Venerdì 4 marzo 2022
I processi di guarigione sociale, riconciliazione e pace richiedono un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca – nella misericordia – della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta.

La vera riconciliazione si raggiunge in maniera proattiva, formando una nuova società basata sul servizio agli altri, più che sul desiderio di dominare; una società basata sul condividere con altri ciò che si possiede, più che sulla lotta egoistica di ciascuno per la maggiore ricchezza possibile; una società in cui i valore di stare insieme come esseri umani è senz’altro più importante di qualsiasi gruppo minore, sia esso la famiglia, la nazione, l’etnia o la cultura. L’impegno arduo per superare ciò che ci divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga vivo un fondamentale senso di appartenenza.

Inoltre, la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente. Amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tal, ma cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano.

Perdonare non vuol idre permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Tutto ciò, tuttavia, con l’approccio della nonviolenza, non dell’odio e della vendetta. Il perdono non implica il dimenticare, ma rinunciare ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ci ha fatto del male. Spezzando il circolo vizioso della violenza, fermiamo l’avanzare delle forze della distruzione. Quando vi sono state ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle strutture del potere e dello Stato non sta allo stesso livello della violenza di gruppi particolari.

C’è una architettura della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un artigianato della pace che ci coinvolge tutti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. Perché ciò avvenga, siamo chiamati a persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica la persona umana, la sua altissima dignità e il rispetto del bene comune. L’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i poveri, ricordando che l’inequità e la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi la pace.

Infine, il capitolo riflette su guerra e pena di morte. Considerando la presenza di armi nucleari, chimiche e biologiche e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile e dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Oggi non è più possibile pensare ad una “guerra giusta”, perché i rischi saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. E se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza (es. terrorismo, conflitti asimmetrici, sicurezzza informatica, problematiche ambientali, povertà) risulta evidente l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide. L’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfuda sia un imperativo morale e umanitario.

Nel nostro mondo, ormai, non ci sono solo pezzi di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una guerra mondiale a pezzi, per ché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse.

La pena di morte è inadeguata sul piano morale e non è più necessaria sul piano penale; oggi è diventata inammissibile. Le paure e i rancori facilmente portano ad intendere le pene in modo vendicativo, invece di considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Il rifiuto fermo della pena di morte mostra fino a che punto è possibile riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia un suo posto in questo mondo.
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