esaudito i miei voti…”. Il sogno, il sospiro il voto di Francesco ebbero compimento. Sospirava di morire in mezzo ai Neri, e vi è morto; pregava che le sue ossa riposassero sotto la polvere del Sudan, e vi riposano.

Dopo la morte di don Francesco, anche gli altri missionari abbandonarono in fretta la missione perché il Mahdi con il suo esercito incalzava. Infatti Khartoum cadde il 26 gennaio 1885 dopo un lungo assedio e il generale Gordon, che difendeva la città, venne ucciso con buona parte degli abitanti.

P. Lorenzo Gaiga