Venerdì 28 giugno 2019
La festa del Sacro Cuore è per noi un’occasione per riflettere sul suo significato, alla luce della qualità del cuore missionario di san D. Comboni. Il Cuore di Gesù, infatti, ha trovato una fedele re-incarnazione, per così dire, in quello del Comboni nel contesto missionario e della Spiritualità del S. Cuore del diciannovesimo secolo. Quello che si dice di S. Paolo: Cor Christi cor Pauli, si può dirlo anche di san Daniele Comboni.

Riparatori con Cristo sulle orme di San Daniele Comboni
P. Carmelo Casile mccj

Come l’argilla nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani (Ger. 18,6)

1. Vasi infranti riportati alla bottega del vasaio

La festa del Sacro Cuore è per noi un’occasione per riflettere sul suo significato, alla luce della qualità del cuore missionario di san D. Comboni. Il Cuore di Gesù, infatti, ha trovato una fedele re-incarnazione, per così dire, in quello del Comboni nel contesto missionario e della Spiritualità del S. Cuore del diciannovesimo secolo. Quello che si dice di S. Paolo: Cor Christi cor Pauli, si può dirlo anche di san Daniele Comboni.

Questa riflessione ci porterà, per tanto, a chiederci che cosa vuol dire per noi oggi avere un cuore missionario alla luce del Mistero del Cuore di Gesù e di come l’ha vissuto il suo discepolo Daniele Comboni.

Ci accostiamo al Cuore di Gesù, fissando l’attenzione sulla dimensione fondamentale di questo Mistero, che è la riparazione e ci chiediamo come l’ha vissuta san Daniele Comboni.

La risposta possiamo trovarla, facendo memoria della Storia della salvezza, che è la storia dell’amore che Dio vuole riversare sul mondo, sull’umanità ferita e oppressa dal peccato per redimerla e ridonarle vita e libertà. Questa storia ha un volto e un nome: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, suo Cristo, nostro Salvatore, e raggiunge il suo culmine nel Mistero del Cuore trafitto di questo Figlio sulla Croce.

In questa storia dell’Amore Divino è fondamentale la riparazione, che riguarda lo stato di decadenza in cui il peccato ha posto l’umanità, per cui san Paolo constata che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rom 3,25; cfr. 5,12). L’uomo racchiuso nella tomba del suo peccato, morto all’Amore, ha bisogno di essere risvegliato e rimesso in piedi. Qui comincia l’azione riparatrice di Dio.

a)  Dalla creazione, che era “ cosa molto buona”, alla sua riparazione

Secondo i primi capitoli della Genesi (1-3 => Ef 1, 3-14), la storia della salvezza comincia con la creazione, che è il risultato dell’iniziativa gratuita ed efficace di Dio-Amore, da cui si origina tutto quello che esiste, separando e distinguendo un caos informe attraverso la Parola e lo Spirito. La creazione nasce così molto buona e bella perché è di Dio, in perfetta armonia con il disegno del suo Creatore.

L’apparire delle varie opere della creazione è scandito dall’espressione: “Dio fece… e vide che era cosa buona”. Nel sesto giorno vengono introdotti nel mondo gli animali superiori e, infine ’uomo. Alla fine, “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona” (1,31).

Ma, quando arriva alla creazione dell’uomo, Dio procede manifestando un disegno peculiare su di lui, dicendo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (1,26).

Come buon vasaio, forma l’uomo dalla terra, con le sue mani, e soffia nelle sue narici un alito di vita (Gn 2,7), concentrando in quest’ultima delle sue opere che è la primizia delle sue creature (cfr. Gc 1,18)[1] il massimo sforzo creativo, messo in risalto dalla triplice ripetizione del verbo creò: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»(1,27).

L’uomo, apparso sulla scena del mondo, si trova in rapporto ideale con Dio, in una situazione di creatura chiamata e posta da Dio nell’esistenza e nella possibilità concreta di divenire ciò che deve essere secondo il disegno di Dio stesso: l’uomo e sua moglie erano nudi ma non provavano vergogna (2,25), non si sentivano a disagio nei confronti di Dio, al punto di doversi coprire e nascondere (3,7-8): vivevano in perfetta armonia con Dio e con se stessi.

In secondo luogo, anche il rapporto tra l’uomo e il mondo risulta perfetto: la terra è un giardino che l’uomo deve coltivare e custodire (2,15).

Infine il rapporto tra uomo e uomo non potrà non ispirarsi all’entusiastica constatazione di Adamo alla vista di Eva: questa è ossa delle mie ossa e carne della mia carne (2,23), così che vivevano in perfetta armonia con se stessi e con gli altri[2].

Al principio della creazione, per tanto, tutto era buono e bello; l’uomo viveva in piena armonia con il suo Creatore, con se stesso, con gli altri e con il creato. Non vi era niente da riparare, finché il peccato (la disobbedienza) non entrò nel mondo attraverso la porta della libertà umana mal usata, che fece aprire gli occhi a Adamo ed a Eva. Si accorsero così di essere nudi, vulnerabili (2, 16-17; 3,7) e si trovarono fuori del giardino alle prese con una vita tribolata, mentre il giardino dell’Eden era rimasto alle loro spalle custodito dalla spada folgorante dei cherubini (Gn 3,22-24: 24Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita).

Ma Dio non si lascia vincere dalla vulnerabilità umana, dalla sua pretesa di erigersi ad arbitro del suo destino, prescindendo dall’obbedienza al piano del suo Creatore e Padre. Nonostante che l’uomo fa saltare il piano di amore di Dio (Gn 3,1-24), Egli “vuole che tutti gli uomini si salvino” (1Tm. 2, 4), costi quel che costi.

Per realizzare questa volontà, Dio Creatore, amante della sua creatura, da esperto vasaio, fa ricorso alla Riparazione. Così la “bottega” della creazione della Comunità Trinitaria (cfr. Ef 1,3-8), si trasforma in bottega di riparazione e nasce il progetto di riparazione che viene affidato al Figlio diletto del Padre,”7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”.

Arriva così in mezzo a noi dal seno della Trinità il Cuore di Cristo, Immagine del Padre e in cui il Padre ripone tutta la sua compiacenza; “Volto umano” dell’Amore trinitario, amore puro, pieno, comunione perfetta; Cuore vergine-povero-obbediente, santificatore e redentore dell’umanità, in cui rifulge la sua donazione incondizionata al Padre, l’universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà degli uomini; Cuore-tipo nell’opera divina per la riparazione del mondo. È da questo Cuore tipo che parte l’azione della riparazione del cuore umano che dopo il peccato, vivendo riferito a se stesso, viene a trovarsi in una contraddizione radicale con l’amore “fontale” da cui proviene e con quell’amore universale per il quale era stato creato.

Gesù, infatti, dal suo Cuore Trafitto effonde senza misura il suo Spirito, perché ripari le crepe del cuore umano deformato dal peccato, conformandolo alla vita del suo Cuore, e così il cuore umano sia riportato finalmente alla sua originaria bellezza e bontà.

In quest’ottica il profeta Geremia invitava Israele nel suo travagliato cammino di Alleanza con Dio a lasciarsi modellare da Lui come argilla nelle mani del vasaio: «1Questa parola fu rivolta dal Signore a Geremia: 2“Àlzati e scendi nella bottega del vasaio; là ti farò udire la mia parola”. 3Scesi nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. 4Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto. 5Allora mi fu rivolta la parola del Signore in questi termini: 6“Forse non potrei agire con voi, casa d’Israele, come questo vasaio? Oracolo del Signore. Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele» (18,1-6).

Il Salmo 146/145 al versetto 3 constata che l’uomo «esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni». Ma il profeta Geremia, in questo oracolo diretto al popolo di Israele, ci ricorda il segreto del successo nella nostra vita, che consiste nella relazione artistica tra ogni creatura umana e il suo Creatore, che è indicata in modo molto sottile con l’immagine della “bottega del vasaio”.

Le parole di Geremia ci suggeriscono serenità, giacché sembra che da parte del Signore – paziente vasaio delle nostre vite – non c’è nessuno rimprovero contro il vaso non riuscito bene o danneggiato, ma un senso di tranquilla accoglienza della realtà delle cose, espressa con queste parole stupende: – se si guastava il vaso … come capita con la creta in mano al vasaio, riprovava di nuovo...

Non si tratta di cambiare natura – la creta rimane creta – ma di estrarre dalla massa umana che noi siamo, un nuovo salto in avanti, un nuovo impulso in avanti.

In questa ottica è interessante e utile fare una ri-lettura delle nostre alleanze e delle sue rotture, dei combattimenti e delle ferite, per discernere in esse la chiamata a progredire nella vita, nella convinzione che ogni situazione è opportunità di crescita, che «non sono i fatti a contare nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa».

Il Signore in qualità di vasaio sembra animato da una pazienza che non è rassegnazione, ma chiara coscienza che non sempre le cose riescono al primo intento, così che in modo naturale “riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto”.

In questo modo di procedere, traspare la certezza che si può sempre cominciare di nuovo, che si può tentare di fare un vaso nuovo con la stessa creta.

Per ottenere ciò, è necessario assumere la “psicologia” dell’argilla, che consiste nell’abbandonarsi nelle mani del vasaio, cioè all’azione del vasaio in essa.

Mi abbandono nelle mani di Dio anzitutto prendendo le distanze da tutto ciò che mi ripiega su me stesso e offrendo a Lui tutta la mia attenzione, aprendo il cuore all’azione dello suo Spirito, vero grande artista delle relazioni. Sarà Lui a guidarmi nel camino dell’abbandono nelle mani di Dio, così che io impari e viva nella giusta relazione con Dio e con me stesso, con gli altri e con il creato.

In concomitanza con l’oracolo di Geremia, esiste un detto ebraico che afferma: “Dio agisce in modo diverso dagli uomini. Per gli uomini, per noi è una sventura lavorare con dei vasi rotti, è una sciagura doversi servire di anfore rotte, ma per Dio non è così, noi siamo i vasi rotti di Dio”.

Quando parliamo di Riparazione pensiamo subito alla compensazione offerta a qualcuno (a Dio, all’autorità, a una persona amata…) per un torto commesso a suo carico.

Tuttavia, nella Storia della Salvezza la Riparazione si riferisce anzitutto all’agire di Dio verso l’umanità sfiancata dalla debolezza della sua malattia mortale, dovuta alla pretesa di bastare a se stessa. La Riparazione, infatti, è l’azione salvifica di Dio che accompagna il cammino dell’umanità fin dai tempi antichi in diversi modi (cfr. Eb 1,1), e che nella pienezza dei tempi è venuto in questo mondo in Cristo Gesù (cfr. Gal 4,4) in cerca delle anfore spezzate, dei cuori infranti, perché sa come ripararli e come servirsene; anzi, pare che le anfore spezzate siano poi quelle che gli sono servite meglio fra le mani: pensiamo ai discepoli che al momento della Passione fuggirono tutti, a Pietro che lo ha tradito o a Paolo o ha perseguitato… Noi siamo i vasi rotti di Dio, ma Lui sa come ripararli e servirsene al meglio.

Dio non ci butta via mai, siamo sempre buoni per la sua arte di vasaio, ogni vaso rotto che è ciascuno di noi, va bene per le sue mani. Questa nostra argilla va ancora bene per Lui che si è fatto creta in Gesù perché la nostra creta si faccia spirito.

Dio ripara le nostre ferite e le nostre rotture con oro. È l’oro della sua Grazia, del suo Amore-Misericordia, che fluisce dalle cicatrici ben visibili del corpo di Gesù risorto. Gesù e le sue cicatrici sono un tutt’uno e sono la dimostrazione concreta dell’Amore-Misericordia di Dio per noi che si manifesta in Gesù, il Crocifisso-Risorto, il quale soffia il suo Spirito su noi, argilla crepata e ribelle (Gv 19, 22-23).

“Questo soffio richiama il momento della creazione, quando “il Signore Dio formò l’uomo dalla polvere della terra e respirò dentro le sue narici il respiro della vita” (Gn 2,7). Il soffio di Gesù crea l’uomo nuovo, l’uomo che non è più vittima delle forze che lo portano al male, ma è animato da un’energia nuova che lo spinge al bene.
Dove giunge questo Spirito il male è vinto, il peccato è perdonato – cancellato, distrutto – e nasce l’uomo nuovo modellato sulla persona di Cristo” (F. Armellini).

A questo punto ci può essere di aiuto la rilettura dell’episodio della risurrezione del figlio della Sunammita per opera del profeta Eliseo:

«32Eliseo entrò in casa. Il ragazzo era morto, steso sul letto. 33Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. 34Quindi salì, si distese sul ragazzo; pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani nelle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del bambino riprese calore. 35Quindi si alzò e girò qua e là per la casa; tornò a curvarsi su di lui; il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi».

Il modo di agire del profeta è molto suggestivo. Eliseo, infatti, richiama alla vita il figlio della Sunammita stendendosi sul corpo del ragazzo senza vita e facendo combaciare la sua bocca, i suoi occhi e le sue con la bocca, gli occhi e le mani del ragazzo. Così in un primo momento il ragazzo prende calore e la seconda volta “il ragazzo starnutì sette volte”. Gli starnuti ci ricordano che Dio al principio infuse lo spirito di vita nelle narici di Adamo (Gn 2,7) e che attraverso le narici l’uomo respira (Is 2,22). Qui, per tanto, lo starnuto rappresenta il ritorno alla vita e alla vita piena, perché gli starnuti sono sette.

Leggendo questo episodio alla luce dell’agire riparatore di Dio a favore dell’umanità morta, nel modo di agire di Eliseo possiamo vedere Cristo risorto che entra nella tomba della nostra morte con le sue cicatrici gloriose e le fa combaciare con le nostre cicatrici mortali, alita in esse il suo Spirito di Vita, e così ci richiama alla vita piena, restituendoci all’abbraccio di Dio-Padre, dei fratelli e della creazione intera (cfr. Rm 8,19-25).

b) Riparati con l’oro dell’Amore divino, che sgorga dal Cuore Trafitto di Gesù

Per approfondire il modo di agire di Dio-vasaio nel riparare l’uomo rotto nel suo rapporto che lo lega a Dio stesso, al fratello e al mondo, ci può illuminare l’antica tecnica giapponese del Kintsugi, che si ispira alla filosofia, secondo la quale un oggetto si può rompere ma non per questo perde il suo valore e la sua bellezza.

La tecnica del Kintsugi letteralmente significa “riparare con l’oro” e consiste appunto nel riparare con l’oro degli oggetti in ceramica che si sono rotti, dando ai frammenti così riuniti un aspetto nuovo attraverso le preziose cicatrici. Ogni pezzo riparato è unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi e delle irregolari decorazioni che si formano con il metallo. Dalla rottura della ceramica si dà, attraverso le preziose linee, nuova vita all’oggetto che diventa ancora più pregiato grazie alle sue cicatrici.

Per noi occidentali, soprattutto oggi abituati all’usa e getta, si tratta di una pratica di cui facciamo fatica a coglierne l’utilità e il significato. Se ci capita di dover riparare una ceramica, cerchiamo di farlo in modo tale che gli aggiustamenti non siano visibili. Ci sentiamo a disaggio a dover esporre nei nostri ambienti un oggetto rotto e poi riparato.

Nella cultura giapponese, invece, nessun oggetto deve necessariamente essere perfetto: ognuno, tramite il Kintsugi, racconta la sua storia.

Così, trasportato sul piano esistenziale, il Kintsugi spiega che da una ferita può nascere una forma e una storia ancora più preziosa sia esteticamente che interiormente, che dal dolore e dalle cicatrici nasce una forma di bellezza ancora più potente. Si può crescere dall’esperienza dolorosa e valorizzarla, usando un metallo prezioso come l’oro per riparare le crepe, che quindi non vengono cancellate, ma evidenziate per renderle pù preziose.

La differenza è tutta qui: invece di tenere nascosta l’integrità perduta, si esalta la storia della ricomposizione! La filosofia della tecnica del Kintsugi sottolinea il fatto che la Vita è un cammino costante tra integrità e rottura, caduta e ripartenza, perché è ri-composizione costante.

In questa tensione tra integrità e rottura, noi facciamo fatica a fare pace con le nostre rotture. “Spaccatura, frattura, ferita” sono percepite come l’effetto visivo di una colpa, di un fallimento. Se c’è una rottura, è colpa di qualcuno.

Tutt’al più apprezziamo la capacità di una persona di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, assorbendo il colpo senza rompersi e rialzandosi più forte di prima, o superandosi con l’acquisizione di maggiore esperienza ed autorevolezza nella vita.

Ma Dio, il divino vasaio, ci prende tra le sue mani con la infinita capacità creativa del suo amore-misericordia, che raggiunge il vertice della sua rivelazione nel Mistero della Pasqua, che è il dono di grazia e di salvezza che dal Cuore di Cristo si riversa sull’umanità. Dal Cuore spezzato, dal Cuore di Cristo trafitto dalla lancia del soldato, sgorga l’essenza della vita di Dio, che è il suo amore e il suo sangue, cioè la sua stessa vita per la vita del mondo, per la ri-composizione delle vite spezzate, dei cuori rotti degli uomini tutti.

Gesù, il Figlio di Dio dal quale tutto è stato creato, si fa crocifiggere e si fa trovare sull’albero della Croce per attrarre tutti a sé (cfr. Gv 12,32). Egli, l’unico senza peccato, ha subito insulti, percosse, derisione e infine il supplizio della croce per condividere totalmente la condizione umana. Per tutti Egli chiede perdono.

Inteso in questi termini, l’albero della croce è anche l’albero eretto dal nostro peccato, l’albero quindi della nostra morte, perché lì di sicuro noi ci andiamo.

Abbiamo qui la più forte manifestazione del Mistero di Dio-Amore, che attraverso il Cuore squarciato di Cristo si rovescia sull’umanità morta a questo Amore, rigenerandola. Il Signore Dio, Gesù il nostro Salvatore, non si fa trovare là dove finalmente siamo diventati bravi, buoni, santi. Si fa trovare proprio nel più oscuro della nostra vicenda, nella morte del nostro peccato, lì ci raggiunge. Quando ci scopriamo peccatori e lo riconosciamo e finalmente apriamo questa realtà ai Colui che salva, le nostre ossa inaridite rivivono (cfr. Ez 37,1-14), perché proprio lì egli ci raggiunge e mette nella tomba della nostra morte la vita nuova della sua risurrezione.

Giovanni ha visto il colpo di lancia che ha squarciato il Cuore di Cristo; è un avvenimento biblico, a cui egli da molta importanza: “questo avvenne perché si adempisse la parola del Profeta, e chi ha visto vi da testimonianza, perché anche voi crediate” (Gv 19,35).

Testimonianza di che cosa? In che cosa dobbiamo credere, qual è l’oggetto di questa fede?

Possiamo ricevere una risposta ricorrendo al parallelo veterotestamentario di questo brano, che è ancora Gen 3, 22-24: dopo il peccato l’uomo non può più entrare nel giardino della vita del paradiso. E c’è anche quel grande simbolo dei serafini alla porta del paradiso con la spada fiammeggiante che impediscono di potervi entrare; non era più possibile avere accesso all’albero della vita. E qui finalmente c’è una spada che apre, la spada del soldato che apre il costato di Cristo; riapre la porta del paradiso, che è il Cuore di Gesù Salvatore (Gv 10,7.9). Adesso la porta è aperta, e noi possiamo entrare proprio lì nel Cuore di Cristo, dove possiamo seppellire la nostra vita rotta, i pezzi doloranti e guasti della nostra vita, perché riprendano nuova vita a contatto di quella vena eterna d’oro che è l’amore misericordioso del Padre, che fa nuove tutte le cose (cfr. Is 43,18-19; Ap 21, 5).

Pietro, segnato dal ricordo e dal dolore della sua triplice negazione del Maestro, entrò in questo Cuore, consegnandosi nelle mani della Divina Misericordia, e la sua triplice negazione fu trasformata nella triplice affermazione del suo amore (cfr. Gv 21,15-19.22). Entrare nel Cuore trafitto di Cristo significa che tutta la nostra storia entra in questa officina della Divina Misericordia, per essere trasfigurata nella gloria del Crocifisso-Risorto, perché ciò che sta putrefacendosi nel nostro cuore sia trasformato in un sì che sia fedele al sì fedele dell’amore di Dio per l’umanità bisognosa di ritrovare la sua integrità originale.

[1] Gc 1,18: 18Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.

[2] Cfr. Antonio Gentili, …E Dio disse, Ed. Ancora 1980

[3] A don Pietro Grana, 6. 4. 1859

[4] A don F. Briccolo da Parigi, 15 gennaio 1965

[5] Cfr. Joaquim José Valente da Cruz mccj, Verso una «perfetta armonia» come sinergia di «elementi eterogenei». Percorsi di “pericoresi ecclesiale” nel Piano di san Daniele Comboni (file ricevuto direttamente dall’autore).

«All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli:
“Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (At 2,37).

2. Collaboratori di Cristo nell’arte della riparazione

c) Essere riparatori, una risposta di grato amore all’Amore che ci ha riparati

La festa del Sacro Cuore è la celebrazione dell’evento centrale della Storia della nostra Salvezza, nel quale riconosciamo il grande dono dell’amore che Dio ci ha mostrato nel Suo Figlio Crocifisso e Risorto, apriamo gli occhi del cuore e riconosciamo la nostra dignità, cioè quanto siamo costati a Dio e quanto siamo amati da Lui!

Il segno, per tanto, del risveglio del cuore e dell’accoglienza di questo amore è la “trafittura del cuore” (At 2,37), cioè l’intima coscienza della salvezza ottenuta “per me” dalla morte del Signore che “io stesso” ho ucciso con il mio peccato.

Quando un uomo è raggiunto da questa trafittura, “non può tacere ciò che ha visto ed ascoltato”. Pietro e Giovanni sono così segnati, stigmatizzati, cicatrizzati dall’amore del Crocifisso-Risorto che non riescono a tenere chiusa la bocca davanti al sinedrio. Parlano con franchezza lasciando i capi del popolo senza parole e stupiti (cfr At 4,20).

Chi è segnato dalle cicatrici pasquali dell’Amore-Misericordia del Crocifisso-Risorto provoca negli altri queste stesse cicatrici: Gesù nei discepoli; i discepoli, con il dono dello Spirito Santo, nelle altre persone: «All’udire queste cose (gli Israeliti) si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (At 2,37). Si attiva così l’apostolato della riparazione, perché sia piena la gioia dell’apostolo e di colui che viene coinvolto in questo abbraccio dell’Amore Crocifisso che fa nuovi i cuori prigionieri della propria autosufficienza (cfr. Gv 1,1-4).

Da qui nasce la spinta alla riparazione del Cuore di Gesù, la quale evidenzia prima di tutto quello che Dio fa per noi attraverso il suo Cristo, e solo in conseguenza quello che noi sentiamo di dover fare per lui; è una riparazione che gira intorno ai termini, amore, misericordia, perdono, gratitudine, fiducia, abbandono, sicurezza nella redenzione di Gesù-amore e quindi conversione. In essa, per tanto è presente un unico movimento di amore: l’amore gratuito di Gesù per noi, da cui nasce il nostro amore di gratitudine a Lui e il nostro lasciarci coinvolgere nel suo amore per gli altri, in modo che tutti possano sentirsi “trafiggere il cuore” da questo amore e rispondano a Gesù-amore con l’amore e quindi con la conversione.

Non si tratta, per tanto, di riparare il Cuore di Gesù come se fosse il caso di dargli una specie di “contentino” o risarcimento, di avere un senso tragico della vita dominato dal senso di colpa, né di cercare la sofferenza per se stessa, prendendo un’aria di vittimismo. La sofferenza dell’apostolo è una logica conseguenza dell’amore che lo spinge alla donazione; amore e donazione che nell’apostolo tendono ad essere totali. Gesù amò e si donò così (Gv 3,16; 13,1). La sua vita è un dono d’amore che sfociò nell’olocausto (Lc 22, 12-20), che trascina il cuore dell’apostolo, facendolo esclamare: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Di conseguenza: io lo amo e mi dono ai fratelli. È il suo amore che mi spinge, per fare della mia vita un sacrificio (cf Fil 2, 17; 2Tim 4, 6).

Per tanto, riparare è un’azione positiva di ricostruzione di ciò che rimase danneggiato o distrutto nel nostro essere immagine e somiglianza di Dio; è effettuare il restauro di questa immagine, aprendo il nostro cuore al Cuore di Gesù, il Crocifisso-Risorto, che alita su di noi il suo Spirito, datore di vita.

In fondo, la riparazione è una risposta all’«ho sete » del Cuore Trafitto del Buon Pastore, che è venuto perché tutti abbiamo vita e l’abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10).

Perciò, c’è bisogno di superare certe connotazioni negative come:

– il dolorismo

Cercare il sacrificio per il sacrificio è masochismo. Il nostro Dio dice chiaramente: “voglio la misericordia e non i sacrifici” (Mt 12, 7). La Buona Notizia di Gesù è di beatitudine, qual formula esigente d’essere felice. Il cristianesimo non è una religione di rassegnati, ma di felici conquistatori del Regno dei cieli, anche se attraverso il cammino della croce.

– il rigorismo

Si tratta della difficoltà nel convivere con un Dio “ricco in misericordia”. Ogni esigenza che non vada d’accordo con “il grande amore con il quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati,” (Ef 2,4), con una liberazione profonda, non viene da Dio. In effetti, il giogo di Gesù è dolce e il suo carico leggero (Mt 11, 30).

– il pessimismo e il vittimismo

Dio ama chi dà con gioia (2Cor 9, 7). Non si tratta di un Dio di sacrifici e olocausti. Come ricorda Gesù: “ Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17).

La vera riparazione cristiana è ottimista, suscitatrice di speranza, costruttiva.

Coltivare lo spirito riparatore e praticare la riparazione è assumere la missione di infermiere o medico per curare le infermità del peccato, che produce effetti individuali e sociali.

Riparare è amare. «È l’amore “sino alla fine” (Gv 13, 1) che conferisce al sacrificio di Cristo valore di redenzione e di riparazione… Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell’offerta della sua vita» (CCC. 616).

Riparare, per tanto, è collaborare con Gesù perché dove c’è il male regni il bene (Rm 12, 21), dove abbonda il peccato sovrabbondi la grazia (Rm 5, 20).

In questo contesto di riparazione nasce la preghiera attribuita a San Francesco:

O Signore, fa’ di me uno strumento della tua Pace:
Dove è odio, fa’ ch’io porti l’Amore.
Dove è offesa, ch’io porti il Perdono.
Dove è discordia, ch’io porti l’Unione.
Dove è dubbio, ch’io porti la Fede.
Dove è errore, ch’io porti la Verità.
Dove è disperazione, ch’io porti la Speranza.
Dove è tristezza, ch’io porti la Gioia.
Dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce…

Riparare è unirci a Gesù Cristo, all’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. È dire con Paolo: Completo ciò che manca alla riparazione di Cristo nel suo corpo, che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24).

d) Comboni impara e avanza nell’arte della riparazione contemplando quel Cuore che ha tanto amato gli uomini…

Il simbolo del Cuore di Gesù si imprime nello sguardo e nello spirito di Comboni come icona significativa di riferimento nel suo cammino di discepolo missionario, improntato allo spirito di riparazione, durante gli anni della sua formazione giovanile nell’Istituto Mazza, dove è accolto come allievo nel 1843. In questi anni Comboni impara e avanza nell’arte della riparazione contemplando quel Cuore che ha tanto amato gli uomini…

Il centro spirituale di questo Istituto era impiantato nella chiesa di san Carlo, dove Comboni aveva sempre davanti agli occhi lo splendente trittico dell’ «Altare delle devozioni», che aveva un chiaro intento didattico per i giovani allievi.

Nella pala centrale campeggia la persona del Cristo con un cuore splendente, il quale occupa la parte centrale dell’intero trittico ed è il protagonista.. Nella lunetta superiore una nave ormai distante dalla riva, veleggia su un mare increspato protetta da due angeli con Croce e Calice, per significare che ogni missione nasce dal sacrificio ed è comunione e comunicazione di un evento salvifico. La scritta a piè di quadro «In Te Domine speravi!», indica la forza da cui nasce ogni avventura apostolica e ne esprime poi il senso compiuto e l’approdo finale. Da questo insieme di immagini che cadeva costantemente sotto lo sguardo degli allievi del collegio Mazza, il giovane Daniele riceveva ispirazione e motivazioni per il suo orientamento vocazionale.

Il tema del Cuore di Gesù è collegato con le rivelazioni fatte dal Divin Cuore a santa Margherita Maria Alacoque a Paray-le-Monial (1647-1690).

Nella devozione al Cuore di Gesù secondo le rivelazioni ricevute da santa Margherita Maria Alacoque, in primo luogo c’è il Cuore, che appare come sede dell’amore appassionato di Gesù e tutto si concentra nel rivelarci il suo amore verso gli uomini e spingerci a rispondere ad esso onorandolo sotto il simbolo del Cuore: «Egli mi ha fatto vedere quale ardente desiderio avesse di essere amato dagli uomini. Egli aveva espresso il suo volere di svelare agli uomini il suo Cuore con tutti i tesori di amore, di misericordia, di grazia, di salute che a Lui erano noti… Tale devozione è come un ultimo sforzo del suo amore inteso a favorire gli uomini di questi ultimi secoli di una tale redenzione amorosa, per sottometterli alla dolce libertà del Regno del suo Amore da ristabilire nei cuori».

Per tanto, nel messaggio affidato dal Cuore di Gesù a santa Margherita Maria Alacoque, è presente l’aspetto sociale. Rimasto a lungo secondario, esso viene ad assumere rilevanza dopo la metà del secolo ad opera degli ambienti francesi, volti a far riconoscere dall’universo intero l’assoluta sovranità del Sacro Cuore e il dovere di lavorare per il suo “regno sociale”.

In secondo luogo, Gesù ripetutamente si lamenta che il suo amore non è corrisposto. Appare come un amante rigettato e chiede riparazione e consolazione. È chiaro qui il richiamo ad impegnarsi a promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, e a impedire e riparare le offese a Dio con la lotta contro il peccato, a cominciare da se stessi. Tuttavia questa lotta non viene ingaggiata tenendo in mano lo scudiscio di un moralismo esacerbato, ma mediante la partecipazione nello zelo misericordioso del Cuore di Gesù, che guarisce il cuore dello stesso apostolo e nello stesso tempo lo apre all’operosità apostolica, generosa fino al dono totale di sé, perché tutti possano accedere all’abbondanza di vita offerta dal Cuore di Gesù.

In fine Gesù chiede un atto di espiazione e di devozione e cioè l’ora di adorazione dinanzi al SS. Sacramento la notte del giovedì, e poi chiede ancora la comunione i primi venerdì del mese e la festa del Sacro Cuore. E infine il Signore assicura che tutto questo sarà fonte di salvezza.

Di fronte a questo messaggio di salvezza c’è da notare che in alcuni ambienti prevale l’aspetto devozionale, sfociando così in pratiche sdolcinate e svigorite, che privano la devozione al Cuore di Gesù del suo slancio apostolico; in altri ambienti prevale l’aspetto morale di lotta contro il peccato. La tendenza moralista, lasciando in secondo piano la necessità di lasciarsi incontrare dall’amore del Cuore di Gesù, di credere e affidarsi a Lui, sfocia nel moralismo, che produce un esercizio introverso, autoreferenziale, delle virtù, da cui nasce l’atteggiamento farisaico, e una spiritualità dura e intransigente con se stessi e con gli altri, annebbiando così la fonte della salvezza e della vocazione apostolica, che è l’incontro personale con il Signore Gesù.

Nell’Istituto Mazza il messaggio del Cuore di Gesù è accolto e tradotto in piano educativo nella sua originalità: la salvezza è per tutti, è offerta a tutti gli uomini dall’amore del Cuore di Gesù, attraverso l’opera missionaria della Chiesa, ed è una salvezza integrale.

È una salvezza, pertanto, che abbraccia la persona umana nelle sue dimensioni naturali e soprannaturali (spirito-anima-corpo) e nelle sue relazioni con la società ed il creato, secondo la prassi e l’insegnamento di Gesù. Egli, infatti, non ammette una pratica religiosa staccata dalla vita, incapace di portare ad un impegno “a diventare il Buon Samaritano del giorno”.

Fondato su tali basi, il progetto missionario dell’Istituto si proponeva coniugare “religione e civiltà” a favore dei popoli dell’Africa Centrale, che apparivano i più emarginati dalla storia, in continuità con l’obiettivo degli Istituti Mazza a Verona, che era precisamente quello di preparare ottimi cittadini e perfetti cristiani.

Così Comboni, alla scuola del Cuore di Gesù, in questo ambiente in cui la fede è anima del sociale, incomincia a imparare la “filosofia” necessaria per la vita, che è “la filosofia evangelica”, che è appunto quella della riparazione per la rigenerazione. Introdotto in questa filosofia mediante una formazione alimentata da una seria e illuminata “devozione al Sacro Cuore”, egli vive mosso dalla volontà di essere “pronto sempre a sacrificare ogni cosa e vincere tutto, per seguire ed adempiere la volontà del Signore» (S 464)[3], così che ancora giovane può scrivere: «I sacri Cuori di Gesù e di Maria sono il mio grande conforto e il perno della mia filosofia” (S 974-975)[4].

L’amore divino, incarnato e manifestato in quel Cuore che il giovane Comboni aveva costantemente davanti agli occhi e accoglieva nel proprio cuore lasciandosi plasmare da esso, è l’origine della sua dedizione totale alla causa dell’Africa, “per la quale parlò, lavorò, visse e morì”, è la forza che lo spinge a dare tutto e andare sempre oltre, così che poteva confessare: «Votato all’Africa da 17 anni, io non vivo che per l’Africa e non respiro che per il suo bene» (S 1424).

In Daniele Comboni la spiritualità del Cuore di Gesù si approfondisce e si arricchisce ulteriormente con la visita al Santuario del Sano Sepolcro, dove fu particolarmente attratto dalla Tomba vuota e dal Monte Calvario. Comboni visitò il Santuario del Santo Sepolcro all’inizio del suo primo viaggio verso la Missione (1857-1859) quando, arrivato ad Alessandria, gli viene offerta l’opportunità di un pellegrinaggio a Gerusalemme.

Nella visita del Santuario del Santo Sepolcro, che «è il primo Santuario del mondo», Comboni fa l’esperienza del legame tra il monte Calvario dove il Salvatore fu crocifisso, e la sua Tomba vuota. In questa esperienza l’Icona del Crocifisso-Risorto affonda profondamente le radici nel suo cuore.

Inoltre il Mistero della Croce e il simbolo del Cuore di Gesù si unificano sul Calvario, dove Comboni contempla il simbolo del Cuore di Gesù nel Mistero del Cuore trafitto di Cristo crocifisso, dal quale sgorga sangue e acqua, cioè la sua stessa vita per la salvezza del mondo.

In questo accostamento il simbolo del Cuore di Gesù è colto nella sua intrinseca unità con la carità divina espressa sulla Croce. In questa prospettiva nella vita del missionario il Cuore di Gesù è l’energia, la spinta, la ragione del suo apostolato; la Croce è il mezzo o il metodo apostolico, cioè un apostolato vissuto come “dedizione totale”, “all’insegna della Croce” (cfr. RV 2-4).

Questa donazione totale si sviluppa ampiamente in Comboni durante tutto l’arco della sua vita. È uno sviluppo che si è andato conformando come tra due poli, l’uno celeste (religioso o trascendente, «dall’Alto») e l’altro terrestre o geografico, creando in Comboni una tensione che è riuscito ad unificare in una sintesi missionaria.

Nell’esperienza spirituale di Comboni il polo celeste che appare chiaro fin da principio, è il Cuore di Cristo e la Croce (cfr. RV 3-4), manifestazione sulla terra del Mistero infinito di Dio-Trinità; si tratta quindi di una realtà non prodotta dal suo cervello, ma attinta partecipando nel pellegrinaggio di fede della Chiesa attraverso il tempo e lo spazio umani. Il polo terrestre è costituito dalla Nigrizia, cioè da un punto geografico-umano preciso (cfr. RV 5) che, integrato nel polo celeste, diviene parte costitutiva della esperienza religiosa di Comboni; diviene una sorta di mappa per orientarsi nello svolgere con passione «l’opera» alla quale si sente spinto dal Cuore di Gesù.

e) Il Piano missionario di san D. Comboni, un piano di riparazione nato nell’officina della Trinità

In Daniel Comboni il vissuto dell’icona biblica del Cuore trafitto di Cristo crocifisso raggiunge il suo apice nell’evento carismatico del 15 settembre 1864 nella basilica di S. Pietro nel contesto di una esperienza forte di preghiera proprio in occasione della beatificazione di Margherita Maria Alacoque.

La spiritualità del Cuore di Gesù che qui emerge è il punto di arrivo del cammino spirituale che il Comboni è andato vivendo nelle varie tappe della sua vita a cominciare da Limone, passando per l’Istituto Mazza e il Pellegrinaggio in Terra Santa fino all’arrivo alla Stazione di Santa Croce…

In questo evento, infatti, la spiritualità del Cuore di Gesù vissuta da Comboni è espressa in termini in cui il simbolo del Cuore, già messo in intima connessione con il Mistero della Croce sul monte Calvario, così che diviene il Cuore di Cristo trafitto in Croce, ora è colto in esplicita chiave trinitaria e nella sua identificazione con i popoli oppressi dell’Africa Centrale.

Comboni arrivò per la prima volta a Roma nel settembre 1859 proveniente dall’Africa, di ritorno, malato, dal suo primo viaggio missionario.

In quest’occasione, varca per la prima volta la soglia della basilica del Vaticano.

Il giovane missionario, sotto il peso delle prove della prima esperienza apostolica, porta nel suo cuore orante quell’Africa a cui “già aveva sospirato da gran tempo, con maggior calore di quello con cui due amanti sospirano il momento delle nozze” (S 3) e che ora, dopo averla incontrata, non può abbandonare alla sua sorte.

Le sofferenze che affliggono l’Africa descritte nell’Introduzione del Piano, pesano come macigni sul suo cuore di sopravvissuto della prima luttuosa esperienza sotto il “torchio della desolata vigna africana” (S 2744) e sfidano la sua fedeltà: “Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade che l’Africa nella sua vasta estensione racchiude… i rischi d’ogni maniera e gli scogli insormontabili…. sgominarono le forze e gettarono lo scoraggiamento…” (S 2741).

Il 15 settembre 1864 Comboni si trova di nuovo sulla tomba di S. Pietro “in attesa orante”. È un ritorno effettuato nel momento dei suoi “più caldi sospiri verso quelle regioni infelici” (S 2754), che certamente costituisce un momento determinante della sua vita e che può essere definito come “battesimo di fuoco” o “Pentecoste personale” dell’Apostolo della Nigrizia. A questo punto del percorso spirituale di Comboni il Monte Calvario appare intimamente connesso con il Monte Sion, “sublime monte” (S 54) dell’attesa e dell’avvento dello Spirito Santo, “dove successe la divisone degli Apostoli per predicare l’Evangelo per tutto il mondo” (S 58).

Infatti, presso la tomba di San Pietro è avvenuto il primo incontro dell’Africa nuova con la Chiesa di Cristo proprio nel cuore e nella mente di Comboni, mentre il tormentato cammino della Nigrizia alimentava la sua meditazione e la sua preghiera. Dal Piano, infatti, scaturito da questa preghiera, è nata tutta l’opera comboniana e ne derivò la rinascita della missione dell’Africa Centrale. Egli stesso dirà più tardi che, mentre si trovava in quel giorno nella basilica di S. Pietro, “come un lampo mi balenò il pensiero di proporre un nuovo Piano per la cristiana rigenerazione dei poveri popoli neri, i cui singoli punti mi vennero dall’alto come un’ispirazione” (S 4799).

Spinto dal fervore per tale illuminazione, Comboni si recò subito alla sede del suo alloggio, si rinchiuse in stanza e vi lavorò per “60 ore continue”. Il contenuto di quest’illuminazione lo formulò nell’introduzione alla I edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4):

«Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade… Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2741; 2742).

In questo testo Comboni svela nella Trinità le Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio”, vissuto abitualmente da Comboni, diviene qui comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con il Mistero Pasquale, cioè con il Mistero del Crocifisso-Risorto e con la sua passione missionaria.

Il punto di partenza della comunicazione di Comboni è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore (Cf S 2742). La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua a operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana. Il suo “guardare l’Africa al puro raggio della fede” è “un giudicare delle cose con lume che gli piove dall’Alto”, dove il Risorto sta alla destra del Padre, vittorioso. Si comprende il Mistero del Cuore Trafitto di Gesù che è al centro della vita di Comboni, precisamente partendo dalla Risurrezione.

Nell’esperienza del Mistero del Cuore Trafitto di Gesù vissuta da Daniele Comboni, è presente tutta la Sacrosanta Trinità, che da lui è percepita pellegrina nel cammino degli uomini… Questa percezione che inonda il suo spirito, rende in lui sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia, fino a farlo suo “sposo” e liberatore; questa percezione è l’aurea vena nascosta che dà ragione e forma alla sua “passione” per la Nigrizia, per cui ci può dichiarare con verità che come missionario viene dal cuore della Trinità.

Viene dal coinvolgimento nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che gli rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà con la vita di tutti gli uomini. Viene così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla fine in Croce, e gli merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto.

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, viene tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi d’ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al suo sguardo: comincia a vederla ”come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre lo esperimenta segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui.

Sotto l’influsso dello Spirito Santo, esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Golgota, sente che i palpiti del suo cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisce come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore.

Questa Carità lo fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra le braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita.

Comboni, per tanto, lega la sua vita a quella degli Africani che da secoli vivono segregati dalle altre razze, fatto partecipe dell’amore di Colui che si dichiara presente nei “fratelli più piccoli” (cf Mt 25, 40), coinvolto quindi in uno dei misteri più sconcertanti della vita di Gesù, che è proprio quello della sua identificazione con gli esclusi della storia. Cristo Gesù, Verbo incarnato, “Uomo dei dolori” fino alla ignominia della Croce, si identica ed è riconoscibile nel volto sfigurato dei figli di Canaan. Comboni si dona agli Africani, perché riconosce ed ama Gesù nei “più poveri”, negli “anatemizzati”, cioè nei più lontani, che lui percepisce “infelici fratelli suoi”. Nei neri oppressi gli si rivela il volto dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama a evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la soppressione della loro schiavitù.

Comboni, per tanto, coglie la sua identità come evangelizzatore e i criteri del metodo della sua azione missionaria dalla contemplazione di «Colui che hanno trafitto» (cfr. Gv 19, 37). Dalla contemplazione di questo Mistero Comboni rinasce ad una nuova immagine di Dio, di se stesso, degli africani e della sua opera; rigenerato per primo dalla “Virtù divina”, che sgorga dal Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce, s’incammina all’incontro di fratelli marginati dalla storia, per essere servo e strumento della loro rigenerazione.

L’intuizione di Comboni è chiara: nel regno della morte Dio entra per mezzo del Trafitto e Risorto del Calvario.

Dal Cuore Trafitto di Gesù si sprigiona una potenza generatrice di vita, una “divina Vampa di carità”, che come una punta laser avrà ragione del “buio misterioso”, che avvolge la Nigrizia e di tutti gli ostacoli che si frappongono nel cammino dell’Apostolo dell’Africa Centrale. Gesù crocifisso entra nelle vicende dolorose della Nigrizia, è l’espressione della sua estrema e totale vicinanza ad essa, diventa uno di essa; con la “divina Vampa di carità” che promana dal suo Cuore, assorbe i veleni che la paralizzano, la solleva e la conduce a sé. Gesù che muore nella “carne” presa dalla Nigrizia, è anche il Figlio di Dio; perciò il suo ingresso nel buio che l’avvolge, è esplosivo e spezza la prigionia della sua natura avvilita e le catene della sua schiavitù, recuperandola totalmente all’abbraccio dell’amore del Padre. Nel morire di Gesù, la sua divinità, cioè la potenza del suo Spirito datore di vita, è effusa su coloro che sono giudicati gli ultimi della terra e diviene in essi forza salvifica e presenza rigeneratrice dell’uomo oppresso. Si schiude così per la Nigrizia l’orizzonte del destino ultimo della sua storia, che è l’Eternità e l’Infinito di luce della divinità e della risurrezione riversato nella sua storia di oppressione, che rompe il suo esilio e la mette sul cammino della libertà, pregustazione della Patria Trinitaria. Così sarà piena la gioia della Nigrizia e dello stesso Apostolo inviatole da Dio.

In conclusione, possiamo dire che Comboni è uno strumento efficace dell’officina di riparazione della Trinità, il primo di una serie che arriva fino a noi. L’incontro con Gesù Crocefisso lo coinvolge in modo totale: è un lasciarsi prendere dal suo amore, un essere toccato nel cuore in modo tale che questo cambi il suo ritmo, la sua modalità abituale, per venir quindi – mosso dal Suo amore e rinnovato nel cuore – inviato in missione. Si noti come si parte da quella «divina vampa» che accende la carità umana per arrivare ai gesti concreti dell’abbraccio e del bacio con cui si comunica all’altro pace e amore. Sono questi i primi gesti e i primi contenuti dell’annuncio. L’esperienza dell’incontro personale con l’Amore è comunicata in un incontro personale di amore.

Comboni è convinto che questa esperienza è fondamentale non solo per se stesso ma anche per i suoi seguaci, perciò nel Cap. X delle Regole del 1871, mette al centro del processo formativo Gesù Cristo, un Dio morto in croce. Se il testo del Piano si centrava più sull’azione di Gesù che, amando, forma il missionario, adesso si parte dal missionario che, amando, si lascia formare: «Si formeranno questa disposizione essenzialissima [del dono di sé per essere riparatori con Cristo] col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime».

Così Gesù Crocefisso che spinge con l’impeto della sua carità, è Colui che convoca, forma e invia in missione; è questa l’esperienza fondamentale che sola forma e abilita alla missione’[5], a questa grandiosa opera divina di rigenerazione o “riparazione” dell’umanità, una volta che si è chiusa al Soffio della Vita.

Preghiamo:

O Cristo, agnello dal cuore trafitto, fa’ il nostro cuore simile al tuo.

Rendilo capace
di contemplare il volto del Padre,
di annunciare il tuo amore vittorioso in tutte le lingue,
di risvegliare le coscienze alla tua Parola in tutte le culture,
di educare i cuori all’amore in tutte le società.

Aiutaci
a riconciliare le persone nel profondo,
a portare consolazione a chi è nel dolore,
a ricapitolare in Te ogni espressione umana.

Insegnaci
a vivere, come Maria, in sintonia col tuo cuore,
ad essere fedeli e a perseverare nella nostra vocazione  di discepoli missionari comboniani,
a non lasciarci impaurire da tribolazioni e pericoli.

Porta Tu a compimento ciò che hai iniziato in noi.
Tutti ci riconoscano tuoi amici
amici dello Sposo divino della Chiesa
e siano condotti a guardare a Te, unico salvatore che regni dalla croce.
Perché questo è il disegno del Padre:
fare di Te il cuore del mondo.

Casavatore, Giugno 2017.

[3] A don Pietro Grana, 6. 4. 1859

[4] A don F. Briccolo da Parigi, 15 gennaio 1965

[5] Cfr. Joaquim José Valente da Cruz mccj, Verso una «perfetta armonia» come sinergia di «elementi eterogenei». Percorsi di “pericoresi ecclesiale” nel Piano di san Daniele Comboni (file ricevuto direttamente dall’autore).

Il costato trafitto di Gesù,
l’icona del XXI secolo

Heiner Wilmer

Il cuore ferito è l’immagine delle fragilità e ferite del nostro tempo. Il cuore aperto di Gesù include e accoglie tutte le ferite fisiche e psichiche, anche le nostre. Prenderle come cosa seria, esporle apertamente, significa prendersene cura e rimarginarle – in maniera umana, carica di comprensione, con una disposizione empatica. Così siamo giunti alla convinta persuasione che la dedizione per gli uomini e le donne affranti, segnati nella loro vita, poteva essere autentica solo se io stesso vedo e sono capace di accogliere la mia fragilità, il mio cuore ferito.

[Poi potremo] indagare quale sia una nostra possibile risposta al dolore. Al dolore fisico: c’è tanta gente che soffre di malattia, incidenti, invecchiamento, guerra e abusi. Al dolore psicologico: c’è tanta gente che è segnata da piccole o grandi depressioni, persone che si sentono rigettate, non amate, trascurate, che soffrono della rottura di relazioni, o appesantite dal fardello del proprio passato che nel presente può voler dire carcere. Al dolore spirituale: disorientamento, perdita della fede, incomprensibilità del silenzio di Dio; le domande della teodicea sono sempre attuali.

Da una parte la nostra società industrializzata e competitiva premia l’uomo di successo e lo promuove come modello unico; dall’altra, la realtà si presenta più spesso con il volto del fallimento. Che risposta possiamo dare davanti all’esperienza del fallimento, che è più reale del successo? Il fallimento è l’esperienza comune, non il successo. Il cuore ferito dice della serietà con la quale Dio ha preso su di sé, in Gesù, in un’esperienza corporea non come idea, la drammatica realtà del fallimento.

Le implicazioni teologiche del «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto»

La prima ricaduta è sulla teologia biblica. Volgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto è una cerniera che tiene insieme Antico e Nuovo Testamento.

Matteo 25 propone l’identificazione di Gesù con il sofferente e il bisognoso: «quando mai abbiamo “volgere lo sguardo a te” nudo, affamato, senza tetto, triste». Nello stesso tempo, Matteo  propone anche l’identificazione del Figlio dell’Uomo con i makarioi, i beati.

Un’ulteriore pista teologica è tracciata da Filippesi 2, uno dei più antichi inni del Nuovo Testamento. Kenosi e incarnazione: Dio “si abbassa” e “prende carne”. Dio non rimane un’idea, ma si rende tangibile, vulnerabile e assume una phisis, una natura che offre la possibilità di essere ferita. Dio pone sé stesso nella condizione di dover fare i conti con la possibilità di essere ferito lui pure. Dio non evita l’esperienza del dolore. Nel cuore ferito di Gesù noi possiamo guardare e vedere il Dio raggiunto dal dolore.

Nel Salmo 23 («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?») quelli che circondano il protagonista lo deridono perché si è fidato di Dio. La critica più forte alla religione, riportata dalla Bibbia stessa, non è l’ateismo; non è la negazione di Dio, ma l’accusa della sua malvagità. Gli empi non negano l’esistenza di Dio, ma deridono il suo operato o, più ancora, la sua “incapacità”, il suo fallimento.

San Paolo all’Areopago vuol essere fedele a Gesù risorto, ma viene rigettato e disprezzato. Anche il testimone di Dio è deriso e umiliato. È un fallimento spirituale e intellettuale. È il fallimento di un progetto.

La Bibbia ci parla dei fallimenti umani, ma anche del fallimento di Dio e del suo progetto.

Duns Scoto, posto in confronto a Tommaso d’Aquino, parla di due modi di conoscere le cose e distingue la cognitio cognitiva e la cognitio intuitiva. La prima è facoltà della ratio, dell’analogia; la seconda fa riferimento a un insight, a una conoscenza dal di dentro, che non si lascia spiegare con sillogismi né equazioni matematiche, eppure esiste, ci tocca, ci coinvolge, e, in definitiva, ci affidiamo ad essa per le decisioni più rilevanti della nostra esistenza. Le scelte d’amore, ad esempio. Si ama qualcuno non per calcolo, ma perché ci si sente attratti, si intuisce il buono che c’è nella persona. La cognitio intuitiva di Duns Scoto apre verso la mistica un varco che la sistematica razionale di Tommaso d’Aquino non era riuscita a sfondare.

Vi è una suggestione ulteriore: la teologia trinitaria. Una dimensione trascurata nella nostra teologia fino al Vaticano II. Lo studio si è occupato di teologia e di cristologia, ma la pneumatologia è stata trascurata. La dimensione che Dio è anche Spirito Santo, che il battesimo è il sacramento fondante e gli altri sono derivati da esso. Il topos della Trinità apre il discorso su Dio non come monos, ma come comunicazione e comunione. Dio è in se stesso comunicazione e comunità. La comunione inizia con due, la comunità ha inizio con tre. Dio è in se stesso dinamica, è creativo, è comunicazione. Noi possiamo guardare a lui e lui rimane toccato dal nostro sguardo e ascolta le nostre domande.

Per dare una risposta alle ferite profonde dell’umanità è necessario poter rivolgere le nostre domande a un Dio che parla, anzi è in se stesso comunicazione. Non un Dio che dia una risposta facile e sbrigativa alle domande complesse dell’umanità, prendere o lasciare. Ma un Dio che ha sfumature in se stesso, è in se stesso un colloquio intrecciato.

Accogliere la complessità e la “coralità” in Dio permette di riconoscerlo come interlocutore aperto alle nostre domande, così come riconoscerlo feribile ce lo accredita come interlocutore credibile.

Le implicazioni pastorali del «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto»

Primo, l’accompagnamento. In un mondo oltremodo complesso come il nostro dobbiamo prendere le persone sul serio, con rispetto leale per la loro coscienza. Il nostro primo lavoro non è predicare, dando risposte preconfezionate; è essere credenti con gli altri, essere compagni di strada, solidali. I filosofi francesi affermano che la présence è più importante della répresentation. In altre parole, essere presenti, vivi, a fianco di un altro vivente è più importante che inviargli  una rappresentazione di noi stessi preconfezionata. La presenza umana porta in se stessa salvezza. Precede la parola e dà significato alle parole. La presenza umana guarisce o meglio aiuta la guarigione.

Una seconda implicazione pastorale: spostare l’accento dalla folla all’individuo. Senza trascurare la folla, il focus ha da essere sull’individuo. Dobbiamo ritornare a Gesù che ha predicato sì alla gente, ma che nella sua opera di guarigione ha incontrato sempre persone: l’emorroissa, il cieco, il sordomuto… Gesù mette fango sugli occhi, tocca con la saliva, si sente toccato da una donna mentre è circondato dalla folla… Gesù non ha mai compiuto guarigioni di massa. Non ha guarito tutti, si è ritirato, si è sottratto alla tentazione della folla che voleva farlo re. Non si è consegnato a un attivismo alla ricerca di grandi numeri. Ha guarito alcuni, dando un segno, una testimonianza anche simbolica per la nostra missione pastorale: fate come ho fatto io.

Una terza linea: la pastorale sia attenta a quelli che falliscono. Non ci si rivolga soltanto a chi “riesce”. La realtà psicologica e sociologica del fallimento, non il successo, sia il paradigma.

Quale Chiesa si prospetta a partire dal cuore ferito

Papa Francesco parla della Chiesa in uscita (EG). Questo è nella simbologia del cuore aperto. Potremmo fare un passo avanti dal cuore aperto al cuore ferito. Vuol dire che la Chiesa non è solo in uscita, ma che ha una destinazione: andare al mondo del dolore. Il mondo del dolore non è solo uno tra i tanti. La nostra prima attenzione sia per la gente che soffre e questa gente sia l’incontro cercato e voluto, non puramente occasionale. Andare al mondo del dolore dà una contribuzione all’umanizzazione del mondo.

Mi viene alla mente un italiano di valenza universale: don Lorenzo Milani. Teologicamente componeva in se stesso Antico e Nuovo Testamento, lui di origini ebraiche, cristiano, sacerdote… La sua Scuola di Barbiana è un prototipo di umanità perché è andato alla persone giovani trascurate, lasciate ai lati senza opportunità, un mondo segnato dalla sofferenza e dall’esclusione a livello sistemico, senza via d’uscita. Ha mostrato solidarietà, ma, e questo è fantastico, ha cambiato la prospettiva dalla quale guardare al giovane. Invece di vedere il giovane come destinatario della sua opera di formazione, lo ha reso soggetto. Nella sua scuola, i ragazzi che avevano 10 anni li ha fatti insegnanti di quelli più giovani. Li ha portati a credere nella gente. «Io ti do qualcosa, ma ho a mia volta bisogno di te; io vedo che tu sei forte, più forte di quanto tu pensi». Noi dobbiamo non solo essere missionari, ma portare la gente a essere missionaria, anche i giovani. La nuova evangelizzazione dovrebbe cominciare con i giovani. Guardare ai giovani non solo come destinatari della nuova evangelizzazione, ma come protagonisti. La Chiesa ufficiale deve avere più fiducia nel mondo dei giovani, azzardando anche forme di sperimentazione.

Il cuore ferito mi invita a costruire una Chiesa che viva più effettivamente la dimensione soteriologica. Nel mondo occidentale, ma un po’ in genere nel mondo cristiano, la comunità ecclesiale, che è comunità di persone, abbia a cuore la vicinanza alla persona più che la tutela dell’istituzione; dedichi le sue energie alla comunione solidale più che all’integrità del sistema, che ha certo la sua importanza, ma è solo uno strumento. L’importante è la persona, farsi presente, farsi prossimo.

In questo contesto soteriologico, la Chiesa riscopra la sua dimensione pneumatologica e si domandi come viverla oggi. Prendere sul serio la fede battesimale vuol dire meno attivismo, più contemplazione e più creatività; credere di più nell’esperienza e nella ricerca di nuove esperienze, non aver paura di sbagliare, non aspettare che tutto sia previsto e programmato. Credere nel vento e nel fuoco dello Spirito Santo; credere nella Pentecoste, il terzo grande momento del mistero dell’incarnazione. Perché è dopo la Pentecoste che noi viviamo.

Quale vocazione specifica comporta per un istituto missionario la teologia del cuore ferito? In cosa la distingue e la precisa dalle mille altre forme della vita consacrata?

Il “sacramento della solitudine” e la solidarietà come espressione della fede vissuta. Mi spiego. Il “sacramento della solitudine” significa mettersi nella prospettiva della vittima, delle persone che soffrono, abbandonate. Chiunque soffre è in definitiva solo. Il dolore fisico, psichico, spirituale ti emargina in qualche modo, ha sempre a che fare con la solitudine. La solitudine è il modus penitenziale della sofferenza.

D’altra parte la solidarietà come espressione della fede vissuta. E qui entra in gioco paradossalmente la dimensione contemplativa.

L’adorazione, il percorso contemplativo che apre alla mistica, sia nel senso classico (davanti al Santissimo), sia in senso “samaritano” («i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», Gv 4,23) è come il pontifex maximus tra la solitudine della vittima e la solidarietà nostra. Nell’adorazione mi sento solo, anche se circondato dalla comunità. È un modo di essere alla presenza di Dio anche senza parola, senza scopi programmati, senza schemi preconfezionati. Il frutto di questa contemplazione illumina la mia solitudine e me la rende evidente. Io devo vedere e devo vivere quella mia solitudine per essere capace di comprendere la solitudine dell’altro. Se io non vado in questo pozzo profondo della mia anima non sarò mai capace di comprendere l’altro che soffre, che si sente solo, che fallisce. È questa la base della solidarietà. L’adorazione è un momento nel quale Dio stesso si mette come il Solo davanti a me, solo, e sperimenta anche lui la sua “solitudine”. L’adorazione solidale tocca il suo vertice nel versante mistico e la solidarietà ha il suo frutto sul versante politico, come essere interessati (inter-esse) alla vita dell’altro, ai suo momenti, ai suoi giorni.

Quale è la forza – o la debolezza – della riproposta della devozione? Quale può essere la sua forma rispondente alla domanda religiosa attuale, almeno nell’Occidente secolarizzato?

La forza della devozione sta nella sua capacità di toccare il mondo emotivo, il cuore, e sviluppare gli affetti, aprire i sensi. La devozione favorisce la nostra unità olistica. È inoltre un tipo di linguaggio dei sentimenti, che introduce alla mistagogia.

La  debolezza si manifesta quando la devozione evita la ratio, la ragione, rischiando così di andare in confusione ed esprimersi in qualche stranezza che, vista da fuori, potrebbe risultare incomprensibile e in-significante. Se alla devotio manca il logos, la profondità della riflessione, può generare caos. Ci vuole argomentazione, saper dare le ragioni della nostra fede.

Quanto alla forma penso a tre punti.

Sviluppare la dimensione del silenzio, della contemplazione. A Berlino, nella popolare Unter den Linden, nella Porta di Brandeburgo, di fronte alla famosa Ambasciata americana, c’è una stanza chiamata Raum der Stille (Spazio del silenzio). È una struttura vuota, che vuole esortare i visitatori alla riflessione sulla pace, sullo sfondo delle guerre recenti e delle loro vittime. Tanta gente, tedeschi e stranierei, cristiani, ebrei e musulmani, non credenti entrano in quella stanza. Il silenzio provoca, unisce. A volto il silenzio è “fragoroso”. La dimensione contemplativa è importante anche per noi nella Chiesa, perché corriamo sempre il rischio di cadere nell’attivismo.

La Bibbia. Leggere e condividere la Parola, nella sua interezza, Antico e Nuovo Testamento. Dio si è fatto Parola, Dio è comunicazione, è Trinità, è comunione. La Bibbia è nello stesso tempo parola di Dio e riflesso delle esperienze umane. Ad esempio Mosè è figura di profeta che si può leggere come specchio profondo della vita di ciascuno. È più di un esempio, è un paradigma. Come lo è Gesù. La Bibbia mi conduce dentro stanze della mia anima delle quali ignoravo l’esistenza.

Il pellegrinaggio. Una forma della devozione dell’Occidente è mettersi in cammino. Quello di Santiago è cammino per antonomasia. Mettersi in cammino è una chiave di lettura dell’uomo moderno. Viviamo in una mondo globalizzato; Internet ti permette in un secondo di essere ovunque. Senza muovere passi eppure tutto è in movimento, tutto è in cammino, perfino frenetico, e fa pensare alla vicenda di Emmaus. Anche noi viviamo dopo Pasqua, come quei discepoli che si sono messi in cammino verso Emmaus.
Erano itineranti con i piedi ma anche nello spirito: avevano domande senza risposta, domande vere. Una vita segnata dalla domanda. Qual è la mia domanda? qual è il mio tema? qual è il mio rompicapo? Mettendoci insieme agli altri, condividendo le nostre domande, condividendo il cammino e il pasto la sera apriamo il campo nel quel possiamo trovare luce, come nel famoso quadro di Rembrandt: non c’è più la luce del sole, ma c’è la luce di Gesù. «Ci ardeva il cuore. Non lo abbiamo riconosciuto, ma lui era presente».

Il pellegrinaggio è un’esperienza fisica, un omaggio alla corporeità ma anche un omaggio al pensiero teologico pastorale di farsi vicini all’altro, di vivere i momenti antitetici della solitudine e della vicinanza. Camminare nella natura, sentire sulla pelle il calore e il sudore. È sentirsi parte della natura, sentirsi natura dalla natura; io sono adam dall’ adamah; io sono mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma culturale che rimanda alla figura religiosa del mercoledì delle ceneri. Il pellegrinaggio è una forma della devozione non solo cattolico cristiana, ma anche ebraica, musulmana, buddhista e induista. Tutte le grandi religioni conoscono il pellegrinaggio. Nel pellegrinaggio vedo la sovrapposizione, l’intreccio fra cultura, civiltà e religione.
Il cuore ferito mi restituisce l’immagine del Risorto che si fa incontro ai suoi discepoli disorientati nelle loro domande, nel senso di fallimento che stanno sperimentando; apre loro il cuore e apre il loro cuore; mostra la ferita del fianco e in questa tangibilità della sua vicinanza invita a credere.

Mons. Heiner Wilmer
Ex Superiore generale dei Dehoniani
Adattamento di una intervista di Marcello Matté del 8.6.2018