Venerdì 4 marzo 2022
La riflessione dell’Enciclica sul processo di riconciliazione sociale fa emergere l’importanza dell’approccio e della comprensione culturale di tale prassi riparatrice e rigeneratrice. Dopo il genocidio in Ruanda nel 1994, e in risposta ai numerosi conflitti che hanno afflitto il continente, l’Africa è diventata il teatro di una ridda di progetti e iniziative di riconciliazione, basati su approcci occidentali. (...)

Decolonizzare la riconciliazione

La promozione dell’amicizia sociale implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo di qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. La pace non è solo assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli, perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione”. (FT 233)

La riflessione dell’Enciclica sul processo di riconciliazione sociale fa emergere l’importanza dell’approccio e della comprensione culturale di tale prassi riparatrice e rigeneratrice. Dopo il genocidio in Ruanda nel 1994, e in risposta ai numerosi conflitti che hanno afflitto il continente, l’Africa è diventata il teatro di una ridda di progetti e iniziative di riconciliazione, basati su approcci occidentali. Come ha osservato acutamente Sultan Somjee, questa tendenza – lungi dall’offrire soluzioni reali – ha invece minato le tradizioni di pace viventi e reso i popoli africani impotenti:

La visione di Utu, o umanità, richiama la presenza vivente dell’Essere Supremo, la natura e gli antenati come entità che custodiscono il benessere della comunità. Gli anziani sono i mediatori in quanto portatori di saggezza, e la comunità è testimone collettivo e permanente. Tuttavia, viviamo in un continente conflittuale dove la colonizzazione precedente e l’attuale modernizzazione sotto governi nazionalisti emarginano le comunità indigene e tendono a trascurare il sapere tradizionale della comunità nella sua ricca diversità.

Ci sono due principali paradossi irrisolti che riguardano i conflitti in Africa:

1. L’Africa ha enormi risorse, ma c’è un’enorme povertà che spesso porta ai conflitti.

2. L’Africa ha una ricca tradizione di pace, di risoluzione dei conflitti e mediazione, eppure ci sono guerre.

Sia la gestione delle risorse che la riconciliazione per il mantenimento della pace sono di competenza dei governi nazionalisti.

(…) I leader africani mancano di fiducia negli approcci del loro popolo alla risoluzione dei conflitti che aiuterebbero a sviluppare il pensiero africano verso una conclusione delle guerre che durano da decenni. Implicitamente, la situazione riflette la mancanza di fiducia tra i leader nelle loro capacità di agire come africani attingendo alle loro esperienze storiche e culturali. Tali esperienze sono evidentemente necessarie per mediare i conflitti basati sull’etnia. La mancanza di fiducia riflette un complesso coloniale ereditato che i negoziatori portano al tavolo delle trattative.

(…) Il senso del discorso è che le élite al potere escludono la partecipazione della gente per porre fine alla violenza. Invece, in alcuni casi, i regimi sono stati complici nell’infiammare la violenza etnica. Il risultato è devastante, come abbiamo visto dall’incessante caos del dopo indipendenza, dal saccheggio delle risorse nazionali, dalla devastazione ambientale e dalle uccisioni nella regione dell’Africa orientale – Kenya, Uganda, Sud Sudan, Somalia, Etiopia e Congo, dal 1960.

(…) L’Africa in conflitto con se stessa è un buon partner commerciale. A lungo termine, un tale modello di business rischia di escludere permanentemente le voci dei pensatori, degli attivisti, degli artisti e degli intellettuali delle comunità del continente e i loro contributi cruciali alla pace e all’Utu. La terribile conseguenza è che le giovani generazioni, che possono proporre alternative creative alla pace e al governo, nei loro anni formativi sono tenute lontane da un’eredità intellettuale ritenuta come usanza improduttiva, primitiva, obsoleta e banale del passato tribale.

In altre parole, la diversità dei punti di vista autoctoni, incentrati sul corpo e generati attraverso la relazionalità dinamica delle arti – la cultura materiale, la danza, il canto e i patrimoni linguistici affettivi – sono sottovalutati a favore di quelli importati. La dicotomia indigeno-straniero ha alterato il carattere sociale delle vibranti comunità rurali e ha generato una nuova serie di valori carichi di problemi dovuti all’accesso limitato ai dialoghi critici comunitari, al pensiero e alla continuità delle tradizioni intellettuali da una generazione all’altra, portando alla privazione del valore delle memorie ancestrali.

I musei comunitari della pace sono stati avviati per raccogliere le memorie della saggezza ancestrale e recuperare i frammenti delle arti vive della riconciliazione per sostenere l’equità sociale e il benessere comunitario. I musei della pace presentano un’alternativa alle istituzioni di “risoluzione dei conflitti e dialogo” che hanno proliferato attraverso le numerose ONG nella regione dell’Africa orientale, specialmente dopo il massacro del Ruanda del 1994.

Le organizzazioni appoggiate dall’ estero sono state così efficaci che la varietà di approcci di riconciliazione etnica collaudati nel tempo sono stati soppiantati dall’uniformità e dai metodi formulaici offerti dal mondo accademico in stile coloniale. Di conseguenza, nel giro di pochi decenni, secoli di tradizioni ed espressioni umane basate sulle arti corporee e la conoscenza, che collegano una serie di patrimoni continentali che sostengono la pace, sono andati rapidamente in declino.

Il declino ha tristemente diminuito il lessico culturale che porta vaste immagini verbali e visive derivate dal lavoro della terra e che sostengono l’equilibrio del mondo fisico e spirituale come venerato nei sistemi di credenze locali. Continua a indebolire i modi culturalmente appropriati di vedere, dire e sentire, e quindi di ragionare per la chiusura dei conflitti in un modo accettabile per la maggioranza. Cancella il nativo nella persona africana per diventare l’altro moderno. Il corpus dei canoni occidentali si impegna ad appropriarsi e a gestire, se non addirittura a denigrare, la narrazione africana praticata dalla gente, mentre continua a costruire l’accademia coloniale. Uso la parola denigrare intenzionalmente.” (Somjee 2018)

Come missionario che ha vissuto e operato negli insediamenti informali di Nairobi, ho avuto l’opportunità di sperimentare direttamente insieme alla comunità cristiana locale il potenziale rigenerante delle tradizioni africane di pace e riconciliazione. È stato un incontro trasformativo con il Risorto, che ha influenzato la nostra vita e la nostra fede, e questa è la storia.

Il massacro di Kariobangi

Nella notte tra il 28 febbraio e il 1° marzo 2002, un membro di un gruppo di vigilanti noto come i Taliban fu ucciso mentre era di pattuglia sulle strade di Kariobangi, Nairobi. I suoi colleghi, una volta resisi conto dell’accaduto, si sono lanciati in una missione di rappresaglia. Hanno arrestato tre giovani sospettati delll’omicidio e li hanno uccisi quella stessa notte. Questi tre giovani appartenevano ad una setta conosciuta come Mungiki, che per rappresaglia ha spazzato le strade di Kariobangi la sera di domenica 3 marzo, uccidendo 25 persone e menomando e ferendo decine di altre. Tutto questo sarebbe diventato noto come il massacro di Kariobangi.

Ho partecipato al lungo percorso di guarigione e riconciliazione che ha coinvolto i sopravvissuti e la comunità di Kariobangi. La vita nei quartieri si era fermata. Fu allora che per la prima volta tutte le chiese, le moschee e i gruppi religiosi si riunirono e organizzarono una manifestazione pubblica per pregare per la pace. Fu creato un comitato interreligioso e iniziammo a visitare i sopravvissuti e ad accompagnarli nella loro terribile situazione. Visitare le vittime è stato un atto concreto di solidarietà, portando loro preghiere e counselling. L’ascolto ci permise di svolgere anche un discreto lavoro di advocacy, volto a far giungere ai bisognosi le operazioni di soccorso governative, tutt’altro che agevoli. Tutto questo ha portato consolazione alle vittime e un incoraggiamento speciale è venuto dall’esperienza della unità tra di noi, vedendo i leader religiosi lavorare insieme, pregare insieme ed assisterli condividendo il loro aiuto e la loro fede.

D’altra parte, la questione della violenza e dell’insicurezza non ha mostrato notevoli segni di miglioramento, al contrario! Anche se il nostro ministero di giustizia e pace ha portato consolazione e ha contribuito a prevenire episodi di vendetta, la criminalità comune e la violenza hanno continuato a terrorizzare i residenti. Per esempio, Patrick Onjiko, che aveva perso un figlio il 3 marzo, ne ha perso un secondo – di soli 14 anni! – dopo qualche settimana, a causa della violenza della folla il 1° luglio. Questa situazione è stata aggravata dalle dure operazioni della polizia, che allo stesso tempo controllava la criminalità e molestava i residenti. Era chiaro fin dall’inizio, tuttavia, che la sicurezza pubblica doveva essere affrontata con fermezza, attraverso l’istituzione di un posto di polizia a Kariobangi e un programma di collaborazione tra forze dell’ordine e residenti.

Era quindi evidente che un approccio a breve termine per frenare la violenza non sarebbe stato sostenibile. La cultura della morte nelle baraccopoli è così dominante che deve essere affrontata con un programma a lungo termine. È così che i leader religiosi, nella loro condivisione, hanno iniziato a pensare a uno sforzo comune per elaborare un programma congiunto di educazione alla pace, rivolto, in fasi diverse, prima alle proprie chiese e poi anche ai bambini e ai giovani. La coscienza e la spiritualità delle persone hanno bisogno di incontrare una profonda cultura di pace che dia vita.

I musei comunitari della pace in Kenya

Tra le altre iniziative, tale comitato ha invitato i Musei Comunitari della Pace del Kenya a contribuire al processo di ricostruzione sociale. La situazione era così tesa, volatile e scioccante che nessuno sapeva esattamente come rimediare. Tutti furono colpiti in un modo o nell’altro. Molto di più le vittime stesse e i loro parenti più stretti, che stavano chiaramente soffrendo una profonda perdita e lacerazione a causa dei loro cari uccisi e della privazione dei loro mezzi di sussistenza e delle loro capacità fisiche. Vivevano nella paura di ulteriori vendette e violenze, e di un futuro che appariva ampiamente compromesso e che non prometteva nulla di buono. Inoltre, si trovavano in una situazione di isolamento, sentendosi abbandonati, con un inquietante senso di vulnerabilità sociale ed economica.

Vorrei testimoniare tre momenti particolari lungo il percorso di guarigione in cui il patrimonio culturale della pace ha mostrato un impressionante potere di rigenerazione. Abbiamo partecipato a questi eventi come comunità cristiana, assieme alla più ampia rete interreligiosa formata subito dopo il massacro per sostenere la pace e la riconciliazione.

Il primo incontro tra i sopravvissuti al massacro e i Musei Comunitari della Pace è avvenuto il giorno di Madaraka (una festa nazionale) il 1 giugno 2002. Gli anziani e i dei vari musei della pace vennero a Kariobangi con alberi della pace e bastoni della pace. Iniziarono condividendo le loro esperienze di violenza e di guarigione, mostrando come hanno ricostruito le loro vite e la comunità dopo divisioni e sofferenze molto gravi, come al tempo dell’occupazione coloniale e della lotta Mau Mau per l’indipendenza. Condivisero il ruolo delle tradizioni e dei simboli di pace nella riconciliazione della comunità e descrissero come li avevano sperimentati personalmente. La gente di Kariobangi, seduta in cerchio, ascoltò molto attentamente gli anziani. Poi venne il loro turno di rispondere aprendosi, raccontando le loro storie, le loro esperienze della notte di violenza, delle conseguenze e i loro sentimenti. Alcuni di loro tenevano in mano un albero della pace, guardandolo intensamente mentre parlavano.

Così si creò un luogo sicuro in cui le persone poterono correre il rischio di aprirsi e condividere i loro sentimenti, i loro dolori e le loro esperienze. Inoltre, la condivisione delle tradizioni e dei simboli di pace offrì una sorta di traccia per esprimere e rielaborare i sentimenti, le esperienze e le relazioni. È stato come dare un punto di partenza e un senso di direzione per trasformare gli eventi negativi. Sono rimasto colpito dal livello di profondità che i simboli di pace possono raggiungere nel cuore delle persone, ricollegandole ai vivi e ai morti. Per esempio, mama Agneta, che aveva perso suo marito e il suo primogenito la sera del 3 marzo, prese il suo piccolo albero della pace, prese in prestito del denaro e tornò al villaggio, dove piantò l’albero sulla tomba di suo marito. Da allora, l’abbiamo vista trasformata, era in pace e ha intrapreso una sorta di nuova missione nella vita per promuovere la pace e la riconciliazione nella comunità.

Fu alla fine di quel primo incontro che all’unanimità fu presa la decisione di andare a visitare il Museo Agikuyu della Pace a Nyeri. Questa non fu una decisione facile, poiché nella percezione dei sopravvissuti Nyeri era percepita come il centro dei Mungiki. Ma ancora una volta, la presenza del Museo della Pace e degli amici diede loro il coraggio di correre il rischio e andarci. È interessante notare che sullo stesso autobus c’erano sia le persone colpite dalla violenza perpetrata dai Mungiki, sia i genitori dei tre ragazzi Mungiki che erano stati uccisi nella notte tra il 28 febbraio e il 1° marzo.

Il museo della pace Agikuyu

Una volta a Nyeri, i membri della comunità locale hanno accolto calorosamente il gruppo e alcuni degli anziani hanno iniziato a suonare la musica e a cantare vecchie canzoni dei Mau Mau. È interessante notare che questi non sono inni alla guerra, ma piuttosto canzoni di pace. I testi vengono spiegati, poiché la maggior parte degli ospiti non conosce il kikuyu. Spontaneamente le signore del gruppo di visitatori si sono alzate e hanno iniziato a ballare, e poi tutti si sono uniti alla celebrazione. Così ci siamo resi conto di quanto possano essere potenti le celebrazioni per imparare, capire, dare un senso alla vita e guarire. Il messaggio scende nel profondo del cuore. Gli anziani hanno fatto uso di narrazioni, proverbi e saggezza tradizionale, e hanno raggiunto l’anima dei loro ospiti. Lentamente i partecipanti hanno iniziato ad aprirsi. Alcuni, che partecipavano per la prima volta, riuscirono a far scemare la loro rabbia e a ricominciare a vivere. Altri, che avevano già superato quella fase, si sentirono chiamati a contribuire alla condivisione con entusiasmo. La conclusione è stata che questa celebrazione della vita all’interno di eventi terribili e violenti ancora freschi nella loro mente ha risvegliato il senso di identità e di dignità delle persone, il senso di essere vivi. Inoltre, le paure sono scomparse quando siamo entrati in contatto con le tradizioni delle comunità per la promozione della pace e la realizzazione di quanto diverse comunità e popoli avessero in comune. Inoltre, la riconnessione con le loro radici ha aiutato le persone a superare il loro senso di isolamento e di perdita, dando loro un sano senso di fierezza e un significato. Poi il gruppo ha visitato il giardino degli alberi della pace a Othaya, dove è stata condotta una cerimonia per riconciliare la comunità ancora colpita da faide che risalgono al tempo del conflitto col potere coloniale. Quattro alberi della pace Agikuyu (che sottolineano quattro diverse dimensioni della pace) sono stati benedetti in una funzione religiosa presso la chiesa cattolica e piantati sulla fossa comune in cui sono sepolti i rpigionieri dei campi di conentramento. La gente l’ha capito bene, come la purificazione e la guarigione della Terra. E un’atmosfera diversa aleggia oggi su Othaya; la gente dice di percepirla.

Ispirati da quella storia di guarigione, è stata prontamente accettata una proposta: pensare a un Parco degli Alberi della Pace a Kariobangi come un memoriale e uno “strumento di pace”, assumendosi così la responsabilità (che viene dal processo di guarigione) di educare la comunità alla pace e alla riconciliazione.

Alla fine della giornata, accade l’evento più eclatante. Mzee Thuku, già combattente dei Mau Mau, che deteneva uno status elevato nel movimento dei combattenti per la libertà, annuncia ufficialmente che gli anziani Agikuyu di Nyeri hanno istituito un fondo per le vittime della violenza Mungiki a Kariobangi. Tale iniziativa di solidarietà è sottolineata dal dono delle donne Agikuyu che hanno regalato prodotti del loro campo ai loro ospiti. Tutto questo ha creato un legame e un senso di comunione, che ha ridotto il senso di vulnerabilità dei sopravvissuti di Kariobangi e ha creato nuove relazioni.

Il giardino degli alberi della pace

Il terzo evento riguarda la creazione di un giardino di alberi della pace a Kariobangi, il 14 settembre 2002, in una celebrazione pubblica sono stati presentati vari alberi della pace, che incarnano l’antica tradizione africana di buon governo, giustizia, riconciliazione e pace. È stato spiegato che praticamente ogni comunità etnica in Kenya ha un albero sacro della pace. Le loro radici si diffondono e uniscono tutte le persone. Vari alberi sono stati presentati insieme a narrazioni che mostrano il loro significato, uso e ruolo nelle società tradizionali. Gli anziani delle comunità Jaluo e Agikuyu hanno piantato un albero di murembe in presenza dei sopravvissuti, della grande comunità e dei dignitari. Così è stato avviato il Parco degli Alberi della Pace di Kariobangi. Questo giardino è un segno di riconciliazione e di pace in un ambiente dove per una serie di ragioni ci sono tensioni di lunga durata tra le due comunità. Murembe è l’albero della pace nella comunità Luhyia ed è da questo albero che deriva la parola pace – mirembe. Da allora, il giardino è sempre curato, e in molte occasioni il parroco ha notato che le persone si incontrano in questo piccolo giardino per parlare e risolvere le loro differenze. In altre parole, questo piccolo giardino è ancora un bene comunitario rispettato ed efficace.

Il significato missionario

Questa esperienza mostra la Riconciliazione come una delle sei dimensioni della missione, come sostengono Bevans e Schroeder (2014) nella loro riflessione nel libro Dialogo profetico. Nella loro rivisitazione della storia e della teologia della missione, Bevans e Schroeder presentano la riconciliazione come una cartina di tornasole della rilevanza e del significato dell’annuncio cristiano della forza risanatrice di Dio; inoltre, essa proclama anche che attraverso la grazia di Gesù Cristo tutte le ostilità e le divisioni possono essere superate, e infatti coloro che sono divisi possono diventare un solo popolo. La riconciliazione non è una questione di strategie e tecniche, piuttosto una spiritualità, come ci ha mostrato anche il patrimonio culturale indigeno.

In secondo luogo, abbiamo sperimentato che la dimensione della riconciliazione è profondamente collegata alle altre cinque dimensioni della missione: testimonianza e proclamazione; liturgia, preghiera e contemplazione; giustizia, pace e integrità del Creato; dialogo e inculturazione. Abbiamo bisogno di avvicinarci alla missione in modo olistico, piuttosto che per compartimenti stagni. Come si può dedurre dalla narrazione del nostro caso di studio, tutte queste dimensioni sono state presenti – anzi, si sovrappongono – in quel cammino di vita e di fede.

Così la chiamata a decolonizzare la riconciliazione ha un grande significato per la missione. Ci chiede di entrare in dialogo con le culture e le spiritualità indigene, e imparare da loro, trovare i semi della Parola e l’azione dello Spirito già all’opera in loro. Dall’altra parte, la comunità cristiana è stata condotta a una più profonda esperienza e incontro con il Risorto, e a ricollegare la propria esperienza di fede con le proprie radici culturali e spirituali. Mentre come espatriato, da una diversa visione del mondo, ho sperimentato aspetti del mistero di Gesù Cristo che erano nuovi per me, espandendo così la mia relazione con Lui.

Note

1 Somjeee, S. (2018) “Decolonizing Reconciliation: Changing the narrative to the indigenous museums of peace in Kenya and South Sudan”, Public Lecture – Florida International University, Miami October 23rd, http://dpanther.fiu.edu/sobek/content/FI/KH/00/00/17/00001/2018%20October%2023rd%20Public%20Lecture%20FIU.pdf

2 Bevans, S.B. – Schroeder, R.P. (2014) Dialogo profetico. La forma della missione per il nostro tempo. Bologna: EMI.

Fr. Alberto Parise mccj
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