Ci somiglia l’Apostolo Pietro. Con slancio e generosità ha appena risposto a nome di tutto il gruppo alla domanda di Gesù, proclamandolo come il Cristo e riconoscendolo come Messia. Tuttavia, come il resto dei suoi fratelli e come spesso anche noi, egli ha in mente un’altra idea di Messia, che naufraga dinanzi all’annuncio della morte di croce e della risurrezione. (...)

Parole dure, pensieri tristi?

Se qualcuno vuole venire dietro a me...
Matteo 16,21-27

Il vangelo di questa XXII domenica è la continuazione di quello di domenica scorsa, avendo Pietro come protagonista. Ci presenta il primo dei tre annunci della passione, morte e risurrezione di Gesù ed è un concentrato della seconda parte del vangelo.

1. Un dittico inquietante!

Si potrebbe dire che i due brani, quello di oggi e quello di domenica scorsa, formano un dittico insolito: da una parte, una icona luminosa con un San Pietro entusiasta, ispirato, che proclama Gesù il Messia ed è dichiarato beato da Gesù e stabilito quale pietra di fondazione della Chiesa; dall'altra, una icona grigia con un San Pietro scandalizzato dalle parole di Gesù, che rimprovera il Maestro e che, a sua volta, viene sgridato da Gesù e dichiarato satana e pietra d'inciampo. Difficile immaginare un contrasto più netto! Esso è, tuttavia, un perfetto specchio della nostra realtà!

2. Un nuovo inizio!

Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.
Cominciò: si tratta di un nuovo inizio. E qui troviamo un vero spartiacque nei tre primi vangeli. Da oggi in poi si cambia di rotta e di discorso. “Ognuno di noi ha qualcosa a cominciare” (Emmanel Levinas). La vita non è mai un continuum. Il problema è discernere quando è il momento di cambiare passo o di cominciare qualcosa di nuovo. Ebbene, dopo l'indagine di domenica scorsa, Gesù decide di “cominciare a spiegare”.

Cosa deve spiegare? “Che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto”. Perché “doveva”? potremmo domandarci. Era per caso “la volontà di Dio”?! Parliamo tanto di “fare la volontà di Dio” e lui viene, invece, a sottomettersi alla nostra! Forse sbaglio, ma parliamo troppo della volontà di Dio, associandola spesso al male, alla sofferenza, all'ingiustizia, da subire ed accettare, piuttosto che associarla al bene, alla giustizia, all'amore, da desiderare e cercare! E così rischiamo di maltrattarla, deturpandola.
Gesù doveva andare a Gerusalemme, “la città che uccide i profeti”, perché aveva deciso di andare fino in fondo nella sua solidarietà totale con la nostra umanità! Si tratta del dovere dell'amore!

In conclusione, Gesù vuole spiegare che lui non è il genere di Messia che tutti si attendono: un messia-re che dovrebbe “ristorare il regno di Israele” (Atti 1,6); un messia-giudice che dovrebbe giudicare gli empi (Matteo 3,12). Il suo messianismo è quello del Servitore sofferente profetizzato da Isaia 53, giudicato e condannato dalle autorità politiche e religiose. Ecco perché questo annuncio semina lo scompiglio tra i suoi discepoli. E tra noi pure, ammettiamolo! Da qui la reazione di Pietro a nome dei discepoli e a nome nostro!

3. Chi ci abita: Dio o satana?

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo!”. “No, non dire tali cose, questo non potrà capitarti mai! Tu sei il Messia, il Figlio di Dio!” La reazione di Gesù è durissima, perfino sproporzionata ed ingiusta, direi. “Va’ dietro a me, satana!”. E così il povero Pietro precipita dalle altezze della rivelazione dal cielo alle profondità dell'abisso! Diciamolo pure, Pietro ne ha avuto di coraggio! Il coraggio che manca a noi, purtroppo, che preferiamo tenerci dentro quello che pensiamo davvero, per non essere sgridati come è stato lui. E così il nostro “satana” rimane ben nascosto dentro di noi, dietro la bella facciata del perbenismo e delle nostre “pratiche di pietà”.

4. Gesù prende le distanze!

Quello che più m'impressiona nella reazione di Gesù, oltre la durezza, è le distanze che lui sembra prendere dai suoi: “Se qualcuno vuole venire dietro a me...”. Non dice: “se volete venire...”, ma usa un linguaggio impersonale, come se fosse disposto perfino a congedarli. Un po' come in quella drammatica diserzione, dopo il discorso a Cafarnao: “volete andarvene anche voi?” (Giovanni 6,67). Questo modo duro avrà ferito profondamente il cuore dei discepoli. Anche il nostro, direi. Pensandoci bene, Gesù sarebbe pronto a fare lo stesso anche con noi, oggi. Lui non è uno che ci correrebbe dietro per convincerci a rimanere, magari scendendo a compromessi! Sì, lui è il Buon Pastore che ama e ci tiene alle sue pecorelle, ma si rifiuta di violare la loro libertà. Patti chiari, amicizia lunga!
Come non fare nostro allora lo sfogo del profeta Geremia?!: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre... Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente... mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.” (Prima lettura, Geremia 20,7-9)

5. Il simbolismo della cifra 3

Un altro aspetto del testo che attira la mia attenzione è la sua struttura basata sul numero 3, simbolo della perfezione e della completezza, che sottolinea l'importanza del contenuto:
- Gesù allude al triplice aspetto del “mistero pasquale”: Passione-Morte-Risurrezione;
- Tre volte Gesù annuncerà la sua passione e ogni volta ci sarà una reazione negativa degli apostoli, seguita da una triplice catechesi di Gesù;
- Gesù sarà perseguitato da tre categorie di persone: dagli anziani (custodi della tradizione e del potere), dai capi dei sacerdoti (custodi della religione) e dagli scribi (custodi della Legge);
- Gesù pone tre condizioni per seguirlo: rinnega te stesso, prendi la tua croce, segui me!;
- Gesù presenta tre argomenti sapienziali per provare che le condizioni per seguirlo, a prima vista tanto dure, sono in realtà le uniche sensate.

6. La messa in gioco: la vita!

La parola “vita” è la più ricorrente nel nostro testo (4 volte), insieme ai verbi ad essa connessi: perdere (3), salvare, trovare, guadagnare. Trovo questo significativo. Quello che è in gioco è la vita: perderla o trovarla! Chi investe sull'immediato finirà per essere un perdente. Chi investe con coraggio, generosità e larghe vedute sarà un vincente!

Per la riflessione e preghiera personale

- Trova un momento di calma per meditare sul testo della seconda lettura:
Vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. (Romani 12,1-2)
Un augurio: che le parole dure di Gesù non ci lascino tristi, ma pensierosi!...

P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d'Azzano (Verona), settembre 2023

La croce, cammino missionario, per amore di Cristo

Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27

Riflessioni
Splendida l’affermazione di Pietro nel Vangelo di domenica scorsa: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!” (Mt 16,16). Ma non è ancora tutto sull’identità di Gesù. È importante affermare la divinità di Gesù Cristo, ma forse è ancor più difficile affermare la sua umanità, con la conseguente possibilità di soffrire e di morire (Vangelo). Per questo, Gesù, dopo aver elogiato Pietro per la professione di fede nella sua messianicità, dà inizio ad una nuova fase nella sua predicazione: “Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli…” (v. 21). Proprio come agli inizi della vita pubblica, dopo la fase preparatoria (battesimo nel Giordano e tentazioni nel deserto), Matteo scrive: “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire ‘convertitevi’...” (Mt 4,17).

Nel battesimo e nel deserto, Gesù aveva fatto scelte ben precise circa il modo di realizzare la missione ricevuta dal Padre per la salvezza dell’umanità: la scelta di vivere da figlio e fratello, di rinunziare ai mezzi facili e illusori del potere, la gloria, il benessere, di stare dalla parte dei deboli… Fedele alle sue scelte, fatte secondo il cuore di Dio, Gesù avanza con determinazione verso la sua ora, cammina verso Gerusalemme, disposto alle estreme conseguenze. Ne parla con i discepoli; la reazione di Pietro è logica, istintiva; ognuno di noi avrebbe reagito allo stesso modo. Ma Gesù non accetta compromessi, revisioni al ribasso, o sconti da parte di chi pensa solo alla maniera umana, secondo la carne e il sangue (v. 17.23). Gesù rivela con chiarezza lo scontro, l’incompatibilità fra il pensare secondo Dio o il pensare secondo Satana, secondo gli uomini (v. 23).

Su queste premesse, il Vangelo odierno prosegue nella rivelazione dell’identità di Gesù con nuovi approfondimenti: Egli non è solo il Messia-Cristo, il Figlio di Dio (v. 16), ma è anche il servo, che deve “soffrire moltovenire ucciso e risorgere” (v. 21). Gesù ritiene che, nella nuova famiglia appena annunciata, che è la Chiesa (cfr. Vangelo di domenica scorsa), anche i suoi discepoli dovranno condividere le sue scelte, percorrere la stessa strada, se vorranno continuarne la missione. Per questo, Gesù parla apertamente ai suoi discepoli della necessità di rinnegare sé stessi, prendere ognuno la propria croce e seguirlo, perdere la propria vita per causa sua (v. 24-25), farsi samaritani e cirenei dei più deboli, ribellarsi al conformismo, all’indifferenza, all’individualismo che schiavizzano, optare per Cristo e per l’annuncio del Vangelo, dono di vita e di libertà. (*)

Prima di essere un’esortazione morale e ascetica ad accettare con pazienza e rassegnazione le tribolazioni, le malattie e la morte, queste parole esigenti sono un invito per il discepolo a identificarsi con il progetto di Gesù e a condividerne le scelte e il cammino. La scelta che Gesù fece nel deserto, respingendo le tentazioni di Satana (circa il dominio, il benessere fisico e il miracolo facile), lo portò inevitabilmente alla sua condanna!

L’espressione “prendere la propria croce” non è un invito a cercare la sofferenza; Gesù non è un masochista, non elogia, non esalta la sofferenza; ma piuttosto guarisce e aiuta coloro che soffrono. La croce è la conseguenza del vivere secondo la logica dell’amore, del donare, servire, lavare i piedi. La croce è la conseguenza di stare dalla parte dei deboli, di chi soffre, di chi non conta. Quindi la croce non è solo un fardello da portare con rassegnazione, ma la conseguenza necessaria di una scelta liberamente fatta da Gesù nel deserto. Egli è sicuro della sua scelta, rifiuta le proteste di Pietro, nuovo satana (v. 22.23), e lo rimette al suo posto di discepolo: “Va’ dietro a me” (v. 23). Pietro non è chiamato a decidere i passi del Maestro, ma a seguirli. Altrimenti la ‘pietra di costruzione’ (v. 18) diventa pietra d’inciampo, diventa scandalo, satana (v. 23).

“Pietro siamo tutti noi. La sua reazione è la reazione umana ed istintiva di ognuno di noi. Passare dalla logica degli uomini alla logica di Dio concretamente oggi vuol dire, per esempio, passare dallo slogan: ‘padroni a casa nostra’ alla cultura del ‘siamo tutti cittadini del mondo. Vuol dire costruire ponti e non muri; costruire città dove nessuno si senta straniero. Prendere la croce, vuol dire, come fece Gesù, non tacere di fronte alle ingiustizie, alzare la voce contro chi abusa del suo potere, non accettare che Dio venga usato come una bandiera per calpestare i diritti della povera gente” (R. Vinco, Verona).

Come il profeta, che spesso diventa incomodante (I lettura), anche il missionario, sedotto dal Signore (v. 7), ha dentro di sé “un fuoco ardente” (v. 9) che lo spinge a superare gli scoraggiamenti e le avversità. E ad offrirsi anima e corpo (II lettura) “come sacrificio vivente”, per un “culto spirituale” (v. 1), rinnovando il proprio modo di pensare, “per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e prefetto” (v. 2). La natura stessa della missione impone a coloro che annunciano il Vangelo di prendere ispirazione dall’unico Maestro e Salvatore: Cristo. La storia delle missioni è piena di apostoli santi, appassionati per Cristo e per l’umanità: Francesco d’Assisi, Teresa d’Ávila, Daniele Comboni, Oscar Romero, Teresa di Calcutta, Francesco Saverio… che hanno optato per Cristo piuttosto che guadagnare il mondo intero (Mt 16,26). Allo stesso modo, i numerosi martiri di ogni tempo. La fedeltà radicale a Cristo è condizione indispensabile di efficacia apostolica. E di vera felicità nel servizio missionario.

Parola del Papa

(*) “Oggi molto spesso sperimentiamo che la nostra fede viene messa alla prova dal mondo, e in moltissimi modi ci vien chiesto di scendere a compromessi sulla fede, di diluire le esigenze radicali del Vangelo e conformarci allo spirito del tempo. E tuttavia i martiri ci richiamano a mettere Cristo al di sopra di tutto e a vedere tutto il resto in questo mondo in relazione a Lui e al suo Regno eterno… Cristo continua a chiamare, ci chiede di amarlo e servirlo tendendo la mano ai nostri fratelli e sorelle bisognosi”.
Papa Francesco
Omelia nella Beatificazione di 124 martiri della Corea, Seoul, 16-8-2014

P. Romeo Ballan, MCCJ

Cristo non vuole una religiosità
del “quieto vivere”

Matteo 16, 21-27

Ci somiglia l’Apostolo Pietro. Con slancio e generosità ha appena risposto a nome di tutto il gruppo alla domanda di Gesù, proclamandolo come il Cristo e riconoscendolo come Messia. Tuttavia, come il resto dei suoi fratelli e come spesso anche noi, egli ha in mente un’altra idea di Messia, che naufraga dinanzi all’annuncio della morte di croce e della risurrezione.

Adesso Pietro è smarrito, la sua umanità cede alla paura, i calcoli “umani, troppo umani” che ha fatto sono stati rovesciati: il Messia non è immagine di un Dio potente e vittorioso, che sconfigge i nemici e ci trascina di gloria in gloria, ma è il segno vivente del Dio dell’amore che perde se stesso, si abbassa, lava i piedi all’umanità stanca, si annulla nel dramma della sofferenza umana e sceglie di morire pur di strappare dall’abisso della morte la creatura che ama. Dinanzi a questo progetto, che gli richiede impegno, sacrificio, donazione e amore, Pietro si spaventa e Gesù lo rimprovera duramente: lo aveva definito “pietra” dell’edificio del Regno, ora lo definisce “pietra di inciampo, ostacolo, addirittura Satana”.

Così è anche della nostra vita e della nostra fede. Siamo abitati da luci e ombre e, mentre con slancio ci appassioniamo e compiamo dei passi, allo stesso tempo la paura di impegnarci e di amare spesso ci trattiene, scalfisce le nostre presunte sicurezze e abbassa i nostri voli; così, nel cammino spirituale, a certi slanci del momento e a certi generosi impegni, corrisponde anche un immaginare Dio come una specie di “potente protettore” che mi mette al riparo dalle sfide della vita, un Dio a “uso e consumo” della mia vita, un Dio che utilizzo per la mia gloria o, molto spesso, un Dio dal quale non mi lascio mai “toccare dentro”, che non mi scuote, non mi ferisce, non sconvolge i miei schemi e non incide nelle mie scelte.

Questa religiosità del “quieto vivere”, che dispensa una falsa tranquillità e non mi smuove, che mi accarezza senza però mai mettermi in discussione sull’amore, non è quella che il Cristo vuole. Vai dietro di me, dice Gesù a Pietro. Per essere davvero cristiano devi seguire Cristo e andargli dietro, cioè vivere sulle sue orme: perdere la propria vita a vantaggio dell’altro, impegnarsi con coraggio nel bene, offrire se stessi per seminare speranza, tenerezza e perdono. In una parola: morire come Cristo. Prendere la croce di Gesù nella propria vita significa scegliere di non pensare più nel semplice calcolo umano, che si gioca sulla bilancia degli egoismi; significa scegliere di battere la via dell’amore, del dono di se, del bene a tutti i costi.

Una grande lezione per Pietro e per noi: non basta “sapere” chi è Dio e avere delle belle nozioni teoriche su di Lui; bisogna mettersi dietro di Lui e condividere il suo progetto. Essere cioè quel piccolo seme d’amore che muore e, nella tempesta del mondo, porta frutti di speranza e di vita.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Passare
dal privilegio al servizio

Geremia 20,7-9; Salmo 62/63; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27

Il brano evangelico, che dà l’intonazione alla liturgia della parola di questa domenica, presenta le condizioni per seguire Gesù. Esse sono concentrate nell’espressione “portare la croce” al seguito del “Maestro” per condividerne il destino. Nel testo della prima lettura, che riporta una sezione delle “confessioni” del profeta Geremia, viene come anticipata l’esperienza della crisi dei discepoli, chiamati a seguire Gesù anche al costo della vita, ma per avere la pienezza di quella stessa vita.

Infatti, avversato e contraddetto nella sua missione profetica, Geremia aveva l’impressione di essere stato tradito da Dio. L’abbraccio e lo scherno lo avvilisce e lo sconvolge. Ma l’attrattiva del Signore, la sua chiamata, risulta sempre più forte di questa crisi provocata dal duro impatto con l’ambiente ostile in cui egli deve proclamare la parola di Dio. Lo contestano perché egli dà fastidio con le sue prese di posizioni che denunciano i soprusi e le violenze dei suoi compaesani. Il rapporto tra ricerca di Dio e dono della vita è presente anche nelle parole del salmo responsoriale: “poiché la tua grazia vale di più della vita … così ti benedirò finché io viva”. Il miglior commento del brano di Geremia è la preghiera di questo salmo 62 introdotta dal canto: “Ho sete di te, Signore, l’anima mia”.

Nel brano della lettera di Paolo ai Romani, che sembra estraneo alla tematica evangelica, l’apostolo delle nazioni invita a scegliere tra l’adeguamento alla mentalità mondana e l’adesione integra a Dio. Non basta una celebrazione rituale della liturgia, o una semplice memoria (rituale) del sacrificio di Cristo, se poi non è toccata la vita, e se non sbocca nell’attuazione della sua volontà. Questo dice Paolo, è il culto spirituale dei cristiani. L’apostolo insiste quindi sul rapporto tra liturgia eucaristica e culto spirituale, esistenziale che si deve realizzare nella vita di tutti i giorni.

Nel brano evangelico, i discepoli, per bocca di Pietro, erano arrivati a dire chi è Gesù: il Cristo, il Messia, Figlio di Dio. Ora si tratta per Gesù stesso di chiarire o precisare il suo destino, la sua missione e la strada da percorrere. I discepoli vengono così introdotti improvvisamente nel discorso sul dramma della croce, non dovuto ad una crudele fatalità o ad un cieco destino determinato dalla cattiveria degli uomini, ma da un disegno di salvezza voluto da Dio.

Infatti, il piano della salvezza non può realizzarsi se non passando attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Il linguaggio della croce e la prospettiva che il destino di Gesù ne sia contrassegnato, appare insopportabile a Pietro (a causa di ciò di cui egli è stato spettatore e protagonista: la camminata di Gesù sulle acque e la sua professione di fede messianica riguardante Gesù, il quale, paternalistico e presuntuoso, protesta: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”. Pietro avverte soltanto il dolore, l’umiliazione, la sconfitta, ma non ha il fiato sufficiente per arrivare al mattino della Risurrezione.

La croce non rappresenta un punto di arrivo, è semplicemente un passaggio, sia pure obbligato. Bisogna saper vedere al di là della croce. Inoltre per strano che possa sembrare questo disegno di Dio basato sull’ignominia della croce, chi vi si oppone o vi mette degli intralci, è giudicato da Gesù come un Satana: “Lungi da me, Satana! Tu sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Si tratta qui della vera definizione del termine “Satana”, cioè un ostacolo sulla strada, e qui, un ostacolo alla missione di Gesù. In modo inconscio, Pietro non si colloca più nella posizione di un discepolo, e Gesù lo invita a riprenderla. Vuole essere “consigliere di Dio”, invece di esserne il discepolo.

Tutti noi abbiamo forse troppo spesso lo stesso atteggiamento di Pietro, soprattutto quando si tratta di scansare le croci e le sofferenze; coltiviamo più o meno consciamente la vocazione di mettere Dio in processo o di insegnargli il suo mestiere Divino e il modo di governare il mondo.

Domenica scorsa Pietro è stato proclamato beato da Gesù (perché ha accolto un suggerimento, una rivelazione dall’alto. Adesso diventa Satana, perché lascia parlare l’istinto umano, nel senso dei desideri terreni e delle ambizioni messianiche trionfalistiche. Non si era sbagliato circa l’identità di Gesù, ma si sbaglia adesso circa il modo di intendere la sua missione. Da “roccia” di fondazione della comunità messianica, egli diventa pietra in cui si inciampa. Gesù aggiunge allora che chi vuole essere suo discepolo deve rimanere se stesso e condividere a tutti i costi il suo destino per prendere parte alla sua gloria finale. Egli definisce il profilo del discepolo. La prima condizione per seguire Gesù è l’autorinnegamento e il portare la croce. Questo significa “perdere la propria vita” per restare fedeli a Gesù. Ma chi la perde a causa di Gesù è sicuro di ritrovarla. Il discepolo non deve illudersi quindi di salvarsi a basso prezzo, occorre passare attraverso la stessa strada per cui il Maestro è passato. Lui alla fine sarà il giudice glorioso davanti al quale si deciderà il destino glorioso davanti al quale si di deciderà il destino di ogni uomo sulla base delle proprie azioni. Si tratta in fin dei conti di entrare nella logica di Gesù che affronta la sua sorte come scelta di fedeltà totale al Padre per approdare alla vita piena della risurrezione.

La meta che dà senso al fatto di portare la croce, di perdere la vita, i beni e il potere mondano è quindi questa vita piena e definitiva promessa a chi condivide la fedeltà a Gesù. Infatti, “qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”.
Don Joseph Ndoum