Padre Manuel João: «Amo la vita e mi piace ripetere che la vita è bella!»

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Giovedì 13 luglio 2023
Padre Manuel João Pereira Correia, missionario comboniano, vive da 13 anni con la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una malattia che cerca di affrontare con spirito missionario, serenità e con il “dono del sorriso”. Fr. Tomek Basinski, missionario comboniano polacco, gli ha fatto una breve intervista che pubblichiamo qui di seguito.

Com’è nata la tua vocazione missionaria?

La mia vocazione missionaria... è nata con me! Fin da bambino ho sentito il desiderio di essere sacerdote, forse per l’influenza di mia madre che, quando ero molto piccolo, durante la Santa Messa, mi chiedeva: «Manuelino, non ti piacerebbe essere sacerdote?». Questo desiderio è cresciuto con me, tanto che, quando mi chiedevano che cosa volessi fare da grande, rispondevo con convinzione: «Voglio essere prete!». I miei compagni e qualche membro della famiglia ridevano di me, ma il sogno è rimasto vivo.

Quando avevo dieci anni, alle elementari, venne un Comboniano e ci parlò con entusiasmo della vocazione missionaria. Quando ebbe terminato di parlare, ci chiese chi volesse andare in Africa con lui. Nessuno alzò la mano. Nemmeno io, per timidezza. L’insegnante, che forse aveva intuito che potevo essere un “candidato”, mi chiamò durante l’intervallo e mi presentò a quel promotore vocazionale. Alcuni mesi dopo, fui accettato in seminario. E così è nata la mia vocazione di sacerdote comboniano.

Devo sottolineare che la decisione di dare il mio “sì” definitivo al Signore non è nata da un chiarimento dei miei dubbi, ma da un’intima convinzione che, anche se il futuro avesse rivelato che la mia decisione era stata avventata o addirittura sbagliata, il Signore avrebbe dato senso alla mia storia. Questa convinzione è diventata per me una “promessa di senso”: «Sarò sempre con te per dare senso alla tua vita!». Questa promessa mi ha sempre accompagnato e ha illuminato i momenti difficili della mia vita.

Pochi giorni prima della mia ordinazione, mio padre mi confidò che, al momento del mio concepimento (sono il figlio primogenito), i miei genitori avevano fatto una specie di preghiera o consacrazione: «O Signore, se il nostro primo figlio sarà un maschio, te lo offriamo come sacerdote!». E aggiunse di non avermelo detto prima per non condizionarmi nella mia scelta. C’è anche un’altra confidenza di mia madre che mi ha commosso profondamente, ma la conservo gelosamente solo per me! In un certo senso, mi rivedo nella vocazione di Geremia, con i suoi dubbi, le sue paure e la sua timidezza, ma chiamato da Dio fin dal grembo materno!

Padre Manuel João Pereira Correia (secondo da destra), in Togo.

Hai lavorato in diverse comunità e paesi fino a quando, nel 2010, è successo qualcosa che ti ha costretto a tornare in Europa e rimanervi. Cos’è successo?

Ho iniziato ad avere difficoltà nel camminare e mi chiedevo che cosa fosse. All’inizio, ho pensato alla mancanza di esercizio. La sera, dopo aver terminato le mie attività, ho cominciato ad andare in bicicletta. Quando è stato chiaro che si trattava di qualcos’altro, sono andato da un neurologo, che mi ha consigliato di tornare immediatamente nel mio paese, il Portogallo, per fare degli esami e mi ha dato una lettera in una busta sigillata da presentare a uno specialista. Quando sono tornato a casa, l’ho aperta e ho letto il verdetto. Diagnosi probabile: sclerosi laterale amiotrofica (SLA). A Lisbona, questa diagnosi mi è stata confermata. Quando ho chiesto al medico quale sarebbe stata l’evoluzione della malattia, mi ha risposto: «Molto semplice: prima camminerai con le stampelle, poi sulla sedia a rotelle, poi...».

L’ho ringraziato per la franchezza e me ne sono andato. Sono tornato in Africa (Togo) per terminare gli ultimi mesi del mio servizio come responsabile dei Comboniani in Africa occidentale (Togo, Ghana e Benin) e alla fine dell’anno sono tornato in Europa.

Come hai reagito quando hai avuto la diagnosi del medico?

La prima notte ho pianto un po’, lo confesso, ma poi il Signore mi ha dato una grazia che non mi aspettavo: una grande serenità, che mi ha sempre accompagnato. Certo, all’inizio mi sono chiesto perché questa disgrazia era capitata proprio a me, ma mi sono subito dato la risposta: «E perché non sarebbe dovuto accadere a me? Sono forse un privilegiato?».

Pensavo spesso a quando sarei stato completamente intrappolato nel mio corpo, ma una certezza mi dava pace: «Non sarò solo. Il Signore sarà prigioniero dentro di me!». Pensavo anche alla possibilità di rimanere completamente isolato dalla realtà esterna, ma in me cresceva un’altra convinzione: «Avrò sempre la possibilità di vivere nel mondo interiore che c’è nella cattedrale del mio cuore!».

Il tuo ministero è certamente cambiato con il progredire della tua malattia…

Sì, assolutamente. All’inizio, mi aspettavo di vivere, al massimo, qualche anno. In effetti, ho visto amici morire della stessa malattia. Poiché il Signore mi ha dato qualche anno in più (sono già passati più di dodici anni!), ho pensato di dare il mio piccolo contributo nel campo della formazione permanente dei confratelli, creando un blog e condividendo con loro materiale formativo. Finché la mia situazione me lo ha permesso, mi sono offerto di collaborare con alcuni gruppi, dando la mia testimonianza e coltivando amicizie.

Una volta hai detto che la tua sedia a rotelle è diventata un pulpito per te... Cosa hai inteso dire?

Credo davvero che la mia sedia a rotelle sia il pulpito che Dio mi ha dato per proclamare la Parola di Dio. Credo che la nostra “croce” sia il luogo più appropriato per annunciare la Parola. Mi vedo come il profeta Giona nel ventre della balena, che mi conduce dove Dio vuole che io vada. Navigo nel mare della vita, tra le sue due sponde. Da un occhio della balena guardo la vita su questa riva, dall’altro occhio intravedo l’altra riva che ci aspetta, nella nebbia della fede e della speranza.

Ogni volta che mi vieni in mente, vedo un uomo sereno e sorridente. Da dove viene questa tua gioia?

Dalla serenità che mi ha accompagnato fin dall’inizio della mia malattia, e questa serenità è un dono di Dio. Ne sono certo, perché ero piuttosto preoccupato per i problemi di salute, che non mi mancavano in missione. Chiedo al Signore un sorriso ogni giorno.

Dal 2018 sei completamente paralizzato. Come vivi la dipendenza dagli altri?

È il mio modo di vivere il mio voto di povertà: essere nel bisogno e dover chiedere tutto! Ma è anche un modo per coltivare la gratitudine per ogni piccola cosa. Oltre a ringraziare Dio per tutte le persone che generosamente mi aiutano, cerco sempre di ricambiare con un sorriso sulle labbra e una benedizione nel cuore. Del resto, è molto facile perché tutti mi vogliono bene e mi coccolano!

Sei immobile, eppure riesci a comunicare con gli altri, come fai ora con me.

Sì, comunico principalmente con gli occhi, l’unica parte del mio corpo che posso ancora muovere. Con gli occhi scrivo, grazie ad un computer con apposito software che “legge” i movimenti dei miei occhi. Una delle tante meraviglie della tecnologia!

Come vivi la tua vocazione missionaria?

Amo la vita e mi piace ripetere che la vita è bella! Cerco di trasmettere questo senso di meraviglia alle persone intorno a me. Continuo a interessarmi del mondo e a seguire la vita della società, della Chiesa e della missione. Lo faccio per passione e per aggiornare continuamente il mio blog (www.comboni2000.org).

A volte le persone che sperimentano la malattia e la sofferenza provano dolore e rabbia verso Dio. Qual è oggi il tuo rapporto con Dio?

Nella malattia ho scoperto la generosità di Dio! Per alcuni anni, mi ha impressionato che il Signore mi facesse visita come un ladro. Sentivo che era una visita dolorosa. Spontaneamente, gli ho chiesto di non visitarmi come un ladro, ma di venire come un amico e di bussare alla mia porta, anche come un amico inopportuno, fino a costringermi ad aprirla, per amicizia o per forza! Quando il Signore mi ha visitato con la malattia, ho esclamato spontaneamente: «Signore, sei un ladro!». Ogni volta, mi portava via qualcosa. Poi, ho scoperto che è un ladro molto speciale: non ci toglie mai nulla senza lasciarci qualcosa di più prezioso!

Cosa diresti alle persone che hanno perso la speranza e sono infelici nella loro sofferenza e malattia?

Direi che la vita è sempre un’opportunità! Fin dall’inizio della mia malattia, mi ha accompagnato una convinzione: la vita non chiude mai una porta senza aprirne un’altra. Ma spesso siamo così ostinatamente attaccati a questa porta chiusa che non ci rendiamo conto che, nel frattempo, se ne apre un’altra.

All’inizio, la malattia era per me come un muro scuro che toglieva completamente ogni prospettiva di nuovi orizzonti. La convinzione che la vita è sempre un’opportunità mi ha portato a guardare questo muro con occhi diversi e a intravedere una porta – fino ad allora invisibile ai miei occhi – che mi ha offerto una nuova visione della vita, più profonda, più ampia e più bella, oserei dire! Naturalmente, la fede mi ha aiutato in questo processo. Certo, ci sono situazioni particolarmente tragiche, difficili da accettare e da gestire. Per il credente è l’ora della speranza e della fede nel trionfo della vita, di cui la croce e la morte sono la gestazione. Al non credente, direi di fidarsi dell’istinto della bellezza della vita. Anche questo è un cammino di speranza che ci conduce, seppure inconsapevolmente, alla Vita!

Intervista di Fr. Tomasz Basiński
missionario comboniano