Lunedì 29 marzo 2021
Nell’anno giubilare 2000, dal venerdì 10 al sabato 11 marzo, del tutto inaspettatamente, fui invitato a partecipare a un Convegno – ci racconta P. Antonio Furioli, missionario comboniano – sul “Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo venerato a Mantova”, che si svolse al Teatro Bibiena, in Via Accademia 47, nel cuore dell’antica città modellata dai Gonzaga, facoltosi mecenati tra i più illuminati del rinascimento italiano. A 21 anni di distanza sono ancora qui a riflettervi e a parlarne.

San Daniele Comboni
e il sangue di Cristo

Tra memoria storica, ricerca,
ed ermeneutica dei “pignora sanguinis Christi.
[1]

di P. Antonio Furioli M.C.C.J.

San Daniele Comboni

Prolegomeni

Nell’anno giubilare 2000, dal venerdì 10 al sabato 11 marzo, del tutto inaspettatamente, fui invitato a partecipare a un Convegno – ci racconta P. Antonio Furioli, missionario comboniano – sul “Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo venerato a Mantova”, che si svolse al Teatro Bibiena, in Via Accademia 47, nel cuore dell’antica città[2] modellata dai Gonzaga, facoltosi mecenati tra i più illuminati del rinascimento italiano. Domenica 12 marzo, invece, fu una giornata tutta dedicata ad una forte spiritualità, che aveva lo scopo di ricordare ai congressisti e a quant’altri, se ce ne fosse stato bisogno, che non è il passato, quantunque glorioso, che determina il nostro agire nel presente ma Cristo Gesù, la novità assoluta di tutti i tempi. Cristo è l’unico punto determinante di riferimento per la nostra vita di credenti, ieri, oggi, domani e sempre.

Nel pomeriggio invece si svolse il pellegrinaggio giubilare cittadino e diocesano alla basilica concattedrale di Sant’Andrea, chiesa dall’inusitata bellezza e serena radiosità, che nella sua cripta[3] custodisce le reliquie del preziosissimo sangue di Gesù Cristo, che fanno del celeberrimo tempio albertiano[4] il maggiore santuario al mondo edificato in onore di questa singolare reliquia tanto preziosa quanto controversa[5], che ha forgiato di sé i 1200 anni ininterrotti di fede mantovana, tanto da far esclamare al proprio liturgico della chiesa locale: “O felix Mantua”[6]. Nel cuore della Basilica, proprio sotto la cupola[7], incisa su una lastra di marmo c’è una precisa consegna di venerazione, a cui la Chiesa di Dio che è in Mantova è rimasta mirabilmente fedele nel tempo: “Precumbe viator hic pretium tuae redemptionis adora.”

L’invito a partecipare al Convegno, dunque, mi colse perplesso e imbarazzato perché non ero un esperto in materia. Mi chiedevo se non fosse stato piuttosto lo scherzo di qualche mio ex-alunno burlone. Tra tutte le relazioni in calendario, la mia attenzione come comboniano non poteva non essere catturata da una in particolare, che sabato 11 marzo alle ore 9.00 sarebbe stata tenuta da don Stefano Siliberti, docente di storia della chiesa nel locale seminario diocesano, sul legame tra il mio fondatore e la Reliquia custodita a Mantova. Al che rimasi ancor più interdetto perché l’Epistolario[8] di Comboni, i suoi biografi e le stesse fonti storiche della Congregazione dei Missionari Comboniani, ecc… non ne avevano mai fatto il benché minimo cenno. Silenzio ancor più imbarazzante per me, a motivo della mia abituale frequentazione del pensiero e degli scritti del Fondatore, delle mie ricerche e di alcuni fortunati ritrovamenti, ecc… Ma nonostante tutto ciò non mi veniva risposta alcuna per sciogliere l’enigma. Man mano che procedevo nell’analizzare il programma del Convegno, i titoli degli interventi e i nomi dei relatori[9], ecc… le mie esitazioni e riserve si mutarono in compiaciuta approvazione dando tacitamente ragione allo sconosciuto che mi aveva invitato. Alla fine decisi di partire da casa mia, a Desenzano del Garda (Bs.), dove tra l’altro mi trovavo in modo del tutto fortuito, alla volta della confinante e familiare città di Mantova. A 21 anni di distanza sono ancora qui a riflettervi e a parlarne.

Comboni-Mantova: un "vinculum amoris" all’insegna del sangue di Cristo

Questi 21 anni di ricerche sull’argomento, soprattutto nell’ambito comboniano, non hanno dato i risultati che avevo ritenuto giusto e ragionevole aspettarmi[10]. Invece ho raccolto solamente tasselli, schegge di fatti, frammenti sparsi, parziali ricostruzioni storiche, qualche fortuito ritrovamento di documenti e di oggetti appartenuti a Comboni[11], che mi hanno consentito di stendere queste considerazioni.

Nel 1877 Comboni era Vescovo da appena una manciata di mesi[12], quindi stupisce il suo interesse e la sua richiesta, mai emersi prima, al Vescovo di Mantova per avere un frammento della reliquia del preziosissimo sangue di Cristo. Importante è la motivazione missionaria della sua richiesta, apparsa evidente fin dall’inizio alle autorità ecclesiastiche mantovane e perciò subito accolta. Quindi non ci troviamo davanti a una pia devozione cristologica di Comboni, ma ad un’espressione della sua spiritualità missionaria, radicata in quell’economia della salvezza, ch’egli era andato rimuginando e maturando nel corso degli anni: “Gli Africani già da 18 secoli sono stati liberati, per mezzo del sangue di Cristo, (…) che con il suo stesso sangue li ha acquistati come propria eredità[13].(…) le anime degli Africani le quali son pur redente dal sangue di Gesù Cristo[14]. Ma siccome queste anime che andiamo a cercare con tanta fatica e pene inaudite sono riscattate dal Sangue di Gesù Cristo, siamo sicuri che Dio ci aiuterà[15]. “ (…) il Sangue di Gesù Cristo li ha riscattati e tu, o Maria, li hai adottati come figli sul Calvario[16].

Comboni dà al Sangue di Cristo un imprescindibile valore redentore e di lavacrum peccati, che egli rivendica anche per i cristiani del Sudan, di cui è Padre e Pastore. Nel contesto del dettato comboniano e dei contenuti teologici da lui elaborati, non fa dunque meraviglia che il “Francesco Saverio dell’Africa Centrale[17] abbia avuto l’ardire di domandare e la gioia di vedere esaudita la sua richiesta di un frammento della preziosa reliquia di quel sangue che aveva redento anche gli Africani, non tenuti in grande stima e considerazione nell’800[18], periodo storico del tristemente famoso “scramble for Africa”[19]

Ma sentiamo dalla viva voce del cronista mantovano dell’epoca come si è svolta la consegna della reliquia a Mons. Daniele Comboni nel freddo resoconto burocratico - notarile che segue:
Mantova 11 dicembre 1877
Prot. n. 1289

Consegna

di porzione della Reliquia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo conservato nella Chiesa Cattedrale di Mantova all'Ill.mo e Rev.mo Mons.r Daniele Comboni Vescovo di Claudiopoli i. p. i. e Vicario Apostolico dell'Africa Centrale.

Nel nome SS.mo di Dio
Correndo l'anno della Natività di N. Signore Gesù Cristo 1877 - mìlleottocentosettantasette - giorno 11 - undici - del mese di Dicembre del Pontificato di Nostro Signore Papa Pio IX anno 32o, nel Comune Città di Mantova, nella Chiesa Cattedrale, nell'Aula Capitolare davanti a me Sac. Francesco Gasoni Can.co di questa Cattedrale e Cancelliere della Chiesa Mantovana residente in detta Città ed in presenza dei sottofirmati testimoni sono intervenuti gli a me noti Signori:

Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vescovo di questa Città e Diocesi Mons.r Pietro Rota fu Bernardo di S. Prospero di Correggio; Ill.mo e R.mo Capitolo della Chiesa Cattedrale costituito dall'Ill.mo e Rev.mo Monsignore Arcidiacono Don Vincenzo Mozzi fu Giuseppe di Mantova e dai Rev.mi Canonici Don Giuseppe Portioli fu Vincenzo pure di qui. Don Willelmo Braghiroli fu Giuseppe di Concordia, Don Giuseppe Scardovelli fu Domenico di Ostiglia Penitenziere, Don Andrea Benedusi fu Carlo di S. Antonio Comune di Porto, Conte Don Giuseppe Beffa Negrini fu Conte Ascanio di Mantova, Mons.r Andrea Coppiardi fu Stefano di S. Michele in Bosco Pro Vicario Vescovile, Don Luigi Pavesi, Don Vincenzo di Mantova, Don Massimiliano Franzini fu Geminiano di Massenzatico Provincia di Reggio Emilia, Segretario Vescovile, Don Vincenzo Soglieri fu Giuseppe di Rolo Custode delle S. Reliquie, Don Michelangelo Rigatelli del fu Luigi nato a Roncoferraro provincia di Mantova. Illustrissimo e Rev.mo Monsignor Daniele Comboni di Luigi, nativo di Limone provincia di Brescia Vescovo di Claudiopoli i. p. i. Vicario Apostolico di tutta l'Africa Centrale i quali addivengono col mio ministero al seguente documento allo scopo di assecondare la pia vivissima brama che addimostrò l'IIl.mo e Rev.mo Mons. Daniele Comboni di possedere una piccola porzione della Preziosissima Reliquia del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo onde portarla con sé nell'ardua Missione affidatagli dal Supremo Gerarca della Chiesa ed ottenere per la intercessione di quel Sangue più eloquente di quello di Abele il dono della fede ai cento milioni di infedeli sparsi nelle vastissime ed in gran parte inesplorate regioni dell'Africa Centrale commessa alle sue cure, l'Illustrissimo e Rev.mo Capitolo della mentovata Chiesa Cattedrale di Mantova, con assenso e sanzione di Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Vescovo, consegna all’Ill.mo e Rev.mo monsignor Daniele Comboni Vescovo di Claudiopoli, il quale accetta con animo riverente ed ossequioso porzione della Reliquia del Preziosissimo Sangue di Nostro Signor Gesù Cristo conservato nella stessa Cattedrale, tolto da quello che veneravasi nella Basilica di S. Andrea in Mantova nei secoli che precedettero il Sacrilego furto dell'anno 1848, contenuto in una ampolla di cristallo di forma ovale, in due pezzi, l'uno superiore sormontato da un piccolissimo Crocifisso che si immette a guisa dì coperchio nell'inferiore, legati insieme mediante nastro di seta tinta in rosso, le cui estremità sono assicurate da sigillo a cera lacca rossa coll’impronta dello stemma dell'Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vescovo Pietro Rota da lui apposto nella occasione della consegna fatta il 24 Maggio 1876 di altra Porzione della Preziosissima Reliquia all'Insigne Basilica di S. Andrea pel ripristinamento del culto di essa: sigillo che da tutti é riconosciuto intatto.

Sciolto tale sigillo dal prefato Ill.mo e Rev.mo Monsignor Pietro Rota Vescovo di Mantova, il medesimo estrasse la Sacra Reliquia, ne staccò porzione che ripose in una Piccola Teca conformata a guisa di cuore schiacciato, costituita da due piccole lastre di cristallo bianco sfaccettate, aventi una cavità interna, legate da filograna d'argento e munite alla parte superiore di una cerniera per aprirsi e chiudersi, nel contorno interno fu collocata una piccola cornice di carta a fregi dorati con alla parte inferiore la scritta: De Pretiosissimo Sanguine D.ni N.ri J. Ch.ti. Poscia mediante un filo di seta rossa furono insieme legati i fregi d'argento che circondano la teca medesima, e quindi annodatosi il filo nella estremità inferiore fu applicato il Sigillo Vescovile e quello capitolare, entrambi in cera lacca rossa, a garantirne l'autenticità.

Dopo di che l'ampolla contenente il resto della Sacra Reliquia che continuerà ad essere conservata nella Cattedrale fu chiusa dall'Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vescovo un altro nastro di seta rossa e col di Lui sigillo in cera lacca rossa. L'anzidetta Reliquia per la Missione dell'Africa Centrale venne collocata dallo stesso Ill.mo e Rev.mo Monsignor vescovo di Mantova in una elegantissima scatola d'oro di forma rettangolare lavorata a cesello presentata dall'Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vicario Apostolico cessionario assieme alla suddescritta teca, e da lui ottenuta in dono dalla munificenza di S. A. Francesco IV Duca di Modena e quindi fu consegnato il tutto al più volte ripetuto Ill.mo e Rev.mo Monsignor Daniele Comboni Vescovo dì Claudiopoli e Vicario Apostolico dell'Africa Centrale; il quale mentre manifesta la massima riconoscenza verso l'Ill.mo e Rev.mo Monsignor Vescovo e Rev.mo Capitolo di Mantova pel dono preziosissimo si obbliga di custodirlo in quella riverenza che gli si conviene e di esporlo alla adorazione dei convertiti dell'Africa in un ricco ed elegante Ostensorio che si riserva di provvedere nella Città Eterna. 

Di quest'atto contenuto in due fogli da me scritti per sei pagine[20] diedi lettura alle Parti in presenza dei testimoni a me noti ed idonei Morselli Don Silvestro del fu Anselmo Sacrista della Cattedrale di Mantova e Magrinelli Don Luigi di Giovanni Arcip.te di Brusatasso e Businelli Don Alessandro fu Domenico di Verona.

In fede di che, dichiarato a mia interpellanza conforme alla rispettiva volontà, le Parti ed i testimoni passano a meco firmarsi qui in fine, ed i Testimoni anche nell'altro foglio.

+ Pietro Vescovo di Mantova
Arcidiacono Vincenzo Mozzi
Can.co Beffa C.te Giuseppe
Canonico Willelmo Braghirolli
Canonico Giuseppe Pontiroli
Canonico Don Giuseppe Scardovelli, Penitenziere
Canonico Andrea Benedusi
Can. Coppiardi Don Andrea
Canonico Pavesi Don Luigi
Can.co Massimiliano Franzini
Canonico Don Vincenzo Soglieri
Canonico Rigatelli Michelangelo
+ Daniele Comboni Vescovo di Claudiopoli i. p. i. Vicario Apostolico dell'Africa Centrale.

Nonostante l’aridità burocratica - notarile del documento, più preoccupato di rassicurare sulla ligia osservanza delle procedure canoniche “sigillo che da tutti é riconosciuto intatto”, e di fornire la prova documentale dell’autenticità della preziosa reliquia “fu applicato il Sigillo Vescovile e quello capitolare, entrambi in cera lacca rossa, a garantirne l'autenticità”, traspare una solennità inusitata in un documento di questo genere e la viva percezione dell’alta valenza comunionale che veniva a stabilirsi tra le due Chiese: quella consolidata nel corso dei secoli di Mantova e la neonata comunità ecclesiale del Vicariato Apostolico dell’Africa centrale. A tutti i firmatari è parso legittimo e doveroso accogliere “la pia vivissima brama “ di Mons. Comboni di avere un frammento della reliquia del Sangue di Cristo, perché è emersa con assoluta trasparenza e senza equivoci la finalità apostolica della richiesta, che premia non la privata devozione, seppur legittima, d’un Vescovo missionario, ma l’ardente zelo apostolico di chi si sente Pastore d’un “pusillus grex” (cf. Lc. 12, 32) esposto alle peculiari insidie degli inizi: l’entusiasmo e l’inesperienza dei neofiti che deve fare i conti con lo scoraggiamento sempre in agguato per le difficoltà incontrate nella quotidiana fedeltà al Vangelo.

«(…) allo scopo di assecondare la pia vivissima brama che addimostrò l'IIl.mo e Rev.mo Mons. Daniele Comboni di possedere una piccola porzione della Preziosissima Reliquia del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo onde portarla con sé nell'ardua Missione (…) ed ottenere per la intercessione di quel Sangue più eloquente di quello di Abele il dono della fede ai cento milioni di infedeli sparsi nelle vastissime ed in gran parte inesplorate regioni dell'Africa Centrale commessa alle sue cure, (…) Monsignor Daniele Comboni (…) mentre manifesta la massima riconoscenza (…) pel dono preziosissimo si obbliga di custodirlo in quella riverenza che gli si conviene e di esporlo alla adorazione dei convertiti dell'Africa (…).»

A quanti gli scritti di Comboni sono familiari, non sfuggirà di riconoscere espressioni prese letteralmente dall’Epistolario del Mutran es Sudan (Padre dei Neri), qui evidenziate in corsivo.

Croce pettorale (parte davanti) di Mons. Daniele Comboni.

Aspre e non mai sopite dispute teologiche

L’affermarsi della devozione al preziosissimo sangue si ebbe verso il 1200 circa, quando teologia e religiosità popolare misero in risalto l’umanità e il sacrificio di Cristo, mentre la liturgia sottolineò l’importanza della celebrazione eucaristica, anche se si dovette attendere fino al 10 agosto 1849 per avere la festa liturgica del preziosissimo sangue istituita dal beato Pio IX[21], ed estesa alla chiesa universale, con il decreto Redempti sumus. Nel tardo o basso medioevo la devozione alle piaghe era più diffusa di quella al Sangue di Cristo, che è una derivazione della precedente. Tuttavia lo scetticismo nei confronti della venerazione del Sangue di Cristo conobbe il suo massimo esponenziale proprio in questo periodo. Numerosi fenomeni miracolosi come, corporali macchiati di sangue, sanguinamento di ostie, ostie mutate in carne sanguinante[22], ecc… fecero aumentare il numero dei santuari, pellegrinaggi, ospizi per pellegrini, venerazione delle reliquie, ecc…. Atteggiamenti religiosi molto diffusi, questi, caratterizzati da una richiesta di forte fisicità, dal bisogno d’un contatto sensibile col divino, dalla ricerca d’un segno materiale probante, dalla necessità di vedere e di toccare un oggetto che rinvia al soprannaturale.

Tra le aspre dispute teologiche va ricordato Guibert de Nogent[23] (+ 1125) per la sua netta presa di posizione contro la venerazione delle reliquie in generale e di quelle cristologiche in specie, in dura polemica con i benedettini dell’abbaye de Saint Médard à Soissons.

S. Tommaso d’Aquino (1225-1274) critica la venerazione delle reliquie del Preziosissimo Sangue di Cristo. Il Dottore Angelico parla di “integritas personae” vale a dire dell’incolumità corporea del Cristo Risorto[24]. L’Aquinate torna su questo argomento quando parla della Croce, giungendo ad affermare che nessun figlio sulla faccia della terra ha mai venerato gli strumenti che inflissero la morte a suo padre, ed espressamente il flagello, i chiodi, la lancia, la croce[25], ecc…, San Tommaso, tuttavia, in sintonia col pensiero paolino (cf. 1 Cor. 1, 18-31), conclude dicendo che per quelli che si perdono la croce è follia, mentre per chi si salva è potenza di Dio, per cui è giusto e lecito che i cristiani venerino la croce ma solo come symbolum vel instrumentum salutis nostræ.  

Nel 1461 a Mantova un frate senese dei Servi di Maria, in una serie d’infervorate predicazioni ad effetto tenute nella Cattedrale di S. Pietro, aveva sostenuto con vigore l’autenticità della Reliquia del Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo. Di conseguenza aveva fatto affiggere a tutte le porte delle chiese cittadine un manifesto, nel quale egli elencava i tre punti fermi del suo pensiero: 1) É possibile che qui sulla terra si trovi il sangue di Cristo. 2) Questo sangue, per la sua unione ipostatica alla persona del Verbo, fu vero Dio. 3) Tale sangue è degno non solo di venerazione (dulia)ma di adorazione (latria).

Andrea Stanziali Vidali da Schivenoglia (Mn.) (1411-1484), afferma che nell’ambito mantovano nessuno osò contraddire le posizioni dell’appassionato predicatore servita, per cui questa opinione teologica è andata consolidandosi nell’arco dei secoli, divenendo così l’opinione prevalente su questa vexata quæstio.

Tuttavia fu nel cuore della cattolicità, a Roma, che si ebbero le più accese e avversate dispute tra Domenicani e Francescani, patrocinate da Papa Pio II, stimato studioso e publicista fecondo[26]. Bartolomeo Marasca[27] scrivendo alla marchesa Barbara di Brandeburgo, moglie del marchese Ludovico II Gonzaga, (i personaggi immortalati dal Mantegna nella celeberrima camera degli sposi a Palazzo ducale), commentava nei seguenti termini: “Del sangue de Christo, Illustrissima Madona, molte cose sono disputate circha a questo articulo, se lo sangue separato dal corpo de Christo era conjuncto cum la divinitate o vero separato. Ch’el fusse conjuncto è opinione de’ Predicatori[28], ch’el fusse separato è de’ Minori e quasi de tutti li altri religiosi. (…) credo non se deciderà (…).

Chi ebbe il coraggio di prendere posizione su una questione tanto controversa fu proprio lo stesso Pio II, colui che aveva patrocinato le discussioni tra Domenicani e Francescani. Poco prima di morire il 1° agosto 1464, ad Ancona, mentre la flotta cristiana stava salpando contro i Turchi, il Papa pose fine alle accese diatribe tra opposte scuole teologiche e fazioni di parte con la Bolla Ineffabilis summi providentia Patris con la quale proibì a Domenicani e a Francescani di continuare a confrontarsi sull’argomento. Uno storico mantovano del settecento, Federigo Amadei[29] (1684-1755), così scrive: “Terminò la lite il Papa con una bolla, che comincia Ineffabilis, e con ella quella sentenza cioè, che a niuno de’ due Ordini fosse lecito disputare, predicare, o pubblicamente, o privatamente far parola, o persuadere agli altri, che sia cosa eretica, o peccato il tenere, o credere, che l’istesso Sangue sacratissimo ne’ tre giorni della Passione del medesimo Nostro Salvator Gesù Cristo, sia in alcuna maniera o stato, o non stato diviso, e separato dalla stessa Divinità, finché venga la definizione de’ Sommi Pontefici, e della Sede Apostolica  difesa.” Sarà Papa Clemente VII (1523-1534) a dichiarare che tutte le reliquie di Cristo fanno parte intrinsecamente della sua natura divina, conferendo così la tanto attesa approvazione ufficiale della Chiesa al culto del preziosissimo Sangue di Gesù Cristo. 

Giambattista Cremonesi, preposito di Santa Barbara, la Chiesa palatina frequentata dai Gonzaga per le loro celebrazioni liturgiche, sull’argomento espresse una posizione meno teologica ma più pastorale e di buon senso, meno rigida e preoccupata della storicità e attendibilità della reliquia: “Per noi basta, che il Sangue, che adoriamo in Mantova sia Sangue di Cristo (…). Ed è per noi sufficiente, che prima, che il Sangue si dividesse dal Corpo di Cristo fosse unito alla Divinità (…)” perché si debba adorazione, se non “assoluta” che spetta solo a Dio, “almeno rispettiva, venerando il detto Sangue in ordine al Verbo, a cui fu esso qualche volta unito, a quella guisa, che si dice proporzionatamente delle Reliquie de’ Santi rispetto all’anima, ch’ebbero, e dell’Umanità di Cristo (…).”[30]

 Tutte queste discussioni, tuttavia, non giovarono affatto alla diffusione e al consolidamento della devozione al Sangue di Cristo, al contrario furono motivo di progressivo scetticismo nelle gerarchie ecclesiastiche e, di conseguenza nei fedeli. Il dubbio teologico sull’esistenza di resti mortali del corpo di Gesù in questo mondo, limitò la predicazione ufficiale e in qualche modo causò il declino dell’importanza della reliquia del Sacro Sangue. Pietro Gavasseti da Novellara (Mn) riteneva che soprattutto l’incredulità del clero fosse causa del deplorevole stato di abbandono in cui versava la cripta dove era custodita la Reliquia, da lui crudamente qualificata come “maleodorante, squallida e tenebrosa. Infatti sempre più esiguo era il numero dei pellegrini, dissuasi da quella dannosa indifferenza a mettersi in cammino, ad affrontare disagi e rischi per andare a venerare la Reliquia: “Piglia una zoja preciosa et de summa bontà: se uno zoielliere la rende suspecta, non trova compratore (…). Qual homo grave, intendendo, per sentir predicare pubblicamente in le chiese, questo non essere vero sangue del Signore, ma ussito d’una imagine dipincta, lassassi la sua patria et cum grande incomodità facesse tanti passi per venire ad honorarlo? Questa è la potissima causa de retrahere gli populi da la devocione de questa sancta reliquia (…).”[31]

Il Concilio di Trento (1545-1563), confermando la venerazione per le reliquie dei santi, in particolar modo per i corpora martirum, di riflesso diede nuovo impulso all’adorazione del preziosissimo sangue di Cristo, caduta ormai in oblio. Nel periodo barocco che fiorì a Roma all'inizio del 1600 e che si diffuse in varia misura in tutta Europa fino al XVIII secolo, si moltiplicarono le “peregrinationes“ai vari santuari sparsi un po’ ovunque nel continente. Particolarmente diffuse divennero le processioni, considerate come veri e propri cortei trionfali[32] di un cattolicesimo che tornava a contare, nuovamente importante, forte e sicuro nei confronti delle confessioni protestanti dopo i cedimenti e le laceranti divisioni dovute alla Riforma.

La “pietas mantuana”: fedeltà e continuità nella “traditio patrum

 Carlo Magno[33] (742 - 814), re dei Franchi e dei Longobardi, imperatore del Sacro Romano Impero, chiese a Papa Leone III (795-816) di recarsi a Mantova per verificare (inquisitio)  l’attendibilità e la legittimità della reliquia del Sangue di Cristo. Al Papa dovettero essere state presentate prove inoppugnabili da parte delle autorità ecclesiastiche coeve, visto che emise un documento che non solo attestava l’autenticità e la legittimità della reliquia ma ne dispose altresì l’ostensione per la solennità dell’Ascensione. Inoltre Leone III ottenne un ragguardevole frammento della reliquia per l’imperatore, che la fece collocare nella cappella reale, la “Sainte Chapelle”, dove erano esposte anche altre preziose reliquie della cristianità. Purtroppo durante la Rivoluzione francese tutte le reliquie furono disperse e tra queste anche la reliquia del Sacro Sangue di Mantova.

Ludovico II (804-876), il germanico, figlio di Lotario e pronipote di Carlo Magno, andò a Mantova per ben quattro volte a venerare la Sacra reliquia. Nell’872 fu la volta di papa Giovanni VIII (820 circa - 882). Anche Carlo III, il Grasso (839-888), nell’881 venne a Mantova con la stessa finalità: venerare una delle più importanti reliquie della cristianità d’occidente. 

Bonifacio III di Canossa con la moglie Beatrice di Lorena, Signori di Mantova, anche per celebrare la nascita della loro terzogenita Matilde (nata nel 1046), il venerdì santo 24 marzo 1049 in occasione dell’ostensione delle reliquie del Sacro Sangue, invitarono a Mantova prelati e principi, cerimonia ripetutasi poi il 4 maggio per ottemperare alle numerose richieste dei pellegrini provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa. Nel 1053 fu la volta del riformatore Brunone di Toul eletto papa col nome di Leone IX (1002-1054), che non fece ritorno a Roma senza avere prima ottenuto una parte della reliquia per la sua cattedrale di S. Giovanni in Laterano. 

Nel 1055 anche l’imperatore Enrico III (1039-1056) ottenne un frammento del Sacro Sangue di Cristo. La reliquia, dopo diversi passaggi dinastici e peripezie di diverso genere, alla fine finì nelle mani dei monaci benedettini[34] a cui l’aveva aggiudicata in eredità Giuditta moglie di Guelfo IV, duca di Baviera, fondatore del monastero di Weingarten[35] (“vigneto”), fatto costruire sul Martinsberg (monte S. Martino), che domina la città di Altdorf, residenza ufficiale dei Duchi di Baviera. Nella comune venerazione e memoria del Sacro Sangue di Cristo, Weingarten[36] e Mantova furono gemellate rispettivamente il 12 marzo e il 22 maggio 1998.  

La reliquia del Sacro Sangue del costato di Cristo fu venerata anche dai Sommi Pontefici Alessandro II (1061-1073) e dopo di lui da Innocenzo II (1130-1143). Carlo IV imperatore del sacro romano impero (1316-1378), venne a Mantova due volte: nel 1354 e nel 1368. L’antipapa Giovanni XXIII (1410-1415) di ritorno da Lodi, dove aveva incontrato l’imperatore Sigismondo (1410-1437), fu a Mantova da metà gennaio a metà febbraio 1414. Tra il 25 ottobre 1418 e il 7 febbraio 1419 fece atto di venerazione alla reliquia papa Martino V (1417-1431). Ma il papa che più d’ogni altro contribuì a dare impulso e a consolidare il culto del Preziosissimo Sangue a Mantova, fu Pio II (1458-1464) che, colpito da un severo attacco di podagra durante il suo soggiorno a Mantova (27 maggio 1459 - 19 gennaio 1460), ottenne la guarigione dopo avere invocato la Sacra Reliquia. Lo storico mantovano Ippolito Donesmondi[37] (1560-1630), riporta che fu proprio durante la permanenza di Pio II a Mantova che fu fondata la “Compagnia del Sacro Sangue di Cristo”, costituita da soli laici sia nobili che plebei.

Tra le visite alla Sacra Reliquia rese da Papi e Imperatori si deve aggiungere quella nel 1584 di Massimiliano, figlio dell’Imperatore Ferdinando e futuro Imperatore (1564-1576) e l’anno seguente quella di Filippo II, figlio di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) che sarebbe succeduto al padre sul trono di Spagna (1556-1598).

Particolarmente commovente per essere stata espressione di tenero e premuroso affetto fraterno fu la visita che questa volta la Reliquia fece al monastero di clausura di Mantova delle Povere Dame di Santa Chiara d’Assisi nel 1521, dove Suor Paola Gonzaga, figlia di Francesco II (1484-1519) e di Isabella d’Este (1474-1539)[38] ebbe l’insperata e gioiosa consolazione di venerare il preziosissimo sangue di Cristo. Ad averlo voluto con tenacia e costanza era stato il fratello Federico II Gonzaga V marchese di Mantova (1519-1530).     

Ultimo in ordine di tempo a rendere un atto di toccante venerazione e premuroso omaggio alla reliquia, in occasione del IV centenario del dies natalis di San Luigi Gonzaga, patrono mondiale della gioventù, fu il beato Giovanni Paolo II, il 22 giugno 1991, apostolico pellegrino in terra virgiliana.

Gestione politico-dinastica della reliquia

L’integrità e l’incolumità d’una delle più importanti reliquie della cristianità d’occidente, sono state messe a repentaglio dalle troppo frequenti richieste di “possedere” frammenti della reliquia, dall’antichità fino ai nostri giorni. Qui non ci riferiamo a quelle giustificate da retta finalità o a quelle di personaggi dal riconosciuto impegno morale o ad autorità di alto profilo personale o istituzionale, ma ad altre con intenti discutibili, talvolta per un uso talismanico esibito più vicino alla magia e alla superstizione che alla spiritualità o alla religiosità popolare.

A questo tipo di richieste va annoverata quella di Vincenzo I Gonzaga (1562-1612), licenzioso e stravagante nonostante fosse cugino di S. Luigi del ramo Gonzaga di Castiglione delle Stiviere (1568-1591)[39], che, partendo in guerra per l’Ungheria contro i Turchi, portò con sé un frammento della reliquia. L’uso disinvolto, politico e dinastico, padronale della reliquia non è stato scevro da strumentalizzazioni e da finalità di mere alleanze dinastiche di rafforzamento e di espansione del prestigio, del potere politico, di promozione d’immagine e di quasi santificazione del Casato Gonzaga (instrumentum regni), paragonabile, con le dovute distinzioni, all’uso della Sacra Sindone che ne hanno fatto i membri di Casa Savoia per limitarci alla sola Italia[40].

Venuto meno questo uso politico – dinastico, la fama e il prestigio della reliquia cominciarono progressivamente a declinare. A questo scopo politico – dinastico certamente servirono i donativi di parti della reliquia benevolmente concessi dal padre Vincenzo I alla figlia Eleonora Gonzaga quando costei andò sposa all’imperatore Ferdinando II d’Asburgo (1619-1637). Stesso caso fu quello di Francesco IV Gonzaga (1586-1612), quinto duca di Mantova, che il 25 maggio 1608 prendeva in sposa Margherita di Savoia e con questo matrimonio il Duca mirava al definitivo radicamento dei Gonzaga nel Monferrato. E questo per limitarci ad alcuni casi.

Dovette essere consapevole di questa dannosa e inutile dispersione della prestigiosa reliquia il Vescovo di Mantova Mons. Giovanni Corti (1847-1868) se questi scrisse a Roma chiedendo il ritorno della reliquia legittimamente portata a S. Giovanni in Laterano nel 1053 da papa Leone IX. Ma a quanto ci è dato di sapere, allo stato attuale della reliquia non c’è traccia alcuna. Una tradizione orale la vorrebbe custodita nel sacrario della Scala Santa, affidata alle cure dei Padri Passionisti.

Croce pettorale (parte di dietro) di Mons. Daniele Comboni.

Il sangue di Cristo negli 'Scritti' di Comboni

La voce “sangue” ricorre 104 volte negli 'Scritti ' di Comboni. Non è certamente tra le voci più frequenti, tuttavia rappresenta un’importante tematica di riflessione teologica[41], statisticamente quantificabile intorno all’8,4% circa del totale degli Scritti.

Per essere ben compresa, la tematica del “sangue” in Comboni, va collocata nella prospettiva di fondo che unifica e interpreta la sua riflessione globale sul mistero cristologico della salvezza universale. Le tematiche comboniane correlate quali ad esempio “Sacro Cuore, Croce, sofferenza, evangelizzazione, imitazione, ecc…”[42] devono essere incluse in questa visione di fondo del vescovo missionario dell’Africa centrale. La frammentazione e l’analisi delle singole voci arrecherebbero un grave torto e danno ai testi, precludendocene la comprensione e la recezione del loro messaggio. Questa prospettiva ermeneutica evita il rischio della frammentarietà del pensiero comboniano, fondando il dinamismo profondo e unitario della sua visione sul mistero della salvezza universale realizzata da Cristo. Ogni tematica ed espressione tolte dagli 'Scritti' di Comboni, vanno situate in questa precisa prospettiva, dove l’autonomia delle singole 'voci' è valida nella misura in cui la sua complementarietà ci aiuta a penetrare e a focalizzare meglio il pensiero globale di Comboni su un argomento di capitale importanza per lui, perché la redenzione universale del genere umano investe direttamente gli Africani, che da esclusi ed emarginati del Regno di Dio ne diventano compartecipi e collaboratori a pieno titolo. In questo modo si supera il formalismo teologico e l’arido e compiaciuto esercizio accademico, che invece di familiarizzarci con le tematiche fondamentali e più importanti del cristianesimo, ce ne disaffezionerebbero allontanandocene a nostro grave discapito.

'Una grata memoria'

Nella sua riflessione sul mistero della redenzione, fin da subito Comboni concentra la sua attenzione su Cristo Gesù, causa e modello di ogni martirio. “Dovremo patire, essere disprezzati, calunniati, condannati forse, e morire …ma per il nostro caro Gesù! (…) ma per Cristo, è poco il sacrificio, il martirio.”[43] È uno stile peculiare di vita che Comboni è andato maturando negli anni attraverso scelte concrete di vita per sé e per i suoi missionari. È una mentalità che diviene comportamento coerente, un modo d’essere; è un atteggiamento di fondo di tutta la sua esistenza: “ (…) il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi.”[44] Espressione che ben sintetizza la tipologia dell’impegno missionario e della sequela Christi di Comboni, dei suoi compagni e collaboratori. Per lui l’amore di Dio non è di tipo possessivo ma oblativo, poiché così si è rivelato nel volto umanato del Verbo. Cristo che ha donato la sua vita per la redenzione dell’umanità è il fondamento e il modello che ha ispirato e nutrito la metodologia missionaria programmatica così com’è esposta nel “Piano per la rigenerazione dell’Africa” (1864) e l’impegno suo personale e dei suoi missionari per incrementarne l’efficacia operativa: “ (…) quello stesso ideale per il quale ha dato la sua vita e tutto il suo sangue prezioso un Dio in forma umana.”[45] 

 É la 'grata memoria' di questo fondamentale evento storico-salvifico che emerge con forza in occasione del suo pellegrinaggio in Terra Santa avvenuto tra settembre e ottobre del 1857. Per Comboni è un far ritorno a casa, alle radici della fede cristiana: “Io mi trovo sulla cima del Golgota nel luogo stesso dove fu crocifisso l'Unigenito Figliuolo di Dio: qui fu compìto l'umano riscatto; qui fu soggiogata la morte, qui fu vinto l'inferno, qui io sono stato redento. Questo monte, questo luogo rosseggiò del sangue di Gesù Cristo: queste rupi udirono le sue estreme parole: quest'aura accolse il suo ultimo fiato: alla sua morte si dischiusero i sepolcri, si spezzarono i monti: e distante pochi passi dal luogo ove fu inalberata la Croce”[46]. E durante il suo pellegrinaggio va rimuginando un’accorata invocazione che lo sprona nel suo vagare itinerante da un luogo all’altro della 'Terra Santa quinto Vangelo'[47]: “(…) i luoghi santi, bagnati dal sudore e dal sangue del divin Salvatore, (…)”[48], sudore e sangue che sporcano ma sono anche sudore e sangue che salvano l’umanità e che costituiscono il segno e la prova delle innumerevoli fatiche e sofferenze che Cristo sostenne per la redenzione del genere umano. Nel corso dei secoli il sangue rimane l’anamnesis, che Gesù volle morire con un genere di morte di tutti il più umiliante e doloroso e che per questo motivo fa invocare al popolo cristiano: “Soccorri i tuoi figli, Signore, che hai redenti col tuo sangue prezioso.”[49]

Per Comboni il pellegrinaggio in Terra Santa è stato come un’immersione battesimale alle pure sorgenti del cristianesimo ma soprattutto un incontro con la persona di Gesù Cristo, in quegli stessi luoghi, testimoni muti ma autorevoli, che lo videro operare per l’avvento del Regno di Dio tra gli uomini. Di questa persona Comboni si è impregnato a tal punto, che d’ora in poi non potrà più vivere e operare che per lui: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno.” (Fil. 1, 21; cf. Gal. 2, 20).

Il vescovo missionario dell’Africa centrale interpreta il sangue di Cristo come segno di vita e di morte: di vita nell’amore, che non si arresta davanti alle situazioni di violenza che causano la morte, ma la accetta e la vive come espressione estrema del dono di sé a Dio per il tramite degli Africani. Ricordiamo, per l’efficacia della loro forza espressiva e capacità sintetica, alcuni testi significativi di Comboni: “ (…) questa cara Africa Centrale, che è la parte del mondo la più degna delle simpatie e degli sguardi dell’umanità intera e per la quale ho votato la mia anima e il mio cuore, il mio sangue e la mia vita. Legame indissolubile (…) per quanto indegno e piccolissimo io sia (…).”[50] “(…) noi saremmo troppo felici di donare tutto il nostro sangue e la nostra vita in mezzo ai più atroci martiri.”[51] “ (…) abbiamo tentato di rintracciare una via probabile, se non sicura, affine di iniziare un provvedimento alla rigenerazione futura di quelle anime abbandonate, al cui vantaggio si appuntarono sempre tutti i pensieri della nostra vita, e per le quali saremmo lieti di versare il nostro sangue sino all’ultima stilla.”[52]

La teoria imitativa del desiderio di essere secondo l’altro[53]

Il sangue versato da Cristo per la nostra salvezza è la prova di quanto sa osare e di fin dove sa arrivare l’amore di Dio per noi: “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me.” (Gal. 2, 20) Il sangue di Gesù è sangue donato come suprema prova di diakonia che ha contraddistinto tutta la sua vita: “Io sono tra voi come uno che serve.” (Lc. 22, 27). Dono di Dio agli uomini e in Gesù primizia della creazione nuova (καινὴ κτίσις), primogenito di molti fratelli (Gv. 1, 14), dono degli uomini a Dio. Comboni così glossa il Vangelo di Giovanni: “Io ritorno fra voi per non mai più cessare di essere vostro, e tutto al vostro maggior bene ordinato per sempre. Il giorno e la notte, il sole e la pioggia, mi troveranno egualmente e sempre pronto ai vostri spirituali bisogni: Il ricco e il povero, il sano e l’infermo, il giovane e il vecchio, il padrone e il servo avranno sempre uguale accesso al mio cuore. Il vostro bene sarà il mio, e le vostre pene saranno le mie. Io prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi.[54]  

Il sangue del Signore Gesù è segno della condivisione della condizione umana, di quella radicale solidarietà esistenziale “nella carne e nel sangue” (Eb. 2, 14). Solidarietà per libera adesione all’iniziativa d’amore del Padre nei confronti dell’umanità. Il sangue dell’Agnello immolato crea comunione e attua la riconciliazione dell’uomo con Dio: “divenuti vicini grazie al sangue di Cristo (…). Per mezzo di lui possiamo presentarci gli uni e gli altri al Padre in un solo Spirito” (Ef. 2, 13.18).

Il sangue versato da Cristo Gesù sulla croce rappresenta il mistero centrale e fondante del dinamismo profondo che anima l’universale economia della salvezza.  La croce è misteriosamente inscritta nella profondità della creazione nuova. Essa è la via tramite cui l’umanità raggiunge il suo fine ultimo cioè la riconciliazione attraverso il sangue di Gesù Cristo: “(…) Gesù convertirà la Nigrizia, e noi moriremo tutti per riuscirvi. Che cosa più piccola possiamo noi offrire a Gesù della nostra vita, mentre Gesù è morto per noi: il sangue versato per Gesù è la nostra gloria e conforto.”[55]

L’imitazione del modello diventa logica operativa e programmatica per Comboni, che nel simbolo del 'sangue' coglie lo stile, la modalità e la capacità inventiva del dono a Dio e a quel “prossimo”, gli Africani, che lui aveva scelto come verifica di concretezza dell’agape (ἀγάπη) cristiana vissuta. “Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme.” (1 Pt. 2, 21) Imitazione che Comboni sa cogliere anche nell’esempio di vita degli altri, per rilanciare la proposta cristiana come non utopica ma possibile di fatto: “(…) il Papa è un perfetto imitatore di Gesù Cristo che avrebbe sparso tutto il suo sangue per un’anima sola. (…) stupendo spettacolo di un Papa che dà al mondo una splendida lezione di quel che costi un’anima, per la quale il divin Redentore morì.”[56] E le motivazioni non possono dissociarsi dal modello lasciato da Cristo per tutti: “Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli.” (1 Gv. 3, 16)

Comboni, sposo di sangue (cf. Es. 4, 25)

Il sangue di Gesù è l’emblema della sua scelta libera di far causa comune con gli 'anawim'[57] realizzata storicamente in Lui e in via di realizzazione nel suo corpo mistico, la Chiesa. Questa radicale condivisione è simbolo vivente che rivela, attua e dilata nella storia della salvezza la pienezza di vita che ci è stata donata in Cristo Gesù. Comboni parla del suo incontro con gli 'anawim' dell’Africa in termini nuziali, tanto grande era stata la preparazione e il desiderio di fare causa comune con loro : “Questo momento era sospirato da gran tempo da me, con maggior calore, di quello che due fervidi amanti sospirano il momento delle nozze.”[58]

Il dinamismo profondo della Kenosis come via alla Koinonia, caratterizza tutta l’economia della salvezza che ha il suo fondamento ultimo nel mistero del Dio agape. La Kenosis come via alla Koinonia, evocata dal mistero del corpo donato e del sangue versato da Cristo, ci fa penetrare nel mistero stesso dell’Amore di Dio. Ci consente cioè d’interpretare in profondità il mistero dell’uomo e il mistero di Dio.  Questo mistero di sofferenza e di donazione è l’interrogativo fondamentale dell’antropologia cristiana e della teologia.  Ma proprio dal nucleo centrale del male e della sofferenza, che raggiungono il loro culmine nella croce e nel sangue di Cristo, Dio ci afferra e ci salva, liberandoci per sempre dal nostro peccato.  Proprio nell’abisso del male, della sopraffazione e della prevaricazione, emerge vittorioso l’Amore di Dio che nel sangue di Cristo crocifisso e risorto, morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a tutti noi la vita[59].  Il mistero del male è sconfitto dal mistero dell’amore fedele di Dio, rivelatosi in Gesù Cristo e simboleggiato nel suo sangue che è vita concreta donata per la salvezza del mondo: “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2, 20).

È questo l’euanghelion (εὐαγγέλιον) la notizia gioiosa che il sangue di Cristo può offrire e che Comboni si è reso disponibile ad annunciare: “ (…) son disposto a fare qualunque sacrificio, ed a soffrire ogni più ardua fatica e disagio, anzi mi tornerebbe assai lieve e dolce il sacrificio del mio sangue e della vita, per coadiuvare che questa Opera sia posta ad effetto.”[60]  “Si deve fare ogni sforzo perché la Nigrizia si unisca alla Chiesa Cattolica. Questo infatti è richiesto dall’amore e dalla gloria di Nostro Signore Gesù Cristo al cui impero, dopo tanto tempo, l’Africa Centrale non è ancora soggetta, benché Egli abbia sparso il suo sangue per la sua rigenerazione.”[61]

La Kenosis di Cristo e la nostra, il mistero della sua sofferenza e delle nostre, vissute e trasfigurate nella fede, devono purificare l’immagine che ci siamo fatti di Dio Padre. Il sangue dell’Agnello immolato e vincitore non è l’onnipotenza ad ogni costo, la proiezione effimera e illusoria della nostra volontà di riuscita, di potenza o di dominio. È la vittoria e l’onnipotenza dell’Amore ferito e straziato del Padre nel suo umanato divin Figlio, che morendo ha distrutto la morte e che vivifica tutto con l’energia trasfigurante della sua tenerezza.  Comboni ha vissuto con fedeltà sponsale la sua vocazione missionaria, ma come sposo di sangue e non di appagamento egoista: “Già vedo e comprendo che la croce mi è talmente amica, e mi è sempre sì vicina, che l’ho eletta da qualche tempo per mia Sposa indivisibile ed eterna. E colla croce per sposa diletta e maestra sapientissima di prudenza e sagacità, (…) non temo (…)”[62]; e ampliando lo stesso concetto, così continua: “(…) da un po’ di tempo la Croce mi è talmente amica ed è così assiduamente vicina a me che l’ho scelta per mia carissima Sposa , tanto che ho deciso di vivere sempre con Lei fino alla morte e, se fosse possibile, nell’eternità.”[63]

L’ardente desiderio del martirio per amore di Cristo è all’origine della vocazione missionaria[64]. La santità cristiana mette in luce l’ideale che si forgia sul modello di Cristo crocifisso. Il Cristo pasquale è il modello, l’ideale, il termine conclusivo della perfezione cristiana e il pegno più certo delle sue promesse alla Santa Chiesa.

Problemi teologici aperti

In oltre duemila anni di storia del cristianesimo, sul mistero della Redenzione non c’è mai stata una definizione dogmatica. Questa realtà era talmente evidente e sedimentata nella coscienza cristiana, che non se n’è mai resa necessaria definirla come una verità di fede. Nel passato questa verità non ha mai suscitato difficoltà, oggi invece crea perplessità e perfino rifiuti. Com’è possibile che la morte cruenta di Gesù sia fonte di un bene per gli uomini? Un male oggettivo e devastante come la morte, ancor più se iniqua, tragica e violenta come quella di Gesù, non può mai produrre un bene in nessun caso.

Perché Cristo è morto sulla croce? Nel primo millennio cristiano si rispondeva affermando che Cristo è morto per liberarci dal peccato e dalla morte. Questo modo particolarmente oneroso è l’alto prezzo pagato da Cristo per la nostra redenzione. Nel secondo millennio cristiano si dava una risposta diversa ma complementare: Cristo è morto per offrirsi al Padre. Così la Redenzione divenne sinonimo di soddisfazione della giustizia divina. Nel corso dei secoli il concetto di soddisfazione si è arricchito del concetto di sostituzione e poi con quello di soddisfazione vicaria. Cristo ha soddisfatto la giustizia divina al posto di noi peccatori. Per la nostra redenzione Cristo sulla croce ha dovuto subire il lacerante abbandono del Padre e sperimentare la dannazione eterna: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27, 46; Mc. 15, 34; Sal. 22, 2); “Dio lo trattò da peccato in nostro favore.” (2 Cor. 5, 21); “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, divenendo lui stesso maledizione per noi” (Gal. 3, 13). Così la Redenzione è connessa alla soddisfazione vicaria della giustizia di Dio, conseguita dalla morte di Gesù che sostituendosi agli uomini ha pagato un caro prezzo caricandosi dei loro peccati: “Dio ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.” (1 Gv. 4, 10)

Nella seconda metà del XX secolo s’è fatto un altro passo in avanti nella comprensione del mistero della Redenzione, soprattutto sulla scorta dell’esegesi biblica e della patristica. “Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rm. 4, 25). La morte di Gesù è la prova e il segno dell’amore di Dio per gli uomini. Il Padre per amore nostro ha compiuto il sacrificio per lui più costoso: “Dio non ha risparmiato suo Figlio, ma lo ha dato per noi tutti” (Rm. 8, 23).

La redenzione dunque è l’opera di amore del Padre, ma nel contempo è opera di amore del Figlio. È l’amore che ha portato Gesù alla morte di croce: “Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per voi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.” (Ef. 5, 2)

La morte, salario (Rom. 6:23) e conseguenza del peccato, è simboleggiata dalla morte in croce di Gesù, che l’ha accettata per annientarla definitivamente con la sua resurrezione. La Redenzione non è comprensibile senza un riferimento alla risurrezione. Questo passaggio dalla morte alla vita Gesù l’ha adempiuto per tutti noi, affinché a nostra volta passiamo da morte a vita.

La Redenzione non è stata una transizione commerciale, un do ut des, ma un gesto di amore verso gli uomini che ha condotto Gesù a dare la sua vita per loro, tanto loro gli stavano a cuore. Il sacrificio di Gesù ha avuto un aspetto espiatorio e uno propiziatorio: “Dio ha prestabilito Gesù a servire come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù” (Rm. 3, 25-26). Quindi in Gesù Cristo il Padre ci ha tutti perdonati. Nel suo disegno di riconciliazione Dio Padre nel suo unigenito Figlio Gesù ci dona quel perdono efficace una volta per tutte.

Dio non ha bisogno di essere propiziato, perché egli è eternamente propizio agli uomini. Per noi Gesù è il segno che Dio perdona i nostri peccati e che inoltre ci offre la possibilità di godere i frutti del suo sacrificio, unendoci al sacrificio di Gesù. Il Dio cristiano non è un Dio irato e vendicativo che sfoga la sua collera sui peccatori. Il Dio cristiano è un Dio di amore, che pur odiando il peccato, offesa recata a lui e il più grande male per l’uomo, ama il peccatore e vuole redimerlo ridandogli la sua grazia.

La Redenzione è un incommensurabile mistero d’amore. Amore del Padre per gli uomini divenuti figli nel suo unigenito Figlio (cf. Rm. 8, 14-17); amore del Figlio per il Padre e per gli uomini peccatori che egli associa nella sua vittoria sul peccato e sulla morte. Amore dello Spirito Santo, solidale con l’opera della Redenzione e che nel mistero dell’incarnazione ci ha dato lo stesso autore della nostra liberazione. Gesù crocifisso da una parte è la gloria del cristiano e dall’altra è l’invito a guardare con fede colui che hanno trafitto (cf. Zc. 12, 10; Gv. 19, 37), ad amarlo e a portare la propria croce dietro a lui.

La Redenzione è e resterà per sempre un mistero che presenta aspetti che sono insondabili e incomprensibili. Per penetrarlo è necessaria la purezza, la semplicità e la povertà dei piccoli e degli emarginati: “Ti Benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rilevate ai piccoli” (Mt 11 ,27).  I Santi sono coloro che più di ogn’altro sono i più capaci e adatti a leggere nel mistero del dolore della croce di Cristo l’amore di Dio per gli uomini, il dono incondizionato di Gesù, la gravità del peccato e la grandezza del dono che Gesù Cristo ha meritato con la sua morte per tutti noi.

Il contributo di Comboni al dibattito teologico

Comboni non è stato un teologo di professione. La sua può definirsi un’ortoprassi della teologia: “A me piace prima fare, e poi dire.”[65]; “Io sono fermo ed irremovibile nel mio principio di fare e poi di parlare: cœpit Jesus facere et docere (…)”[66]

La gnosis o theòria e la praxis nella vita di Comboni sono interdipendenti e complementari. Ciononostante l’aspetto d’una diretta esperienza del mistero della Redenzione, a cui il tema del Sangue è strettamente connesso, sembra aver prevalso su quello d’una personale ed originale elaborazione del dato rivelato. Non dobbiamo perdere di vista un fatto di capitale importanza, dal quale non si può prescindere: Comboni fu missionario.  Questo particolare carisma che è all’origine della sua vocazione e che ha qualificato il suo servizio all’interno della comunità ecclesiale del suo tempo, ha certamente privilegiato la sua riflessione teologica, ma nel contempo gli ha anche impedito di dare un’esposizione sistematica al suo pensiero, mentre ha accentuato l’aspetto della sua personale esperienza del mistero della Redenzione, esperìta con modalità diverse a seconda dell’evoluzione e della maturazione della sua fede. Comboni ha avuto il carisma di vivere il mistero della Redenzione e non tanto quello di offrire un contributo originale nel campo della speculazione e ricerca teologica.

Dunque l’esperienza diretta e la riflessione del tremendum mysterium Salutis di cui il simbolo del sangue è un segno così espressivo ed efficace, hanno contribuito a fare di Comboni l’uomo esperto nell’arte del soffrire, e proprio per questo capace di comunione con i dannati della terra suoi contemporanei: gli Africani.

Il contributo di Comboni alla teologia è d’un ordine che supera la teologia speculativa e accademica, per diventare la scientia cum amore, la scienza sperimentata in una continua contemplazione delle amorosissime piaghe del suo crocifisso Amore: ”Nell’Istituto dei Missionari si inculca profondamente e si cerca d’imprimere e di ben radicare nell’anima dei candidati il vero e preciso carattere del missionario della Nigrizia, il quale deve essere una perpetua vittima di sacrificio destinata a lavorare, sudare, morire senza forse vedere alcun frutto delle sue fatiche. Essi si formeranno in questa disposizione essenzialissima col tenere sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perdere tutto, e morire per Lui, e con Lui.”[67]

Una teologia 'globale'

Il tema del sangue negli Scritti di Comboni può offrire impulsi e ispirazioni che arricchiscono la teologia nella sua attuazione formale. La tematica del Sangue offre la possibilità di mettere in evidenza punti di vista che possono arricchire l’indagine e il discursus  theologicus. Il mistero della sofferenza di Cristo e la sofferenza dell’uomo nei suoi vari aspetti di emarginazione e di sfruttamento, sono i temi che più frequentemente hanno confrontato Comboni nella sua riflessione e nel suo impegno per la missione. Oggigiorno si assiste a un crescente interesse dell’antropologia per il mistero della sofferenza dell’uomo e della teologia per il mistero delle Redenzione.  In Comboni questo interesse non è frutto d’una teoria o il risultato di brillanti intuizioni. La riflessione teologica e la sua esposizione razionale e sistematica del dato rivelato non sono irrilevanti o marginali, tuttavia ci sono delle persone che per un particolare dono della grazia di Dio, raggiungono delle verità che normalmente una riflessione teologica da sola non può dare. Se Comboni parla e vive in modo tanto convincente il mistero della Redenzione, il motivo va ricercato nel dono particolare che Dio gli ha dato. Nella vita del missionario dell’Africa centrale ci sono fatti che sono spiegabili, mentre altri che da soli non sono sufficienti per spiegare la sua lucida visione del mistero della Redenzione universale[68]. Daniele Comboni con la sua visione e interpretazione del mistero del dolore può offrire alla teologia preziosi contributi per la comprensione del mistero che è alla base della nostra fede.

La vita e il pensiero di Mons. Comboni non furono influenzati o determinati da particolari scuole di pensiero filosofico o teologico, ma sono il frutto d’una vocazione e d’un carisma particolari datigli da Dio per un servizio alla comunità ecclesiale del suo tempo. L’impulso positivo che deriverebbe alla teologia dal contributo che Comboni può offrire, consisterebbe in una teologia globale. Vale a dire una teologia che non si limita ad investigare e a riflettere asetticamente o a distanza sui contenuti della fede, ma che si sforza anche di apportare una dimensione profonda ad una fede vissuta e praticata nella quotidiana del credente.

La teologia è caratterizzata da una tensione bipolare. Il primo polo consiste nello sforzo del pensiero, mentre il secondo appartiene all’ambito dell’esistenziale: pratica e testimonianza della fede. Una teologia che si fissa unilateralmente sul ragionare non è in grado di raggiungere e di coinvolgere la dimensione religiosa dei contenuti della fede. Una teologia globale, invece, che porta nel ragionamento e nella ricerca anche l’aspetto esistenziale della fede, avrà la possibilità di penetrare l’intimo delle verità della fede e di lavorare per una migliore comprensione e accettazione del dato rivelato. Questo sarà capace di farlo una teologia globale, una teologia cioè che non ha come fine ultimo l’argomentare o il dibattere, ma che non trascura l’aspetto esistenziale della fede divenendo così un’initiatio fidei in un tempo in cui il credere diventa sempre più difficile e problematico.

Conclusione

Sintonia di valori e di memoria condivisa tra la reliquia mantovana e lo stile apostolico di Comboni? Certamente Comboni si è sentito fortemente interpellato e salutarmente sfidato da quel “sacrum depositum traditionis patrum” e la sua fedeltà alla causa missionaria, disposto a “versare il nostro sangue sino all’ultima stilla.

Comboni è partito da una grata memoria storica della passione di Gesù. Le motivazioni del suo impegno missionario sono radicate nella convinzione sua personale che Cristo è morto anche per gli Africani. La sua devozione al Sangue di Cristo ha una dimensione e connotazione eminentemente missionaria. Anche l’ecclesiologia di Comboni è un’ecclesiologia martiriale. Così la sua pietas mariana che ha questa connotazione peculiare. Nel’800, il secolo dell’Immacolata, Comboni venera Maria come la “Regina Martyrum” alla luce delle sue esperienze missionarie segnate dal sacrificio di tanti suoi compagni missionari morti per l’annuncio del Vangelo. La devozione del Sangue di Cristo ha una valenza specifica di imitazione e di modello da mettere in pratica. Dall’imitazione di Cristo modello di generosità e di donazione scaturisce la sua decisione di essere fedele fino all’effusione del sangue.

PREGHIERA
Ancora una volta io torno a te, Padre.
Ritorno con il cuore pesante.
Mi sono forse allontanato dai tuoi sentieri? Ti ho abbandonato ancora una volta?
O Padre, com'è bello posare sul tuo petto la mia colpa e quella di tutto il tuo popolo:
"Non scacciare il tuo servo con collera". Perdona, fremi ancora nel tuo cuore di Padre.
Guarda il sangue del tuo unigenito Figlio Gesù Cristo, che distrugge le nostre colpe prendendole su di sé.
Così mi sentirò rappacificato con me stesso, deponendo nelle tue braccia le sorti del mondo che attende il tuo perdono e il dono ineguagliabile della tua pace.

AMEN.

Nota: L’articolo è stato pubblicato sulla RIVISTA DI ASCETICA E MISTICA, N. 3, 2012, pp. 665-703.

BIBLIOGRAFIA SCELTA[69]

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- BELLONCI M., Segreti dei Gonzaga, Mondadori, Milano 1971.

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- SESBOÜÉ B., Gesù Cristo l’unico Mediatore. Saggio sulla redenzione e sulla salvezza, 2 voll., San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1991/1994.

- SALVARANI R. ( a cura di), 2.000 anni di devozione nel mantovano, devozione e territorio, Amministrazione Provinciale di Mantova - Casa del Mantegna 1997.

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- MICHELINI G., Il sangue dell’alleanza e la salvezza dei peccatori. Una nuova lettura di Mt. 26-27, Gregorian and Biblical Press, Roma 2010.

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[1] Pignora sanguinis Christi: le reliquie del sangue di Cristo.

[2] Mantova, (con Sabbioneta, la piccola Atene dei Gonzaga), il 7 luglio 2008 è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità. “Libertas, magnificentia et splendor”, questi i princìpi ispiratori del rinascimento italiano.

[3] In netto contrasto con la luminosità della basilica, la cripta è cupa e male areata. Qui furono custoditi i Sacri Vasi, contenenti terriccio del Golgota raggrumato del sangue di Cristo, fino al 9 aprile 1848, quando furono rubati dalla soldataglia austro-ungarica, che aveva trasformato S. Andrea in stalla e caserma. L’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe per riparare l’atto sacrilego della sua marmaglia, commissionò due nuovi vasi all’orafo-cesellatore milanese Giovanni Bellezza, che s’ispirò ai precedenti di Nicolò da Milano su disegno di Benvenuto Cellini (1500 - 1571), che Isabella d’Este Gonzaga aveva regalato alla Cattedrale nel 1528.

[4] Ludovico II Gonzaga (1412-1478), dal 1444 secondo marchese di Mantova, affidò al genio versatile di Leon Battista Alberti (1404-1472) una chiesa “più capace, più eterna, più degna, più lieta.” Demolita una preesistente chiesa gotico-romanica, di cui sopravvive il campanile con le sue 7 campane, i lavori del nuovo edificio, iniziati nel 1472, non erano ancora conclusi dopo 22 anni. I termini del tempio albertiano, che furono più volte alterati nell’arco di quasi 350 anni, ancor oggi sono oggetto d’indagine di studiosi e storici dell’arte.

[5] In questo saggio non vogliamo entrare nelle intricate diatribe sulla storicità e autenticità della reliquia, una tradizione ininterrotta di ben 1200 anni: “Mantua fulsisti pretioso sanguine” (XV sec.). È una memoria della fede dei padri mai persa e mai spenta nell’arco dei secoli. Noi ne prendiamo atto e la rispettiamo. Tuttavia va precisato che queste espressioni di fede non appartengono all’ambito della fede definita, ma a quello della religiosità popolare.

[6] “O felix Mantua, quae Christi victoris insignia suscepisti, cuius et sacri dono cruoris haec quam incolae confrequentant illustratur ecclesia, exulta in Domino et Redemptorem tuum voce, votis, munere deprecare.” (Antifona della Messa  musicata dal Maestro Lucio Campiani (1822-1914), alunno di Giacomo Rossini e di Amilcare Ponchielli).

[7] La maestosa e lieve cupola fu aggiunta solo nel 1732 da Filippo Juvarra (1678-1736), che s’ispirò a quella borrominiana della basilica di Sant'Andrea delle Fratte a Roma.

[8] DANIELE COMBONI, “Gli scritti”, EMI, Bologna 1991.

[9] Tra loro il noto teologo lecchese Franco Giulio Brambilla, che con la sua prolusione “Nel suo Figlio diletto abbiamo la redenzione mediante il suo sangue” (Ef. 1, 7) diede un importante contributo al Convegno.

[10] Nel “Catalogo dei libri della biblioteca Istituto Mazza S. Carlo di Verona” da me inventariato e redatto ai tempi della mia tesi dottorale su Comboni (1986), appare un libro dal seguente titolo: “Zen. Pan. Preziosissimo in S. Andrea di Mantova”. Su questi libri, soprattutto negli anni della prima formazione (1843-1854), si è formato S. Daniele Comboni che deve averlo certamente visto se non letto. C’è una seconda pubblicazione ma di dubbia interpretazione: “Zaccaria Bricito, Preziosissimo.....”.

[11] La croce pettorale di Comboni con relativa scheda didattica (cf. Appendici n. 1 e n. 2).

[12] Il 12 agosto 1877, nella cappella del Collegio di Propaganda Fide, Comboni fu ordinato Vescovo dal Prefetto di Propaganda Fide Card. Alessandro Franchi (1819-1878) assistito dagli arcivescovi Mons. Francesco Folicardi e da Mons. Angelo Bianchi, ex nunzio apostolico in Baviera. Con Comboni fu ordinato anche Mons. Mario Mocenni (1823-1904) nominato Nunzio apostolico in Ecuador e Perù.

[13] D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., n 2300, p. 710

[14] Ib., n. 3398, p. 1019.

[15] Ib., n. 4072, p. 1210.

[16] Ib., n. 1639, p. 491.

[17] Espressione di Mons. Léon Meurin S.J., Vicario Apostolico di Bombay, con la quale nell’800 era conosciuto e reputato San Daniele Comboni (1831-1881).

[18] “Un altro deplorabile delitto abbiamo da compiangere in taluno dei nostri fedeli, ed è la cooperazione diretta o indiretta al disumano commercio degli schiavi, ed alla orribile tratta dei neri. Sono tanto là trascorsi alcuni, da considerare i neri, come una specie diversa di esseri dagli uomini, e media tra i puri animali e l’uomo: pretendono quindi, che i neri per loro condizione debbano essere schiavi, e che debbano servire come un articolo di speculazioni industriali. Perciò con massimo nostro dolore abbiamo appreso che v’ha taluno dei cristiani, i quali con danaro o con armi prestano aiuto a coloro che vanno violentemente a strappare dalle loro famiglie e rapire dai loro paesi queste infelicissime vittime della più spietata barbarie, che sono nostri direttissimi Figli e preziosa nostra eredità.” (D. COMBONI, o. c., n 3349, p. 1005.

[19]Corsa per la spartizione dell’Africa”. Molti paesi europei iniziarono la loro avventura coloniale proprio in questo periodo.

[20] In Archivio storico diocesi di Mantova (A.S.D.Mn.), Fondo curia vescovile (F.C.V.), Serie Miscellanea, b. 1874-1877.

[21] Pio X nel 1914 fissò al 1°luglio la festa del Sangue di Cristo. Pio XI il 15 aprile 1934 la elevò al grado di solennità, mentre Paolo VI nel 1965 la accorpò alla festa liturgica del Corpus Domini, che da allora si celebra in tutta la Chiesa come Solennità del Corpo e Sangue di Cristo.

[22] Famosi sono Lanciano (Chieti) (VIII sec.) e Bolsena (Viterbo) (1263) dove durante la celebrazione della Messa l’ostia si trasformò in vera carne e il vino in sangue vivo. In ambito devozionale ricordiamo le Litanie del sangue di Gesù opera dei Benedettini di Fécamp (12°-13° sec.) approvate dal beato Giovanni XXIII il 24 febbraio 1960 con la Lettera Apostolica Inde a primis del 30 giugno successivo. Lo stesso Papa il 12 ottobre 1960 inserì nelle pie suppliche che si recitano dopo la Benedizione Eucaristica una giaculatoria al sangue di Cristo (la quinta).

[23] Autore di “De pignoribus sanctorum”, dove egli sottolinea la centralità dei sacramenti.

[24] “Praeterea, corpus Christi quod resurrexit, in caelum ascendit. Sed aliquid de sanguine eius in quibusdam ecclesiis reservatur pro reliquiis. Non ergo resurrexit Christi corpus cum integritate omnium suarum partium.” (Sum. Theol., III pars, q. LIV, art. 3)

[25]Videtur quod crux Christi non sit adoranda adoratione latriae. Nullus enim pius filius veneratur contumeliam patris sui, puta flagellum quo flagellatus est, vel lignum in quo erat suspensus, sed magis illud abhorret. Christus autem in ligno crucis est opprobriosissimam mortem passus, secundum illud Sap.II, morte turpissima condemnemus eum. Ergo non debemus crucem venerari, sed magis abhorrere.” (Sum. Theol., III pars, q. XXV, art. 4).

[26] La sua opera più importante è costituita dai Commentari del suo tempo, lavoro di rilevante valore storico -documentale.

[27] Mantovano di origine, maggiordomo del Card. Francesco Gonzaga (1444-1483), 'magister' di casa Gonzaga. In seguito divenne vescovo di Terni.

[28] I Domenicani seguivano gli insegnamenti di S. Tommaso “(…) totus sanguis qui de corpore Christi fluxit, cum ad veritatem humanae naturae pertineat, in Christi corpore resurrexit. Et eadem ratio est de omnibus particulis ad veritatem et integritatem humanae naturae pertinentibus. Sanguis autem ille qui in quibusdam ecclesiis pro reliquiis observatur, non fluxit de latere Christi, sed miraculose dicitur effluxisse de quadam imagine Christi percussa.” (Sum. Theol., III pars, q. XXV, art. 4).

[29] Autore, tra l’altro, di: Difesa dell'antica umana tradizione in Mantova, contro i critici, che contendono a questa città la reliquia del sangue laterale del Redentore, e l'altra di S. Longino ivi decapitato nella contrada di Capadocia, Mantova 1748.

[30] GIANBATTISTA CREMONESI, Frammenti storici del Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo, 4 voll., tip. di Gianbattista Monauni, Trento 1741. Saggio monografico.

[31] PIETRO GAVASSETI DA NOVELLARA, De pretioso Christi sanguine libellus. Il libro fu dedicato dall’autore al protonotario Sigismondo Gonzaga (1469-1525), cardinale diacono (1505), titolare di Santa Maria Nova (12/XII/ 1506).

[32] Alla fine del XV sec., apice della Bittwoche di Weingarten era l’Ascensione, che servì da preparazione al Blutfreitag. Il venerdì dopo l’Ascensione si iniziò ad accompagnare la reliquia del Sangue di Gesù con una processione attraverso le campagne (specie di rogazioni). La prima testimonianza del Blutritt risale al 1529. Essa ebbe le sue origini nelle processioni a piedi che percorrevano la campagna nella Bittwoche o Kreuzwoche e che sopravvisse fino al 1947. L’ultimo giorno della settimana, il Schauerfreitag, si trasformò nel Blutfreitag. Cuore della processione è l’Heilig-Blut-Reiter con la reliquia. Nei secoli il pellegrinaggio-cavalcata divenne interregionale e i cavalieri costituirono la caratteristica della processione. Il numero più elevato di cavalieri fu nel 1753 con 7055 Blutreiter, che nel 1743 si erano costituiti in Confraternita. Oggi i cavalieri che prendono parte alla processione sono circa 3000. Mentre la processione a cavallo è riservata ai soli uomini, la Lichterprozession è per tutti e ha luogo la sera della solennità dell’Ascensione.

[33]L'epiteto Magno gli fu dato da Eginardo, suo biografo, che intitolò la sua opera Vita et gesta Karoli Magni Imperatoris.

[34] Dopo la 1° guerra mondiale (1914-18) ci fu una rifondazione del monastero. Nel 1922 i Benedettini tedeschi espulsi dal monastero inglese di Erdington, guidati dal loro abate Ansgar Höckelmann, si stabilirono nel monastero di Weingarten. La chiesa conventuale, dedicata alla SS.ma Madre di Dio e ai Santi Martino e Osvaldo, nel 1956 fu elevata a basilica minor da Pio XII. L’Abbazia di Weingarten è stata chiusa nel 2010 e i pochi monaci rimasti, appartenenti alla congregazione benedettina di Beuron, sono stati trasferiti altrove. Attualmente gli edifici sono usati dalla Diocesi di Rottenburg-Stuttgart. La città di Beuron si trova nell'alta valle del Danubio, nell'attuale stato del Baden-Württemberg.

[35] È un antico insediamento degli Alamanni, il cui nome deriva dal monastero benedettino fondato nel 1056 dai Guelfi, famoso per il Blutfreitag, ostensione della reliquia del Sacro Sangue il giorno dopo l’Ascensione. Weingarten è situata nel cuore della Svevia Superiore, tra il lago di Costanza e il Danubio. Il monastero domina la valle dello Schussen; ai suoi piedi sorge Altdorf, città libera dell’impero e sede del capo del governatorato svevo. Oggi è una tranquilla cittadina di 25.000 abitanti, in diocesi di Rottenburg-Stuttgart e nel Landkreis di Ravensburg, nel Baden-Württemberg.

[36] Questo santuario raggiunse una fama così grande che il Principe-Vescovo di Costanza Mons. Jakob Fugger (1604-1626), per amore al sangue di Cristo, rinunciò alla sua dignità e si fece monaco nel monastero di Weingarten.

[37] Frate francescano, autore di “La Istoria Ecclesiastica di Mantova”, 1612.

[38] Fu una delle donne più influenti del Rinascimento e del mondo culturale italiano del suo tempo. Sotto gli auspici di Isabella la corte di Mantova divenne una delle più acculturate d'Europa. Chiamò a lavorare a Mantova Giulio Romano, Raffaello Sanzio, Andrea Mantegna. Scrittori come Ludovico Ariosto e compositori come Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara. Lei stessa era un’esperta musicista. Dopo la morte del marito (1519), Isabella governò Mantova come reggente del figlio Federico, giocando un ruolo rilevante nella politica italiana e rafforzando il prestigio del marchesato mantovano, che nel 1530 fu elevato a Ducato dall’imperatore Carlo V.

[39] A. FURIOLI, Un giovane anticonformista: in Rivista di ascetica e mistica, 2 (2009), 443-466; ID., Risonanze aloisiane nella storia della spiritualità, ibidem, 1 (2009), 119-138.

[40] Re Luigi IX perseguì il preciso disegno di proiettare la monarchia capetingia e il regno di Francia con maggiore dinamismo sulla scena europea ed elevare Parigi al rango delle grandi capitali europee, acquisendo la corona di spine di Cristo, venduta nel 1239 dall’imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II alla repubblica di Venezia.

[41] Nel “Catalogo dei libri della biblioteca Istituto Mazza S. Carlo di Verona” già citato, appaiono varie opere ascetiche sulla passione di Cristo. Ce n’è una in particolare di S. Vincenzo Maria Strambi: “Giugno consacrato al preziosissimo sangue”. Il vescovo di Macerata e Tolentino, essendosi rifiutato di giurare fedeltà a Napoleone, nel 1808 fu esiliato prima a Novara e poi a Milano dove rimase fino al 1814. Qui pubblicò opere ascetiche che circolarono anche a Verona.

[42] Cf. D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., Indice analitico-tematico, pp. 2095-2207.

[43] Ib., n. 6664, pp. 1889-1890.

[44] Omelia di Mons. D. Comboni all’ingresso in Khartum come Provicario Apostolico dell’Africa centrale l’11 maggio 1873, in Gli scritti, o. c., n. 3159, p. 955.

[45] D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., n 2561, p. 796.

[46] Ib., n 43, p. 16.

[47] Espressione dello scrittore francese Ernest Renan (1823-1892).

[48] D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., n. 2561, p. 796.

[49] Dal Te Deum.

[50] D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., n. 5229, p. 1503; cf. anche n. 4294, p. 1274.

[51] Ib., n. 3477, p. 1042 cf. anche n. 2753, p. 844.

[52] Ib., n. 809, p. 235 ; cf. anche n. 4294, p. 1274; n. 5256, p. 1508; n. 5296, p. 1519.

[53] “Amor aut similes invenit aut facit.” (anche se non alla lettera cf. S. Agostino, De Trinitate, 9,6,11); S. Alfonso Maria de Liguori, Le glorie di Maria, 2° vol, p. 52 l’attribuisce ad Aristotele senza indicarne l’opera.

[54] Omelia di Mons. D. Comboni all’ingresso in Khartum come Provicario Apostolico dell’Africa centrale l’11 maggio 1873, in Gli scritti, o. c., pp. 954-955.

[55] Ib., n. 5822, p. 1631.

[56] Ib., n. 7053, p. 2006.

[57] Plurale dall’ebraico 'anaw' che significa 'povero, umile, afflitto.' Il Sal. 37, 11 così recita: "i poveri che cercano il Signore per la liberazione."

[58] D. COMBONI, Gli Scritti, o. c., n 3, p. 6.

[59] Prefazio pasquale 1.

[60] D. COMBONI, Gli scritti, o. c., n. 594, p. 158.

[61] Ib., n. 2308, p. 712.

[62] Ib., p. 512 (il corsivo è nel testo)

[63] Ib., p. 521 (il corsivo è di Comboni).

[64] La corrispondenza di S. Francesco Saverio ne è un chiaro esempio (cf. Lettera del 20 settembre 1542).

[65] D. COMBONI, Gli scritti, o. c., n. 7213, p. 2053.

[66] Ibid., n, 6449, p. 1823.

[67] Regole del’Istituto delle Missioni per la Nigrizia, 1871, cap. X, nn. 2721-2722, p. 835. Santa Teresa di Gesù considera la contemplazione di Gesù Crocifisso come la porta per la quale si raggiunge il mistero dell’“altissima maestà” di Dio (cf. Vita, 22, 6)

[68] A. FURIOLI, Comboni ieri e oggi, San Paolo, Milano 2004, 27-42.

[69] Si è seguito l’ordine cronologico di apparizione delle pubblicazioni.