La vita è sempre una questione di posti. Tutti cerchiamo un posto; il nostro posto, quello che riteniamo ci spetti. A tavola, al lavoro, in casa o fuori, nella società, nella Chiesa, nel cuore di qualcuno; chi in un luogo chi in un altro, tutti intendiamo assicurarci un posto. Perciò siamo tutti arrivisti, nel senso che ad ogni costo vogliamo arrivare in quella posizione dove ci sentiremmo “a posto”. (...)

Dio è una parola insufficiente!
Gv 14,1-12

Con le ultime domeniche del tempo pasquale entriamo nella preparazione alle feste dell’Ascensione e della Pentecoste. Sono le domeniche del commiato. Il vangelo di questa domenica e della prossima ci offre dei brani del capitolo 14 del vangelo di San Giovanni, il discorso di addio di Gesù ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Si tratta del suo testamento, prima della passione e morte. Perché riprendere questi testi proprio nel periodo pasquale? La Chiesa segue l’antica tradizione di leggere durante questo tempo i cinque capitoli di Giovanni relativi all’ultima cena, dal 13 al 17, nei quali Gesù presenta il senso della sua morte, della sua “pasqua”. Inoltre, potremmo dire che, trattandosi del suo lascito, il testamento va aperto dopo la sua morte. Gesù ci lascia la sua eredità, i suoi beni, li offre a noi suoi eredi.

Non sia turbato il vostro cuore!

Va sottolineato che il testo del vangelo di oggi è uno dei più densi del vangelo di Giovanni. Il contesto, quello dell’ultima cena dopo l’annuncio del tradimento e della sua morte violenta, è triste e drammatico. Gesù non nasconde ai suoi la gravità di quest’ora, ma li consola, invitando alla fiducia. È l’ora della prova, della crisi e la notte scende cupa nel cuore di tutti. È una parola rivolta anche a noi che, dopo “l’euforia” pasquale, ripiombiamo nella durezza della nostra quotidianità. “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”, è la parola d’ordine!

Vado a prepararvi un posto!

In questo brano troviamo, per una decina di volte, dei verbi e dei nomi connessi col movimento. L’uomo è un viandante (“homo viator”). La fede implica pure il mettersi in cammino: “Vattene dalla tua terra… verso la terra che io ti indicherò” (Genesi 12,1). Fu così per Abramo ed è così ancora per noi. La Bibbia è piena di strade e di cammini, di bivi ed incroci, di progetti e di speranze. “Beato l’uomo che ha le tue vie nel suo cuore!” (Salmo 84,6). Ma l’uomo in cuore suo cerca una dimora stabile dove trovare finalmente il riposo (Lettera agli Ebrei 3-4 e 13,14). Gesù con la sua “pasqua” ci fa da battistrada, va a prepararci una dimora e ritornerà a riprenderci con sé. Dunque, l’obiettivo finale, la meta del nostro cammino è la dimora, il ritorno a casa. Qual è questa dimora? È la casa del Padre. Ma dove abita il Padre? “Io sono nel Padre e il Padre è in me”, perché uno abita dove è amato! (Silvano Fausti). E la mia dimora dov’è? Dove mi sento a casa mia, lì si trova la mia identità, il mio vero Io! Il cuore del Padre è davvero la mia dimora?

[Permettetemi una parentesi. Purtroppo, oggi sembra venire meno il senso della vita, cioè il suo orientamento. Più che mai si avvera quanto detto una volta dal drammaturgo francese Eugène Ionesco: “Il mondo ha perso la strada, non perché manchino le ideologie guida, ma perché non portano da nessuna parte. Nella gabbia del loro pianeta, gli uomini si muovono in cerchio perché hanno dimenticato che possono guardare il cielo”. Certi pensatori si spingono ben più in là, come il filosofo italiano Umberto Galimberti che accusa la tradizione giudaico-cristiana di aver introdotto nella cultura occidentale l’ottimismo, l’illusione che l’ Io sia al di sopra della natura e possa darsi un progetto. E si scaglia contro la virtù della speranza. Coltivare la speranza è creare dei disperati. La vita non ha un senso e l’individuo è in balia della natura e in funzione della specie. Secondo lui, bisogna ritornare, invece, alla visione greca della ‘drammaticità’ della vita (fatum, destino) e del ritmo ciclico della storia.]

Io sono la Via, la Verità e la Vita.

Gesù suppone che gli apostoli l’abbiano compreso: “E del luogo dove io vado, conoscete la via”. Ed invece non l’hanno capito, come non l’abbiamo capito nemmeno noi. Tommaso è il loro e il nostro portavoce: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”. E qui Gesù ci dà una sua sorprendente e nuovissima auto-definizione: “Io sono la via, la verità e la vita”. Via, Verità e Vita, tre parole che in fondo si equivalgono e che si possono applicare a Dio stesso. La via è l’amore, la verità è l’amore, la vita è l’amore. E aggiunge: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me!”. Gesù è il mediatore tra Dio e l’umanità. Non come un intermediario neutrale tra i due, ma colui che assume in sé le due parti. Egli è l’Alleanza!

Chi ha visto me, ha visto il Padre!

A questo punto, sentendo Gesù parlare tanto del Padre, interviene Filippo e fa una preghiera bellissima: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». È il sogno di Mosè (Esodo 33,18-20) e il segreto desiderio di ogni uomo: “Quando verrò a contemplare il volto di Dio?” (Salmo 42,3; 27,8-9). A questa richiesta, però, Gesù rimane deluso: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre”. È la stessa delusione che Gesù prova nei nostri confronti: “ma come, da tanti anni sei con me, vedi quello che faccio e ascolti la mia parola e non mi conosci ancora? Quando ti lavavo i piedi era il Padre inginocchiato davanti a te!” In realtà, Gesù non è come Dio (che non conosciamo!), è Dio che è come Gesù! (Alberto Maggi). Egli è l’immagine perfetta del Dio invisibile (Lettera ai Colossesi (1,15). “Quello che era l’invisibile del Figlio era il Padre e quello che era visibile del Figlio era il Padre” (Sant’Ireneo). Per tre volte, Gesù ripete questa in-abitazione reciproca: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”.

Mi ha colpito una affermazione del monaco Enzo Bianchi, in un’intervista di due mesi fa, quando gli fu chiesto chi fosse Dio per lui: «La parola “Dio” l’ho sempre percepita come ambigua, insufficiente. Io sento un grosso rapporto con Gesù Cristo. Penso che andrò a Dio, lo conoscerò, attraverso Gesù Cristo, ma non so chi è Dio, non sappiamo nulla, nessuno l’ha mai visto, parliamo troppo di Lui senza conoscerlo. Secondo me è uno degli errori più grandi continuare a parlare di Dio quando Dio resta inconoscibile, “Il mistero”. Per me basta Gesù Cristo che mi porterà a Lui… Non spendo tempo a questionare su Dio o ad annunciare Dio».  E nel commento al vangelo di oggi dice: “A volte mi chiedo se noi cristiani, eredi del mondo greco, non finiamo per professare un teismo con una patina cristiana. Dobbiamo avere il coraggio di dire che per noi cristiani Dio è una parola insufficiente”.

P. Manuel João, comboniano
Castel d’Azzano (Verona), maggio 2023

Quale tipo di dimora cerchiamo?

Dall’insetto più piccolo fino all’essere umano, ogni essere vivente cerca la stabilità, la sicurezza, il riposo e il rifugio che una dimora promette. L’uccello fa il suo nido, il lupo la tana, e l’uomo la casa. Le quattro mura e il tetto che ci circondano ci danno il senso di essere riparati, non soltanto dalla pioggia ma da qualsiasi minaccia esterna a quel posto che con tanta cura abbiamo stabilito come casa. La nostra cara dimora è dove facciamo crescere la famiglia, dove l’intimità e l’amicizia spesso nascono, dove lo stress imposto dal mondo fuori si scioglie, e, quando i nostri giorni giungono al tramonto, è dove torniamo al nostro Creatore.

Oltre alle quattro mura, aggiungiamo di tutto e di più per rendere nostra quella dimora. La imbianchiamo, la arrediamo, la riempiamo con oggetti cari (simboli di chi siamo e di dove siamo stati) e poi la cambiamo quando ci stanchiamo. Tanta cura per una dimora bella ma comunque temporanea. Gesù ci propone un altro tipo di dimora, e sarà Lui a prepararla. «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi» (Giovanni, 14, 2-3).

La stabilità, la sicurezza, il riposo, il rifugio nel posto preparato da Gesù per noi di certo non vengono da aspetti solo materiali o umani. Non sono solo gli oggetti dentro la dimora del Padre che la rendono “casa” ma sono le relazioni divine: «Io sono nel Padre e il Padre è in me» (Giovanni, 14, 10.11). Gesù ci dice che questo dono eterno non è lontano da noi perché «se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio» (Giovanni, 14, 7).

È dentro la Santissima Trinità che la famiglia cresce, è grazie al soffio dello Spirito (il miglior comunicatore) che l’intimità e l’amicizia nascono, è il Figlio incarnato che capisce come liberarci dallo stress del mondo, ed è il Padre che ci accoglie con braccia aperte quando la nostra vita terrena giunge al suo termine. Quale tipo di dimora stiamo cercando? 
[Briana Santiago - L'Osservatore Romano]

Il posto riservato

La vita è sempre una questione di posti. Tutti cerchiamo un posto; il nostro posto, quello che riteniamo ci spetti. A tavola, al lavoro, in casa o fuori, nella società, nella Chiesa, nel cuore di qualcuno; chi in un luogo chi in un altro, tutti intendiamo assicurarci un posto. Perciò siamo tutti arrivisti, nel senso che ad ogni costo vogliamo arrivare in quella posizione dove ci sentiremmo “a posto”. Fin troppo facile additare con precisione la ridicolaggine e le fissazioni dell’arrivismo altrui, nascondendo il nostro dietro il mirino puntato. Esattamente come quegli anziani che ad uno ad uno furono costretti ad andarsene, senza lapidare la donna; nessuno era senza peccato. È arrivista perfino chi proclama di non competere per nessun posto, a differenza di tutti; eccolo: si è prontamente ritagliato il posto di chi non aspira a nessun posto.

Ciascuno vuole un posto. Eccome! Lo cerchiamo non per generica superbia o grossolana arroganza (certo, anche!), ma anzitutto perché spinti dalla terribile forza della paura delle paure: quella di esser stati abbandonati. Ci sentiamo messi al mondo già orfani, oppure trascurati da un genitore superficiale, distratto o incapace. “Il posto” ci darebbe un nome, un cognome, quell’identità che come orfani non abbiamo. Dietro ad ogni arrivista c’è uno che si sente orfano. Perciò non lo si cura a suon di sberle, ma con carezze che confortano e convincono. La colpa dell’arrivista non è di cercare a tutti i costi un posto, ma di non riconoscere che il suo posto c’è già, riservato solo a lui. Cristo non ci salva proibendoci di cercare un posto, ma aiutandoci a scoprire che il posto è già preparato, ampio, comodo, signorile, come gran signore è il Padre, così abbiente e facoltoso da possedere una casa dotata di posti per tutti e per ciascuno. Anche il mio. Perché spintonare?
[Giovanni Cesare Pagazzi –
L’Osservatore Romano]

Gesù è la via, la verità e la vita
At 6,1-7; Salmo 32; Pt 2,4-9; Gv 14,1-12

Le Parole che dice Gesù hanno spessore di eternità. Viviamo terra terra con pandemia, preoccupazioni e ansie, ma ascoltando Gesù ci arriva un soffio di Lassù.

Siamo giunti alla quinta domenica del nostro cammino pasquale. La liturgia della parola ci fa ascoltare in particolare una singolare definizione che Gesù ha dato di se stesso: Egli è la via, la verità e la vita. Infatti, il brano del vangelo odierno fa parte del “discorso di addio” o “testamento spirituale” di Gesù, che precede il racconto della sua condanna a morte. I discepoli sono scaraventati di fronte alla prossima partenza del Maestro. Gesù si preoccupa allora di esorcizzare dai propri amici la paura, di immunizzare il loro cuore contro il turbamento. Egli mette insieme una serie di istruzioni sul significato della sua missione, che ha il suo compimento nella morte come ritorno alla casa del Padre ed atto estremo di amore o fedeltà a Lui.

Il verbo “vado” torna con insistenza. Si tratta della sua partenza da questo mondo verso la casa del Padre, ed è la condizione per rendere possibile l’incontro definitivo e la comunione piena dei credenti con Dio. Non è un distacco definitivo, una separazione irrimediabile, è piuttosto un “allontanamento”, che non consiste in un’assenza vuota, ma in una presenza diversa e nascosta. Non va verso un luogo imprecisato, ma verso una Persona: il Padre (“Io vado al Padre”). Non se ne va per proprio conto, ma precede i suoi; va per prendere possesso di una dimora definitiva, di un posto, anche per loro. La morte di Gesù apre quindi una nuova prospettiva ai discepoli. Egli li consola e li rassicura: “Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”.

La persona del Padre risulta allora accessibile anche per i discepoli. Anche noi, attraverso la via che è Cristo, siamo incamminati verso la casa del Padre. Sono parole di speranza, poiché la morte per i credenti che seguono Gesù non è più una partenza verso l’ignoto, ma un ritorno verso una casa accogliente, quella del Padre. Pur essendo salito al cielo, Gesù rimane sempre con noi, come unica via, verità e vita. Egli è l’Emanuele, il Dio con noi. Nessuno va al Padre se non per mezzo di lui. È la domanda di Tommaso riguardante la meta del cammino di Gesù (“Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”) che offre lo spunto per queste parole di Gesù che rappresentano una delle dichiarazioni più alte della cristologia del quarto vangelo.

L’immagine di “via” mette in risalto il ruolo di Gesù, mediatore unico, universale e definitivo nei confronti di Dio. Egli è la “via” per accedere al Padre in quanto è la “verità”, cioè il Figlio che manifesta il Padre e lo rende presente nel suo disegno eterno di salvezza e di amore fedele verso gli esseri umani. In tal modo Gesù offre a tutti i credenti e suoi discepoli il dono della “vita”, come partecipazione a quella del Dio vivente.

Per la Chiesa primitiva non c’è differenza tra Gesù e la sua parola: essa considera e chiama “via” il vangelo, cioè questa via unica per andare al Padre ed ottenere da Lui la salvezza.

Anche noi, oggi, dobbiamo accogliere Gesù come la via e la verità che ci danno la Vita. Purtroppo, oggigiorno, ciascuno vuole inventare la propria via, anche sbagliata; abbracciare, assolutizzare e seguire le proprie verità, spesso soggettive e contrari al bene comune. Questi inganni di Satana e ideologie del male sono senza futuro. Il dialogo di Gesù con i discepoli prosegue con la domanda di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”.

Il Maestro coglie quest’occasione per precisare il suo rapporto col Padre. Non solo egli è l’unico mediatore per entrare in relazione con il Padre, ma è il suo volto visibile, la sua icona. È proprio per precisare che egli è la parola di Dio diventata carne, che prende stabile dimora tra gli uomini; egli, nella sua missione storica, rende Dio visibile. Egli quindi è in grado di rivelarlo e di trascinare in questo rapporto vitale quelli che lo riconoscono e lo accolgono come tale. Di qui l’invito ad accogliere le sue parole come quelle del Padre e a riconoscere che il Padre compie in lui le sue opere. Ne segue che chi ama ed ascolta e Gesù, non cammina nelle tenebre, ma ha la luce della vita, perché lui è la vera luce del mondo, ed è sorgente di gioia, vita e felicità per tutti i popoli della terra (Lc 2, 10). Salvare ognuno di noi è il suo desiderio ed entusiasmo. Chi è lontano da lui sta male ed infelice. Chi crede in lui e gli sta vicino nella vita e nella preghiera è felice e non ha paura.
Don Joseph Ndoum

Dalla paura al coraggio
di essere comunità creativa

Atti 6,1-7; Salmo 32; 1Pietro 2,4-9; Giovanni 14,1-12

Riflessioni

Le parole del Vangelo odierno hanno il sapore e l’emozione di un testamento, che Gesù affida ai discepoli dopo l’ultima cena, nelle ore prolungate dell’addio (Gv 13,31-17,26). Sono l’eredità che Gesù lascia ai suoi discepoli come prezioso insegnamento, poche ore prima di entrare nella sua via (v. 4.6): la via della croce-morte-risurrezione. Testamento ed eredità che, comunemente nella vita di tutti, diventano effettivi solo dopo la morte del testatore. Il caso di Gesù è diverso: non è il testamento di un morto, ma di un vivente. A ragione, quindi, la liturgia ci rivela questo testamento nelle domeniche dopo la Pasqua di Gesù, e ce lo fa gustare come parola viva del Risorto. Anzitutto, è una parola di conforto e di speranza per la comunità dei credenti, affinché non si lascino turbare ma siano forti nella fede (v. 1) e disposti a seguire i passi del Maestro sulla stessa via: il cammino verso la Pasqua, verso la casa del Padre. La casa del Padre, però, non è immediatamente il paradiso, ma è anzitutto la comunità dei credenti, dove pure ci sono “molte dimore” e c’è un posto per ciascuno (v. 2-3); dove i posti, le mansioni e i servizi da svolgere sono molti; dove il posto migliore è quello che permette di servire di più e meglio gli altri.

Aiutarsi come fratelli, lavarsi i piedi gli uni gli altri (Gv 13,14), senza titoli di classe, onore, prestigio… Tale era l’ideale e la forte testimonianza della comunità primitiva, nella quale c’era una differenza, l’unica, riconosciuta da tutti sin dall’inizio: la differenza in base al servizio (o ministero) richiesto e prestato alla comunità. È un appassionante tema missionario. Il messaggio del Vangelo di questa domenica e le esperienze della prima comunità cristiana (I e II lettura) contengono preziose luci per la missione della Chiesa. Il libro degli Atti (I lettura) presenta un quadro di difficoltà tipiche della missione, concrete e frequenti: riguardano la crescita numerica, la pluralità culturale della comunità (v. 1: conflitto fra ellenisti ed ebrei, con risvolti sociali ed economici), l’organizzazione dell’assistenza ai bisognosi… Per la soluzione vengono impiegati criteri che sono fondamentali per lo svolgimento della missione: ampia consultazione all’interno del gruppo (v. 2), ricerca di persone piene di Spirito e di sapienza (v. 3.5), definizione dei ministeri (v. 3.4.6) dei diaconi (servizio alle mense) e dei Dodici Apostoli (preghiera e servizio della Parola).

Oggi diremmo che la soluzione è stata trovata grazie ad un esercizio sinodale dell’autorità: nella collegialità e nella ministerialità, che hanno permesso di operare con pluralismo culturale e con decentramento. La Chiesa di Gerusalemme è uscita da quell’incidente più matura, arricchita di nuove forze per l’apostolato, più aperta alle esigenze culturali dei vari gruppi. È stata una soluzione creativa ed esemplare, che ha avuto immediati effetti di irradiazione missionaria: “e la parola di Dio si diffondeva”, con crescenti adesioni alla nuova fede in Gesù (v. 7). Si iscrive in questo contesto anche l’insistenza del Papa sulla preghiera per le vocazioni. (*)

Soluzioni di quella natura si addicono a un popolo che San Pietro (II lettura) chiama regale, santo, eletto da Dio (v. 9), chiamato a stringersi al “Signore, pietra viva”, e quindi, un popolo composto da “pietre vive” (v. 4.5). Ritorniamo qui al tema dei ruoli o servizi nella casa di Dio: non ha importanza che si tratti di pietre di facciata o di pietre nascoste nelle fondamenta. S. Daniele Comboni raccomandava ai suoi missionari per l’Africa: “Il missionario lavora in un’opera di altissimo merito sì, ma sommamente ardua e laboriosa, per essere una pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce, e che entra a far parte del fondamento di un nuovo e colossale edificio, che solo i posteri vedranno spuntare dal suolo” (Regole del 1871, Scritti, n. 2701). Ciò che importa è essere parte della comunità dei discepoli, contenti di essere popolo ed essere attivi nel servizio alla missione di Cristo, accoglienti e solidali verso le persone lontane, straniere, sole.

Gesù non è venuto a toglierci la sofferenza, ma a darci forza per affrontare le paure profonde della malattia, del futuro, della solitudine, della morte… “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza; è venuto a riempirla della sua presenza” (Paul Claudel). Nella conversazione con i discepoli (Vangelo), Gesù li invita a non lasciarsi turbare dalle paure (v. 1). Li esorta a credere in Lui, che è “la via, la verità e la vita” (v. 6). Parla della sua unità con il Padre, al punto che chi ha visto Lui ha visto il Padre (v. 9). Gesù è il primo missionario del Padre: lo ha rivelato e annunciato con la parola e con le opere (v. 11). Sorge qui la domanda fondamentale per la missione di tutti i tempi: oggi, a chi tocca rivelare il Padre e rivelare Gesù, il Salvatore del mondo? La sfida permanente del cristiano è poter dire: chi vede la mia vita e ascolta la mia parola, vede il Padre, vede Cristo! Qui ha le sue radici e la sua forza di irradiazione la missionarietà di ogni battezzato.

Parola del Papa

(*) “L’esistenza cristiana è tutta e sempre risposta alla chiamata di Dio, in qualunque stato di vita. Disse un giorno Gesù che il campo del Regno di Dio richiede tanto lavoro, e bisogna pregare il Padre perché mandi operai a lavorare nel suo campo (cfr. Mt 9,37-38). Sacerdozio e vita consacrata esigono coraggio e perseveranza; e senza la preghiera non si va avanti su questa strada. Invito tutti a invocare dal Signore il dono di buoni operai per il suo Regno, col cuore e le mani disponibili al suo amore”.
Papa Francesco
Nella Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni (3 maggio 2020)

P. Romeo Ballan, MCCJ