Giovedì 7 ottobre 2021
“Ultimamente ha chiamato la mia attenzione il quadro di Comboni che abbraccia il Crocifisso Risorto tenendo stretta tra le sue braccia l’Africa. Guardandolo con calma e ripetutamente mi ha fatto venire alla mente varie riflessioni che ho fatto sull’argomento negli anni passati. Ho cercato di metterle in ordine sotto il titolo ‘Dalla fusione dello sguardo all’incontro di cuori’, nell’intento di fare un commentare al quadro”. (Padre Carmelo Casile) [
Vedi allegato]

Dalla fusione dello sguardo
all’unione dei cuori

Il cuore di Comboni nel Cuore del Crocifisso Risorto si fa vita donata alla causa missionaria

Se ci fermiamo a considerare il cammino spirituale di san Daniele Comboni, non è difficile renderci conto che possiamo applicare a lui l’espressione dei Padri della Chiesa: “Cor Pauli cor Christi, Cor Christi cor Pauli”, e quindi affermare anche di lui: «Cuore di Comboni Cuore di Cristo, cuore di Cristo cuore di Comboni» e possiamo concludere aggiungendo: “Cuore di Paolo Cuore di Comboni”.

Questo cammino possiamo vederlo illustrato nel dipinto che si trova nella Casa Comboni a Bangui ed è opera di Cecilia Maracci, Suora alcantarina.

Dipinto di Sr. Cecilia Maracci, Casa Comboni a Bangui (RCA)

Il Comboni che intravedo in questa pittura è “il cattolico” che vede e ama gli Africani con gli occhi ed il Cuore del Crocifisso Risorto. La via che conduce Comboni a questa fusione dello sguardo e unione del cuore con gli occhi e il Cuore del Crocifisso Risorto è la Via della Croce, una via in salita che diviene una via rosso sangue, cioè martiriale, fino a poter dire: “Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal 2,20).

La pittura nel suo insieme fa venire alla mente e al cuore il cammino che si incarnò nella “nobilissima” e straordinaria avventura missionaria di san Daniele Comboni, che si dichiarava “Missionario Apostolico … Servo dei negri nella povera Africa Centrale” (S 309 e 437).

1. La Croce, via che conduce Comboni a farsi tutt’uno con il Crocifisso Risorto

La Via o Scienza della Croce è una strada “in salita”, una via martiriale, che conduce il cristiano a divenire una sola cosa con il Crocifisso Risorto e quindi a vedere e ad amare con gli occhi ed il Cuore di Colui che è morto e risorto per la salvezza dell’umanità. È la Via che conduce Comboni a farsi come Gesù vita donata alla causa missionaria, così che può confidare senza esitazione al Presidente della Società di Colonia (novembre 1864): «Deve sapere che l’Africa e i poveri Neri si sono impadroniti del mio cuore, che vive soltanto per loro» (S 941).

Nella Relazione al card. Alessandro Barnabò (aprile del 1870) sottolinea che la sua consacrazione a servizio dei “cento milioni d’anime che popolano le immense regioni dell’Africa centrale”, è per tutta la vita, fino all’ultimo respiro: «Io non ho che la vita per consacrare alla salute di quell’anime: ne vorrei aver mille per consumarle a tale scopo… fino all’ultimo respiro…» (S 2271).

A quattro Sacerdoti Filippini di Verona da Khartoum (settembre 1878) descrive la sua vita come una vita interamente consacrata fino alla morte nella gioia di essere stato fatto partecipe della Passione di Gesù: «… sono lieto che per la redenzione degli infedeli sia stato fatto partecipe della Passione di Gesù Cristo, che è vita e resurrezione. Ripongo tutta la mia speranza nel Signore e nella santità della causa nobilissima, alla quale assieme ai miei zelanti collaboratori mi sono interamente consacrato fino alla morte, e che riguarda la gloria di Dio e la salvezza di tutta l’Africa centrale». (Antologia di testi / A servizio della missione,19).

In Comboni la Via della Croce diviene l’elemento unificante di tutta la vita e di tutta la sua opera; egli è uno di quei discepoli di Gesù che, seguendolo nella via della Croce, arriva ad accostare il suo volto al volto di Gesù Crocifisso in modo tale che l’accostamento del suo occhio con l’occhio di Gesù diventa fusione in un unico occhio. Così comincia ad essere unico lo sguardo con cui Gesù e Comboni vedono e a cui partecipano: lo sguardo di Dio Padre che si fissa sulle condizioni miserevoli in cui versano i popoli dell’Africa Centrale. Da questo sguardo unico nasce l’incontro del Cuore di Gesù con il cuore di Comboni che pulsano assieme per l’Africa da rigenerare e riportare all’abbraccio del comune Padre del Cielo.

La centralità della Croce nella vita e nell’opera missionaria di san Daniele Comboni e da lui stesso ampiamente testimoniata, nasce in lui dal continuo sguardo contemplativo su Gesù Crocifisso.

È da questo sguardo contemplativo che nasce nel suo cuore l’Inno alla Croce (1877), che suggella la sua nomina (1872) come Pro-vicario della difficile e scabrosa Missione dell’Africa Centrale, da lui assunta e vissuta come mistico sposalizio con quella “Croce che ha la forza di trasformare l’Africa Centrale in terra di benedizione e di salute”, e che è l’esplicitazione di una riflessione e di un’esperienza vissuta da lui lungo l’arco della vita.

Quest’Inno che risuonava continuamente nel suo spirito, Comboni lo mise per iscritto nella relazione della Missione alla Società di Colonia del 1877 (Cf. S 4972–75): Il Salvatore del mondo compì le sue meravigliose conquiste di anime con la forza di questa Croce, che divenne altare di tutto il mondo.

Fra dolori e spine è sorta e cresciuta l’opera della Redenzione, e per questo essa mostra uno sviluppo mirabile e un futuro consolante e felice.

La Croce ha la forza di trasformare l’Africa Centrale
in terra di benedizione e di salute.
Da essa scaturisce una virtù
che è dolce e non uccide,
che discende sulle anime
e le rinnova come una rugiada ristoratrice.

Già vedo e comprendo che la croce
mi è talmente amica, e mi è sempre vicina,
che l'ho eletta da qualche tempo
per mia Sposa indivisibile ed eterna
(S. 1710)

Da essa scaturisce una grande potenza, perché il Nazareno, sollevato sull’albero della Croce, tesa una mano all’Oriente e l’altra all’Occidente, raccolse i suoi eletti da tutto il mondo nel seno della Chiesa.

Egli inalberò la Croce, operatrice di meraviglie, che tutto attrasse a sé: “Quando sarò elevato, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32).

1.1 La Luce che viene dall’Alto: Epifania dell’Amore da cui siamo nati e rigenerati

Fissando la pittura, attira la mia attenzione il crescendo di Luce che viene dall’Alto, diradando l’oscurità con i suoi raggi, che illuminano e danno vita agli elementi che compongono il quadro. Mi vengono subito in mente le parole della Sapienza e del Prologo del Vangelo di Giovanni: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso” (18,14), Dio inviò il Verbo, “in lui era la Vita e la vita era la Luce degli uomini” (Gv 1,4), Egli era “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), e Dio vuole che tutti gli uomini siano illuminati da questa Luce, perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10).

Siamo davanti ad una Epifania dell’Amore da cui siamo nati e rigenerati, che qui si concretizza in una storia d’incontro di cuori: dal Cuore del Padre attraverso il Cuore di Gesù al cuore di Comboni e da questi al cuore degli Africani, bisognosi di essere riportati all’Amore da cui anch’essi sono nati.

L’asse intorno al quale si realizza questo incontro intreccio di cuori è la Croce gloriosa del Risorto, divenuta “Albero della vita”, della vita sovrabbondante, che esprime amore, servizio, dono totale di sé. Questo dinamismo è espresso dal colore della Croce che è rosso sangue, dal suo braccio verticale che diventa il cammino martiriale sul quale Comboni procede, attratto e sostenuto da Gesù stesso, fino ad arrivare all’altezza del braccio orizzontale della Croce così da appaiarsi a Gesù Crocifisso, facendo un tutto unico con Lui. La via della Croce, infatti, porta il discepolo di Gesù a morire a se stesso, ad immobilizzare i suoi dinamismi egoistici e lasciarsi condurre dallo Spirito là dove Gesù è arrivato: sulla Croce gloriosa, per lasciarsi amare da Lui non soltanto in modo passivo, cioè soddisfatto di essere amato e salvato da Lui, ma in modo anche attivo, amando con lui e come Lui…

L’incontro di Comboni con il Cuore di Gesù è ormai così intimo che tra i due c’è consonanza di sguardo e fusione dei cuori, i due fanno un cuor solo e un’anima sola. Comboni non è più “Daniele Comboni”, ma il “il cattolico” che vede ormai il mondo con gli occhi del Crocifisso-Risorto, mentre si abbraccia con il Crocifisso-Risorto portando e stringendo tra il suo cuore e il Cuore di Gesù l’Africa dei “caldi sospiri della sua giovinezza” e rigenerata all’Amore Fontale da quella “Virtù divina”, che lo spinse a “stringere tra le braccia quegli infelici suoi fratelli”. Comboni ormai vede e ama la Nigrizia con gli occhi e il Cuore del Crocifisso-Risorto, così che i tre fanno un tutt’uno.

La pittura ci fa ricordare un detto dei Padri della Chiesa, in cui affermavano: “Cor Pauli cor Christi, Cor Christi cor Pauli”, mettendo così a confronto due persone e due cuori, per dirci che il cuore di Cristo e quello di Paolo sono in sintonia, battono allo stesso ritmo, ardono della stessa passione, dello stesso amore; fanno un cuor solo. Ci dicono, per tanto, “se vuoi conoscere il Cuore di Cristo cerca di conoscere il cuore di Paolo”.

E noi sappiamo che il termine “cuore” comprende tutto il segreto della personalità, tutte le ricchezze della persona.

Certamente Paolo non è l’unica via per arrivare a Cristo, ma non c’è alcun dubbio che, per molti di coloro che si lasciano seriamente coinvolgere nella fiamma della Carità che scaturisce dal Cuore di Gesù, egli ha aperto, una volta per sempre, una via maestra. Lo avvertiamo in queste sue parole che contengono un invito a seguirlo sulla via della piena assimilazione a Cristo:

«Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei Cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,14-19).

Non è difficile renderci conto che questo invito di Paolo fu accolto e vissuto in pieno da san Daniele Comboni, così che anche noi possiamo dire: «Cuore di Comboni, Cuore di Cristo». Per rendercene conto, basta rileggere il testo introduttivo al “Piano per la rigenerazione dell’Africa”, osservando la pittura che abbiamo davanti agli occhi.

Essa, infatti, attraverso gli elementi che la compongono, ci offre una felice sintesi dell’esperienza carismatica che Comboni visse il 14 settembre 1864, mentre era in preghiera sulla tomba di San Pietro, da lui stesso condivisa nel redigere il “Piano per la rigenerazione dell’Africa (S 2741; 2742).

Comboni, infatti, aveva cominciato il suo pellegrinaggio missionario guardando la Nigrizia “da terra” e vedendola “ricoperta da un buio misterioso”. Scosso da questa situazione, cominciò a dedicarsi ad essa per amore di Dio. Ora, grazie al “Lume che gli piove dall’Alto”, comincia a vederla con un occhio nuovo, cioè comincia a vederla come Dio la vede e ad amarla come Dio la ama, cioè con l’amore di Dio incarnato nel Cuore di Gesù.

È la luce del primo giorno della Genesi, che ha illuminato l’universo e, illuminandolo, lo ha pian piano plasmato; è la Luce con cui Dio intesse la trama della sua opera salvifica nei confronti dell’essere umano: è il suo essere Luce, Sole che produce linfa vitale, aprendo all’essere umano il futuro, un tempo da vivere in cui gli è lasciato tutto lo spazio per mettere in gioco la propria libertà e responsabilità.

Al principio della creazione l’uomo, rivestito di questa Luce, viveva in piena armonia con il suo Creatore e Padre, con se stesso, con gli altri e con il creato. Tutto era buono e bello, finché la disobbedienza non entrò nel mondo attraverso la porta della libertà umana mal usata, che fece aprire gli occhi a Adamo ed a Eva. Si accorsero così di essere nudi, vulnerabili (2, 16-17; 3,7) e si trovarono fuori del giardino alle prese con una vita tribolata, mentre il giardino dell’Eden era rimasto alle loro spalle custodito dalla spada folgorante dei cherubini (Gn 3,22-24).

Ma Dio non si lascia vincere dalla vulnerabilità umana, dalla sua pretesa di erigersi ad arbitro del suo destino, prescindendo dall’obbedienza al piano del suo Creatore e Padre su di lui. Nonostante che l’uomo fa saltare il piano di amore di Dio (Gn 3,1-24), Egli “vuole che tutti gli uomini si salvino” (1Tm 2, 4), perché l’amore divino è sconfinato e vuole salvare tutti.

Così la Luce, oscurata dal cortocircuito provocato nel cuore dell’uomo a causa della sua ribellione al suo Creatore e Padre, riprende a risplendere con l’Incarnazione del Verbo, Luce da Luce, Luce delle genti (Lc 2,34), che con la sua Morte e Risurrezione segna l’inizio di una nuova Genesi per l’umanità; è il Sole senza tramonto che rischiara le tenebre nella notte in cui il mondo era piombato; è la Luce dall’Alto, che vince il buio impenetrabile del peccato e della morte, e così tutto comincia ad essere ricreato, rigenerato; è la Luce della Resurrezione che fa partire la vita nuova, che nasce dal Crocifisso-Risorto.

È questa Luce che finalmente penetra nel buio secolare che avvolge la Nigrizia per rigenerarla e dischiude davanti ad essa l’orizzonte del destino ultimo della sua storia, che è l’Eternità e l’Infinito di Luce della divinità e della risurrezione riversato nella sua storia di oppressione, che rompe il suo esilio e la mette sul cammino della libertà, pregustazione della Patria Trinitaria.

Comboni, inondato da questa Luce, è rapito “in Alto”, fino a perdere la sua identità e diventare “il cattolico che vede alla luce della fede”, cioè si è lasciato spogliare di tutto e si è lasciato lentamente e pazientemente introdurre nell’intimità di Dio, Padre di tutte le genti, che prova una immensa compassione per ogni essere umano.

Trasportato in Alto da questa Luce, Comboni vede la dolorosa realtà dell’infelice Nigrizia in e attraverso Dio, che rivela la sua profonda misericordia per l’uomo perduto (cfr. Es 3,7-8) nel Cuore del suo Verbo Incarnato, e che vuole includere in Lui anche la emarginata Nigrizia, perché finalmente sia la “nigricans margherita” che manca alla Chiesa, Corpo di Cristo.

Gesù vede con l’occhio di Comboni e questi con l’occhio di Gesù, così che Comboni comincia a vedere come vede Gesù e a leggere e contemplare nel suo sguardo, “al puro raggio della Fede”, l’amore del Padre che, mentre lo ama e lo redime in Cristo Gesù, gli fa scorgere in Africa una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana. Percepisce e sperimenta quest’amore come impeto di quella Carità accesa con divina Vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso per abbracciare tutta l’umana famiglia. Quest’impeto accelera i palpiti del suo cuore, e diviene quella “Virtù divina” che lo spinge attraverso la purpurea via della Croce verso la Nigrizia per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quei suoi fratelli e riportarli all’abbraccio del Cuore di Cristo, perché possano contemplare e sperimentare in questo Cuore l’amore del comun Padre del cielo, che li ha benedetti in Cristo fin dall’eternità.

L’incontro di Comboni con il Cuore di Gesù è ormai così intimo che Comboni vede e ama la Nigrizia con gli occhi e il Cuore del Crocifisso-Risorto, mentre Lo abbraccia portando e stringendo tra il suo cuore e il Cuore di Gesù l’Africa dei “caldi sospiri della sua giovinezza” e rigenerata all’Amore da quella “Virtù divina”, che lo spinse a “stringere tra le braccia quegli infelici suoi fratelli”.

In questo incontro-intreccio di cuori tra il Cuore di Gesù e il cuore di Comboni risalta l’Africa, a cui Comboni è inviato per la sua “cristiana rigenerazione”, la quale corrisponde a questa passione di amore e quindi entra in questo incontro di cuori: il Crocifisso-Risorto sostiene e abbraccia Comboni, che a sua volta si stringe al Crocifisso-Risorto con l’Africa tra le braccia, stringendola tra il suo cuore e il Cuore di Gesù, dove trova la libertà e la pienezza di vita a cui aspirava.

1.2 Il mistero della Croce nel vissuto della consacrazione missionaria: RdV 4; 4.1-2

Davanti a questa scena di incontro-intreccio di cuori intorno all’Albero della Croce si può intravedere la lunga schiera di quei missionari che hanno seguito le orme di Comboni, a cominciare da quelli della prima ora che, presenti alla sua morte, hanno ripetuto il suo grido di guerra: “O Nigrizia o Morte!”, e subito dopo hanno affrontato le tribolazioni della prigionia mahdista, proseguendo così sul cammino martiriale iniziato con Comboni e che arriva fino ai giorni nostri …. fino alle dolorose recenti vicende della Diocesi di Rumbek in Sud Sudan, in cui il bersaglio è stato il P. Christian Carlassare, Vescovo eletto di quella Diocesi….

Infatti, san Daniele Comboni, invitandoci a “tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo…, contemplando e gustando un mistero di tanto amore”, ci propone la contemplazione di Gesù in croce come mistero d’amore, d’immolazione e dono assoluto di sé.

La contemplazione del Crocifisso svela al missionario che Gesù vive la sua solitudine radicale del morire come traguardo finale, in cui il dono di sé nella verginità, povertà ed obbedienza, si apre ad una dimensione universale, divenendo l’offerta agli uomini perché entrino nella Famiglia di Dio.

Per tanto, il missionario, contemplando Gesù crocifisso, viene raggiunto dalla forza di un Dio dal Cuore aperto sul mondo; da questo coinvolgimento impara ad amarlo teneramente, sarà beato di offrirsi a perdere tutto, a morire con Lui e per Lui in totale generosità fino al martirio.

Daniele Comboni è convinto che l’apostolato missionario nasce dalla beatitudine, dalla gioia del dono di sé, cioè dalla consacrazione, che è frutto della contemplazione di Gesù in croce. Per questo aggiunge “e rinnovando spesso l’offerta intera di se medesimi a Dio, della sanità e della vita, in certe circostanze di maggior fervore fanno tutti insieme in comune una formale ed esplicita consacrazione a Dio di se stessi, esibendosi ciascuno con umiltà e confidenza nella sua grazia anche al martirio”.

Contemplando il Cuore di Dio aperto sul mondo, non ci può essere che il conseguente atteggiamento umano della totale donazione di sé sotto forma di testimonianza assoluta (martyria) e di consacrazione, da cui nasce sempre anche una testimonianza comunitaria, un esporsi assieme senza risparmiarsi (1).

Questo “martirio bianco”, radicalizzato dalla fedeltà all’amore casto, povero ed obbediente, è come dare la vita goccia a goccia e fa del missionario un Crocifisso installato sul mondo, così che può dire con Paolo: “Sono Crocifisso con Cristo” (Gal 2, 20); e ancora: “sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Per tanto, come comboniano consacrato a Dio per la missione mediante i voti, sono chiamato ad essere nella Chiesa e nel mondo una copia vivente di Gesù Crocifisso. Le mie mani, inchiodate mediante il voto di povertà, non lavorano per i miei interessi e per la mia sicurezza personale, ma sono a servizio esclusivo del Regno; i miei piedi, inchiodati per il voto di obbedienza, non possono dare un passo senza di Lui, anche quando si tratta di bere il calice della Passione fino all’ultima goccia; il mio cuore trafitto dal voto di castità non può che amare Lui ed in Lui le persone a cui mi invia, a cominciare dai membri della mia comunità.

I missionari comboniani, “tenendo sempre fissi gli occhi in Gesù Crocifisso, contemplando con viva fede e gustando un mistero di tanto amore”, formeranno una vera comunità di crocifissi, costituiranno una “fabbrica di crocifissi”, cioè di persone “felici di perdere tutto, di morire per Lui e con Lui per la salvezza delle anime” (cf S 2720-21). Possiamo dire che con queste parole e con l’esempio della sua vita, san Daniele Comboni ha messo la prima pietra del suo “cenacolo di Apostoli”, che diviene una delle fabbriche più serie e benefiche del mondo, perché il mondo ha bisogno di incontrarsi con Gesù Crocifisso, per imparare da Lui la suprema lezione della carità che salva, che genera dalla morte la Vita senza fine (cfr. RdV 35.3).

Il missionario che segue l’incarnato Figlio di Dio nel mondo e per il mondo (cf RV 16), tenendo gli occhi fissi su Gesù Crocifisso, “si scopre qui nel suo specifico di volontà di spoliazione non solo dei beni economici ma anche del bene che si colloca a livello affettivo e decisionale. Il punto supremo dell’auto spoliazione è nel duplice voto dell’amore casto e obbediente. Con questa rinuncia, che affonda nelle carni vive, il missionario, tutt’altro che mutilarsi, tende a potenziare la sua capacità affettiva che si fa feconda di grazia; e la sua attitudine deliberativa che si fa collaborazione costruttiva. L’amore casto connota l’allargamento della paternità e maternità alle dimensioni del mondo a cui è inviato. L’amore obbediente è partecipazione al grande progetto del Regno, condiviso e guidato dall’unico Signore della storia. L’uno e l’atro sono a privilegiato servizio degli espropriati di oggi nella loro dignità sacra, i soggetti alla oppressione e alla repressione del potere”(2).

Così il quadro che abbiamo davanti agli occhi ci mostra dove sono le sorgenti della ministerialità comboniana, da dove ci viene la spinta al dono di sé per il prossimo nel mondo di oggi.

2. «Cuore di Gesù, cuore di Comboni» (3)

Per cogliere la portata dell’espressione «Cuore di Gesù, cuore di Comboni», cioè del Comboni con il Cuore di Gesù, bisogna tener presente che si tratta di un frutto maturato nel cammino spirituale di san Daniele Comboni durante tutto l’arco della sua vita, che ci viene rappresentato e riassunto nei dipinti sovrapposti che abbiamo davanti.

Il quadro che viene aggiunto ora si trovava nel noviziato comboniano di Huánuco-Perú; è stato ideato con la finalità di illustrare il contenuto fondamentale della Regola di Vita dei MCCJ; è opera del novizio Jorge Luis Cervantes, che ha già raggiunto la Sorgente del “fiume di acqua viva limpida come cristallo”. In esso:

  • San Daniele Comboni indica a un giovane il cammino della “donazione totale alla causa missionaria” (RV 2), che nasce nell’incontro con il Crocifisso/Risorto (RV 3-4).
  • Il cammino che porta in cima al Calvario, è il “cammino dello spirito” (S 2712), che Comboni vive e propone ai suoi missionari in maniera molto precisa nelle Regole del 1871; le orme ricordano il cammino già percorso da “quei missionari la cui vita ha offerto la migliore esemplificazione del carisma originario (RV 1.4).
  • Il Calvario, vertice del cammino, è il nuovo Oreb nel “deserto” del mondo. Nel Crocifisso/Risorto, viene espresso l’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla morte in Croce e merita il dono dello Spirito. Dal coinvolgimento in questo dialogo nasce il dono della vocazione missionaria nella sequela di Cristo (RV 20-21; 1).
  • Il Crocifisso/Risorto, trionfo dell’amore salvifico di Dio-Trinità, è un’esplosione di Luce che disperde le tenebre, illumina e dà pienezza di vita al mondo intero. Questa esplosione di Luce è l’amore incondizionato del Padre, che dal Cruore Trafitto di Cristo sotto l’impulso dello Spirito Santo si effonde nel cuore del mondo e percorre tutte le direzioni.
  • Sotto la Croce c’è la vergine Maria nel silenzio del suo «Sì», quello che ha pronunciato nel momento dell’Annunciazione e che ora diviene la misura della totalità del dono di sé a Dio. Ella, infatti, è la prima ad accogliere questo dono di amore e a corrispondervi con tutto il suo essere; è la «Mistica chiave del Cuore di Gesù», che lo tiene sempre aperto e introduce in maniera particolare alle sue intenzioni salvifiche. Diviene così figura della Chiesa che, nata dall’esplosione dell’amore salvifico di Dio-Trinità, è chiamata a rimanere in questo amore e ad annunciarlo al mondo intero.
  • I quattro fasci di luce segnano il cammino missionario della Chiesa che nasce dal Cuore Trafitto di Cristo. È il cammino iniziato dagli gli Apostoli. Essi, illuminati dallo Spirito, capiscono che l’amore del Padre, esploso nel gesto di estremo amore nella Pasqua del Signore, darà inizio al mondo nuovo e, fatti essi stessi “luce del mondo” per la partecipazione nel mistero del Crocifisso/Risorto, si mettono in cammino per ”annunciare il Vangelo ad ogni creatura”.
  • L’amore incondizionato del Padre, brillato nella Pasqua del Signore, si è riversato mediante lo Spirito nel cuore di Comboni spingendolo al centro dell’Africa “per stringere tra le braccia a dare un bacio di pace e di amore quegl’infelici suoi fratelli”, lo impulsa a dar vita a un «piccolo Cenacolo di Apostoli», perché sia un “punto luminoso” che irradia sul mondo la luce di questa esplosione di amore: “Perciò questo Istituto diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanti sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano” (S 2648).

In Daniele Comboni, infatti, il vissuto dell’icona biblica del Cuore trafitto di Cristo crocifisso e risorto emerge in modo significativo nell’evento carismatico del 15 settembre 1864 nella basilica di S. Pietro nel contesto di una esperienza forte di preghiera in occasione della beatificazione di Margherita Maria Alacoque.

La spiritualità del Cuore di Gesù che qui emerge è il frutto del cammino spirituale che è andato maturando nelle varie tappe della vita del Comboni a cominciare da Limone, suo paese natale, passando per l’Istituto Mazza e il Pellegrinaggio in Terra Santa fino all’arrivo alla Stazione di Santa Croce…

Infatti, nell’evento carismatico del 15 settembre 1864, la spiritualità del Cuore di Gesù vissuta da Comboni è espressa in termini in cui il simbolo del Cuore, già messo in intima connessione con il Mistero della Croce sul monte Calvario durante il pellegrinaggio in Terra Santa (29 settembre – 16 ottobre 1857), così che diviene il Cuore di Cristo trafitto in Croce, ora è colto in esplicita chiave trinitaria e nella sua identificazione con i popoli oppressi dell’Africa Centrale.

Comboni arrivò per la prima volta a Roma nel settembre 1859 proveniente dall’Africa, di ritorno, malato, dal suo primo viaggio missionario.

In quest’occasione, varca per la prima volta la soglia della basilica del Vaticano. Il giovane missionario, sotto il peso delle prove della prima esperienza apostolica (1857-1859), porta nel suo cuore orante quell’Africa a cui “già aveva sospirato da gran tempo, con maggior calore di quello con cui due amanti sospirano il momento delle nozze” (S 3) e che ora, dopo averla incontrata, non può abbandonare alla sua sorte.

Le sofferenze che affliggono l’Africa descritte nell’Introduzione del Piano pesano come macigni sul suo cuore di sopravvissuto della prima luttuosa esperienza sotto il “torchio della desolata vigna africana” (S 2744) e sfidano la sua fedeltà: “Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade che l’Africa nella sua vasta estensione racchiude… i rischi d’ogni maniera e gli scogli insormontabili…. sgominarono le forze e gettarono lo scoraggiamento…” (S 2741).

Il 15 settembre 1864 Comboni si trova di nuovo sulla tomba di S. Pietro “in attesa orante”. È un ritorno effettuato nel momento dei suoi “più caldi sospiri verso quelle regioni infelici” (S 2754), che certamente costituisce un momento determinante della sua vita e che può essere definito come “battesimo di fuoco” o “Pentecoste personale” dell’Apostolo della Nigrizia. A questo punto del percorso spirituale di Comboni il Monte Calvario appare intimamente connesso con il Sepolcro vuoto e il Monte Sion, “sublime monte” (S 54) dell’attesa e dell’avvento dello Spirito Santo, “dove successe la divisone degli Apostoli per predicare l’Evangelo per tutto il mondo” (S 58).

Infatti, presso la tomba di San Pietro è avvenuto il primo incontro dell’Africa nuova con la Chiesa di Cristo: Africa nuova che viene concepita nel cuore e nella mente di Comboni, mentre il tormentato cammino della Nigrizia alimentava la sua meditazione e la sua preghiera. Dal Piano, infatti, scaturito da questa preghiera, è nata tutta l’opera comboniana e ne derivò la rinascita della missione dell’Africa Centrale. Egli stesso dirà più tardi che, mentre si trovava in quel giorno nella basilica di S. Pietro, “come un lampo mi balenò il pensiero di proporre un nuovo Piano per la cristiana rigenerazione dei poveri popoli neri, i cui singoli punti mi vennero dall’alto come un’ispirazione” (S 4799).

Spinto dal fervore per tale illuminazione, Comboni si recò subito alla sede del suo alloggio, si rinchiuse in stanza e vi lavorò per “60 ore continue”. Il contenuto di quest’illuminazione lo formulò nell’introduzione alla I edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4):

«Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade… Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2741; 2742).

In questo testo Comboni svela nella Trinità le Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio”, vissuto abitualmente da Comboni, diviene qui comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con il Mistero Pasquale, cioè con il Mistero del Crocifisso-Risorto e con la sua passione missionaria.

Il punto di partenza della comunicazione di Comboni è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore (Cf S 2742).

La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua a operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana. Il suo “guardare l’Africa al puro raggio della fede” è “un giudicare delle cose con lume che gli piove dall’Alto”, dove il Risorto sta alla destra del Padre, vittorioso. Si comprende il Mistero del Cuore Trafitto di Gesù che è al centro della vita di Comboni, precisamente partendo dalla Risurrezione.

Nell’esperienza del Mistero del Cuore Trafitto di Gesù vissuta da Daniele Comboni, è presente tutta la Sacrosanta Trinità, che da lui è percepita pellegrina nel cammino degli uomini… Questa percezione, che inonda il suo spirito, rende in lui sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia, fino a farlo suo “sposo” e liberatore; questa percezione è l’aurea vena nascosta che dà ragione e forma alla sua “passione” per la Nigrizia, per cui ci può dichiarare con verità che come missionario viene dal cuore della Trinità.

Viene dal coinvolgimento nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che gli rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà fino al martirio con la vita di tutti gli uomini. Viene così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla fine in Croce, e gli merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto.

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, viene tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi d’ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al suo sguardo: comincia a vederla con lo stesso sguardo de Crocifisso-Risorto e gli appare “come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre attraverso le braccia crocifisse del Figlio suo lo esperimenta segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato e riportato all’abbraccio di quel Cuore che ama ogni essere umano fino alla fine.

Sotto l’influsso dello Spirito Santo, esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Gólgota, sente che i palpiti del suo cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisce come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore, per portali con sé e incastonarli nel Cuore di Cristo.

Questa Carità lo fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra le braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita.

Comboni, per tanto, lega la sua vita a quella degli Africani che da secoli vivono segregati dalle altre razze, fatto partecipe dell’amore di Colui che si dichiara presente nei “fratelli più piccoli” (cf Mt 25, 40), coinvolto quindi in uno dei misteri più sconcertanti della vita di Gesù, che è proprio quello della sua identificazione con gli esclusi della storia. Cristo Gesù, Verbo incarnato, “Uomo dei dolori” fino alla ignominia della Croce, si identica ed è riconoscibile nel volto sfigurato dei figli di Canaan. Comboni si dona agli Africani, perché riconosce ed ama Gesù nei “più poveri”, negli “anatemizzati”, cioè negli esclusi, nei più lontani, che lui percepisce “infelici fratelli suoi”. Nei neri oppressi gli si rivela il volto dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama a evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la soppressione della loro schiavitù.

Comboni, per tanto, coglie la sua identità come evangelizzatore e i criteri del metodo della sua azione missionaria dalla contemplazione di «Colui che hanno trafitto» (cfr. Gv 19, 37). Dalla contemplazione di questo Mistero Comboni nasce ad una nuova immagine di Dio, di se stesso, degli africani e della sua opera; rigenerato per primo dalla “Virtù divina”, che sgorga dal Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce, s’incammina all’incontro di fratelli marginati dalla storia, per essere servo e strumento della loro rigenerazione.

L’intuizione di Comboni è chiara: nel regno della morte Dio entra per mezzo del Trafitto e Risorto del Calvario.

Dal Cuore Trafitto di Gesù si sprigiona una potenza generatrice di vita, una “divina Vampa di carità”, che, come una punta laser, avrà ragione del “buio misterioso”, che avvolge la Nigrizia e di tutti gli ostacoli che si frappongono nel cammino dell’Apostolo dell’Africa Centrale. Gesù crocifisso entra nelle vicende dolorose della Nigrizia, è l’espressione della sua estrema e totale vicinanza ad essa, diventa uno di essa; con la “divina Vampa di carità” che promana dal suo Cuore, assorbe i veleni che la paralizzano, la solleva e la porta a sé. Gesù che muore nella “carne” presa dalla Nigrizia è anche il Figlio di Dio; perciò il suo ingresso nel buio che l’avvolge, è esplosivo e spezza la prigionia della sua natura avvilita e le catene della sua schiavitù, recuperandola totalmente all’abbraccio dell’amore del Padre. Nel morire di Gesù, la sua divinità, cioè la potenza del suo Spirito datore di vita, è effusa su coloro che sono giudicati gli ultimi della terra e diviene in essi forza salvifica e presenza rigeneratrice dell’uomo oppresso. Si schiude così per la Nigrizia l’orizzonte del destino ultimo della sua storia, che è l’Eternità e l’Infinito di luce della divinità e della risurrezione riversato nella sua storia di oppressione, che rompe il suo esilio e la mette sul cammino della libertà, pregustazione della Patria Trinitaria. Così sarà piena la gioia della Nigrizia e dello stesso Apostolo inviatole da Dio.

In conclusione, possiamo dire che Comboni è uno strumento efficace uscito dal laboratorio di riparazione rigeneratrice della Trinità, il primo di una serie che arriva fino a noi. L’incontro con Gesù Crocefisso lo coinvolge in modo totale: è un lasciarsi prendere dalla divina Vampa che sgorga da questo Cuore, che spinge Comboni a vivere e a morire, facendo della sua vita un dono totale alla causa della rigenerazione della Nigrizia.

Si noti come si parte da quella «divina Vampa» che accende la carità umana per arrivare ai gesti concreti dell’abbraccio e del bacio con cui si comunica all’altro pace e amore. Sono questi i primi gesti e i primi contenuti dell’annuncio. L’esperienza dell’incontro personale con l’Amore è comunicata in un incontro personale di amore.

Comboni è convinto che questa esperienza è fondamentale non solo per se stesso ma anche per i suoi seguaci, perciò nel Cap. X delle Regole del 1871, mette al centro del processo formativo Gesù Cristo, un Dio morto in Croce. Se il testo del Piano si centrava più sull’azione di Gesù che, amando, forma il missionario, adesso si parte dal missionario che, amando, si lascia formare: «Si formeranno questa disposizione essenzialissima [del dono di sé per essere rigeneratori con Cristo] col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per la salvezza delle anime».

Così Gesù Crocefisso che spinge con l’impeto della sua carità, è Colui che convoca, forma e invia in missione; è questa l’esperienza fondamentale che sola forma e abilita alla missione, a questa grandiosa opera divina di rigenerazione o “riparazione” dell’umanità, una volta che si è chiusa al Soffio della Vita.

3. «Cuore di Paolo, cuore di Comboni» (4)

Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo. (1Cor 11, 1)

Confrontando la vita dell’Apostolo delle Genti con la vita dell’Apostolo della Nigrizia, non ci è difficile renderci conto che possiamo anche affermare: “Cuore di Paolo, cuore di Comboni”. L’incontro e l’intreccio di questi due cuori possiamo intravederlo a partire dall’esclamazione di Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal 2,20), a cui fa eco l’espressione di Comboni alla fine della sua vita: “Io sono felice nella Croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S 7246).

Ciò avvenne perché Comboni concepì e visse la missione come consacrazione nella sequela di Gesù nel Mistero Pasquale, cioè segnata dall’adesione al Mistero della Croce e della Risurrezione, e quindi come cammino di fedeltà che configura il discepolo al cammino della Croce del suo Maestro e Signore. Il Mistero Pasquale diviene così la chiave per cogliere “dal di dentro” il vissuto della sua vita di Apostolo dell’Africa e la sua vita ci appare come una vita profondamente segnata dal Mistero della Croce; una Croce accettata, cercata e soprattutto amata, conseguenza della certezza della sua vocazione, che ha temprato il suo carattere, lo ha educato alla santità e ha plasmato il suo esuberante zelo missionario.

D. Comboni, facendo sua la “filosofia della Croce” (S 2326) e abbracciando la Croce come sua “sposa per sempre” (S 1710), ha reso la sua vita simile ad una “via crucis”, percorsa coscientemente fino al Calvario, per la redenzione della Nigrizia; visse così il dinamismo del Mistero Pasquale nel suo intenso peregrinare per le vie del mondo dal nativo Teseul all’Africa, e lo visse intensamente fino all’ultimo periodo della sua vita, consumata sulla breccia in un lento e sempre più martoriato olocausto, che lo rende tanto simile al Crocifisso. In modo particolare, gli ultimi venti mesi della vita di Comboni (1880-1881) sono stati umanamente tragici e soprannaturalmente quelli della piena maturazione di una santità eroica nell’accettazione della Croce.

3.1 Dimensioni paoline nell’itinerario missionario di san D. Comboni

Riflettendo sulle vicende apostoliche di Paolo da Gerusalemme a Roma, ci verrà spontaneamente alla mente la vita e il continuo peregrinare di san Daniele Comboni per la salvezza degli Africani.

Ci è facile scorgere fra i due apostoli una affinità interiore di un simile stile di vita, di un palpitar di cuori: due nature impetuose, Paolo ghermito da Cristo per farlo Apostolo delle genti, Comboni afferrato dagli africani da salvare sotto “l’impeto di quella carità divina accesa con divina vampa alle pendici del Golgota”; Paolo l’instancabile pioniere della fede, Comboni il perenne e instancabile viandante per l’Africa; Paolo l’indefesso predicatore di Cristo crocifisso, Comboni l’innamorato pazzo della Croce.

Come Paolo s’inerpica sull’erta catena del Tauro, attraverso l’altopiano anatolico, s’inoltra nella Macedonia e nell’Illiria, tocca la Grecia, solca il Mediterraneo, percorre le strade romane e si porta fino all’estremo occidente dell’Iberia, preso dall’urgenza di portare ai gentili il messaggio di Cristo, cosi il Comboni intreccia con i suoi viaggi una fitta rete che copre l’Europa e l’Africa, per far comprendere a tutto il mondo cattolico che Cristo é morto anche per gli Africani, i quali ormai non possono attendere più a lungo la salvezza.

L’Apostolo con i suoi viaggi e le sue fatiche congiunse l’Asia, culla del messaggio cristiano, con l’Occidente, dove la sua dilagante azione fece sentire tutti gli uomini uniti in Cristo; Comboni, partendo dall’Europa, quasi ideale continuatore dell’opera di Paolo, congiunse l’Europa con l’Africa, segnando la strada attraverso la quale il Cristo romano doveva farsi africano.

Paolo nel suo ministero apostolico fu sempre accompagnato da grandi contrasti; subì calunnie e persecuzioni da parte dei giudei, che, con le loro insidie, furono sempre presenti là dove l’apostolo fondava una chiesa e da parte dei gentili, eccitati dai giudei e dai propri interessi che sembravano conculcati dalla predicazione di Paolo. Queste calunnie e persecuzioni evidentemente erano fonti non solo di sofferenze fisiche nella prigionia e nelle torture, ma soprattutto erano fonti di umiliazioni.

Accanto a Paolo, perfetto imitatore di Cristo, chiamato a completare nel suo corpo e nel suo animo la passione di Cristo, sta la figura di Comboni. Anch’egli, umile figlio del Teseul che diventa primo vescovo dell’Africa Centrale, visse il suo “pellegrinaggio missionario” come il cammino della Croce che configura il discepolo al suo Maestro: nel suo cammino subì incomprensioni, persecuzioni, calunnie e abbandoni, anch’egli sentì l’ansia per i suoi africani.

Il diluviare degli eventi ha cancellato la sua opera esterna come un giorno rapì dal seno della Chiesa tante cristianità fondate da Paolo; ma come Paolo rimane vivo e attuale con il suo martirio e i suoi insegnamenti, ancor vivo e attuale resta Comboni con l’insegnamento della sua vita e della sua parola e a noi missionari indica la via maestra delle lotte e delle vittorie per Cristo: la via di Paolo, la via della partecipazione nel Mistero della Croce.

3.2 Partecipi del Mistero della Croce

Il Mistero Pasquale non è solo un’esperienza che definisce l’esistenza di ogni battezzato: è quanto l’Apostolo vive coscientemente in prima persona e annuncia agli altri. Infatti, la vita e la parola di Paolo ci annunciano che la vita del cristiano e tanto più dell’apostolo è incorporazione a Cristo crocifisso e risuscitato. Paolo, mentre riconosceva la propria debolezza, trovava in Cristo la forza in mezzo a tutte le tribolazioni e guardava a Cristo crocifisso e risuscitato e ringraziava “Colui che mi ha fatto diventare forte”.

Come Paolo, così anche Comboni sa – e lo dice in molti modi – che le stigmate sono le credenziali di ogni apostolo, il quale di nient’altro si vanta se non della Croce del Signore Gesù (cfr. Gal 6,17), lieto delle sofferenze che sopporta per completare quello che dei patimenti di Cristo ancora manca nella sua carne a favore dei fratelli (cfr. Col 1,24).

Anche Comboni meditò molto sul mistero della Croce e lo visse molto intensamente nella sua vita di missionario. Egli sa che la legge della Chiesa è la Croce, sa che nella Croce vi è tutta la forza del cristianesimo, sa che nella Croce vi è la garanzia della bontà di un’opera e perciò anche della sua opera.

“Il Mistero Pasquale” e così la chiave per cogliere “dal di dentro” la storia del grande apostolo dell’Africa:

“Ad ogni modo, io dopo tanti patimenti, mi sento più e più forte di prima colla grazia di Dio: la convinzione, che le croci sono il suggello delle opere di Dio, mi conforta.[…] È ai piedi del Calvario il luogo dove sta tutta la forza della Chiesa e delle opere di Dio; dall’alto della Croce di Gesù Cristo esce quella forza prodigiosa e quella virtù divina, che deve schiantare nella Nigrizia il regno di Satanasso, per sostituirvi l’impero della verità, e della legge di amore, che alla Chiesa conquisteranno le sterminate genti dell’Africa Centrale” (S 4290-91).

3.3 Felice / felici nella Croce

Paolo, crocifisso con Cristo e partecipe della sua morte, gioiva nella visione della vittoria finale: partecipe della morte di Cristo, lo sarà poi della sua consolazione e risurrezione. Comboni, dopo aver costantemente amato e abbracciato la Croce, dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, scrive le ultime parole: parole di gioia nella Croce che redime. Siamo di fronte a una delle lettere con la data più vicina alla morte di Comboni: 4 ottobre 1881. La finale ci presenta un Comboni pervaso come Paolo dalla forza e dalla gioia, che sono frutti della Croce abbracciata con amore:

“Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà. Dio non abbandona mai chi in lui confida… Io sono felice nella Croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S 2746).

È proprio questo fiducioso abbandonarsi a Dio nella Croce l’apice della attività missionaria: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Ricordare la morte dell’Apostolo della Nigrizia pensando al martirio di Paolo avvenuto a Roma alle Tre Fontane, significa attingervi nuova forza per “ripartire dalla Missione con l’audacia di san Daniele Comboni” e continuare a fare dell’evangelizzazione la ragione della propria vita.

Secondo una tradizione il capo di Paolo staccato dal corpo balzò tre volte pronunciando il nome di Gesù, e facendo scaturire tre zampilli d’acqua. É una tradizione molto significativa che rimanda al detto di Gesù: “Scaturiranno fiumi di acqua viva” (cf. Gv 7,38).

Comboni muore ed è elevato da terra con Cristo come appare nel dipinto che abbiamo davanti, trasportato dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulle pendici del Golgota ed uscita dal costato di un Crocifisso…e spinto da una virtù divina a stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore alla Nigrizia, unica passione della sua vita.

Alle 10 della mattina del 10 ottobre del 1881, a Khartoum, in Africa Centrale, Mons. Daniele Comboni, sentendosi male, desidera ricevere i Santi Sacramenti; dopo essersi confessato, riceve il Santo Viatico con segni del più vivo fervore.

Le sue ultime parole furono quelle di un generale che si sente morire e che lascia ai superstiti le sue ultime raccomandazioni, in fretta, prima che una densa nube gli offuschi la mente: “Abbiate coraggio; abbiate coraggio in quest’ora dura, e più ancora per l’avvenire. Non desistete, non rinunciate mai. Affrontate senza paura qualunque bufera. Non temete. Io muoio, ma la opera non morirà”.

Nella tarda mattinata sopraggiunse il delirio… Verso le cinque del pomeriggio, parve riaversi. Cercò la mano di Giovanni Dichtl, la tenne debolmente nella sua, facendogli giurare fedeltà alla missione: “Giura che sarai fedele alla tua vocazione missionaria…”.

Dopo fieri convulsi, in cui appena riusciva a pronunciare “Gesù mio misericordia!”, alle otto di sera Daniele Comboni entrava in agonia. Ha perso la voce, ma era cosciente. Don Arturo Bouchard scriveva più tardi: “Allorché lo vidi agli estremi momenti, gli dissi: “Monsignore, il supremo istante è arrivato: sono venticinque anni che voi combattete le sante battaglie del Signore durante i quali avete sacrificato la vostra vita: rinnovate la vostra offerta! Tra pochi istanti voi andrete a ricevere la corona promessa a coloro che tutto hanno abbandonato per Dio”. L’apostolo della Nigrizia non parlava più, ma aveva ancora la perfetta conoscenza. Allora la sua grande e nobile figura si illuminò in un raggio della gioia celeste, e ci mostrò il cielo che egli rimirava con amore, come l’esule che si avvicina alla patria, che sospira da lungo tempo, e che egli sta per andare a rivedere. La sua morte ci ha immersi nel più profondo dolore, ma la certezza che il nostro padre si trova in cielo, ci ha sostenuto. Noi missionari e suore, presenti a questa morte del giusto, abbiamo ripetuto il suo grido di guerra: “O Nigrizia o Morte!” (P 968).

Erano le 10 della notte del 10 ottobre del 1881. Daniele Comboni aveva 50 anni, 6 mesi e 25 giorni. La terra d’Africa, dopo averne ricevuto le lacrime e i sudori, si apre ad accoglierne le spoglie, poi si richiude in geloso abbraccio.

Su quella tomba presto passerà la bufera mahdista, i missionari verranno allontanati, le chiese distrutte e nulla resterà più in Africa dell’opera del Comboni, ma egli era laggiù, nel seno della terra dell’Africa, pietra angolare del fondamento di quella Chiesa africana che ora, pure in mezzo a sofferenze e croci, brilla “nigricans margarita” nel diadema della Chiesa di Cristo.

Quando Paolo muore a Roma, ha appena sessant’anni. Metà della sua vita, dopo l’esperienza di Damasco, l’ha passata da pellegrino del Vangelo, passando da una provincia all’altra dell’impero, dalla Siria alla Galazia, dalla Macedonia all’Acaia e all’Asia. Ha percorso una decina di migliaia di chilometri via terra e per mare. Egli ha desiderato e atteso il viaggio a Roma come punto di partenza per la missione in occidente. Vi è arrivato come prigioniero per il Vangelo e con la sua decapitazione ha posto il sigillo alla sua testimonianza.

Paolo non ha fondato la Chiesa di Roma, ma con il suo “martirio” ne ha segnato per sempre la storia. Il suo primo biografo Luca, anche se ha steso un velo sulla sua condanna a morte nella capitale dell’impero, ha intuito la dimensione storica e simbolica della sua testimonianza.

La morte di Paolo a Roma rappresenta il compimento della missione affidata da Gesù risorto ai suoi discepoli, perché da questo centro la loro testimonianza cristiana raggiunga gli estremi confini della terra.

Daniele Comboni si distinse per la sua dedizione totale alla causa missionaria per la quale parlò, lavorò, visse e morì. La sorgente di questa forza era la sua fede incrollabile e la certezza che la sua vocazione veniva da Dio, e che l’opera di Dio non sarebbe venuta meno (RV 2).

Comboni visse la sua chiamata all’insegna della Croce, affrontando le sofferenze, gli ostacoli e le incomprensioni nella convinzione che “le opere di Dio devono nascere appiè della Calvario” (RV 4).

P. Carmelo Casile
Casavatore, agosto 2021

(1) Cf Arnaldo Baritussio, Cuore e Missione, p. 109s.

(2) Sabino Palumbieri, Via Paschatis. Cammino pasquale della Vita Consacrata, ELLE DI CI, p. 13.

(3) Cf – Riparatori con Cristo sulle orme di san Daniele Comboni, comboni.org

(4) Rinaldo Fabris, Paolo apostolo delle genti, Paoline 1997, pp. 468-491.

– P. Luciano Franceschini, Dimensioni paoline nella vita e nell’opera di Mons. Daniele Comboni, Archivio Comboniano, Anno IV (1964) II, pp. 65-105.

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