«Dicci il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?» (Mt  22, 16-17). La domanda che i farisei e gli erodiani propongono a Gesù nasconde l’intenzione di cogliere in contraddizione il Maestro, per minarne l’autorevolezza. L’insegnamento del Signore, infatti, sta diventando troppo imbarazzante, per la concretezza e per la radicale semplicità che non permettono una risposta indifferente o vaga. (...)

Qual è la tua “moneta”:
Quella di Cesare, l'imperatore, o quella di Pietro, il pescatore?

Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio
Matteo 22,15-21

Oggi la Chiesa celebra la Giornata Missionaria Mondiale. Accogliendo il messaggio del Papa per questa Giornata, chiediamo di “Ripartire con cuori ardenti, occhi aperti e piedi in cammino”, come i due discepoli di Emmaus!

Vi ricordate certamente che le ultime tre domeniche Gesù ha raccontato tre parabole ai capi dei sacerdoti e ai farisei: quella dei due figli mandati a lavorare nella vigna, poi dei vignaioli assassini e, finalmente, degli invitati alle nozze. Tutte e tre una durissima condanna dei capi religiosi e politici di Israele. La tensione fu un crescendo e il destino di Gesù era ormai segnato. Si era messo tutti contro di lui e i capi avevano deciso di ucciderlo. Mancava solo il pretesto. Allora “i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi”.

1. Il tranello!

Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani”.
Ecco, gli avversari si coalizzano, anche se nemici tra di loro, nell'intento di trovare un modo per poter eliminare Gesù. Gli erodiani volevano unificare il paese sotto l'egida di Erode, sottomesso Roma. I farisei, invece, anche se moderati rispetto ai zeloti indipendentisti radicali e talvolta violenti, aspiravano all'autonomia da Roma.

I farisei, però, non si azzardano ad andare loro stessi da Gesù e mandano i loro discepoli. Come mai? Per nascondere la loro mossa? Per farla passare come una questione di dibattito di scuola? Ebbene, questi discepoli esordiscono tessendo un lungo elogio al “Maestro”, riconoscendo la sua veracità e imparzialità, prima di presentare la loro questione, concordata con gli erodiani: “Dunque, di' a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?” Il tranello era ben ingegnato. Se Gesù rispondeva “sì”, si sarebbe inimicato la gente, che odiava i romani. Se rispondeva “no”, potevano accusarlo di sovversivo (cosa che faranno comunque davanti a Pilato: cfr. Luca 23,2).

2. Gesù, maestro di discernimento

Nella risposta di Gesù intravvedo, nonostante la sua brevità, una grande lezione sul discernimento e, concretamente, quattro indicazioni preziose.

1) “Ipocriti!”
Primo passo: Gesù si manifesta una persona libera, come d'altronde avevano già riconosciuto i suoi avversari. Non si lascia cooptare dall'adulazione farisaica. L' “incenso” può offuscare gli occhi e la mente. E qui noi inciampiamo tante volte. Ci lasciamo condizionare dagli elogi o dalla opinione altrui, che limitano la nostra libertà e la chiaroveggenza. Gesù discerne perché è libero ed è libero perché discerne!

2) “Perché volete mettermi alla prova?”
Gesù risponde spesso ad una domanda con un'altra domanda. Porre delle domande a chi ci questiona è un modo di coinvolgere la persona stessa e farla riflettere. Un approccio passivo ai problemi è stato uno dei grandi handicap per il laicato cristiano, frutto di un clericalismo che ha imperato per secoli. Il prete era diventato come una macchinetta di risposte automatizzate. Il laico cristiano inseriva la monetina della “domanda” e otteneva la risposta bella pronta, preconfezionata. E noi ci siamo prestati al gioco! Purtroppo questo è stato anche l'atteggiamento della Chiesa davanti alla società, fino a qualche decennio fa. Questa pretesa di fare da “maestra”, sempre, comunque e in qualsiasi materia, mi pare una delle cause maggiori dell'attuale discredito della Chiesa nel contesto della cultura occidentale.

Mi sembra, invece, urgente imparare a dire: “Non lo so!”, riconoscendo la nostra incompetenza davanti a situazioni tanto problematiche del mondo attuale e mettendoci umilmente in ricerca. Confrontati con la complessità e la novità di tante “questioni”, non possiamo che adottare l'umile risposta del veggente dell'Apocalisse alla domanda di uno degli Anziani: “Signore mio, tu lo sai!” (Apocalisse 7,14).

3) “Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono? Gli risposero: Di Cesare”
Ecco il terzo passo di Gesù nel discernimento su questa spinosa questione, apparentemente senza via di uscita: scendere nella situazione concreta! Questa mossa di Gesù spiazza i suoi interlocutori. Perché? Il denaro, la moneta d'argento più corrente, portava l'effigie dell'imperatore romano Tiberio (14-27 d.C.), raffigurato come un dio, con l'iscrizione: “Tiberius Caesar, Divi Augusti Filius Augustus”, e nel retro: “Pontifex Maximus” (Tiberio Cesare Augusto, figlio del divino Augusto, Pontefice Massimo). L'uso della moneta era una implicita riconoscenza della sovranità romana. Ma c'era qualcosa di ben più grave. La discussione si svolgeva all'interno del Tempio di Gerusalemme, dove era proibito introdurre qualsiasi immagine e tanto meno del Cesare, raffigurato in vesti di un dio. Nel Tempio circolava una moneta speciale e per questo c'erano i cambiavalute all'ingresso. E proprio loro, i discepoli dei farisei, trasgrediscono questa norma, introducendo una moneta pagana nell'area sacra del Tempio. Così, loro che volevano cogliere Gesù in fallo, sono loro stessi ad essere colti in fallo.

4) “Allora disse loro: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio!”
Il quarto momento del discernimento è un invito ad uscire dall'angusto ambito della situazione concreta per vederla ad una luce più ampia e con un orizzonte più largo. La “questione” isolata, assolutizzata, diventa una verità parziale. Solo un lume esterno più ampio la ridimensiona ed aiuta a vederla nella giusta prospettiva.

Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” è una delle frasi più famose del vangelo, ma pure delle più enigmatiche. Viene spesso strumentalizzata come se ci fossero due ambiti autonomi di responsabilità. Delle “cose terrene”, rispondo al “Cesare”. Delle “cose spirituali”, invece, rispondo a Dio. Ma cosa “appartiene” a Cesare? Appartiene la responsabilità dell'ordine e la pace sociale, il garantire la libertà e la giustizia! E cosa appartiene a Dio? Tutto! “Io sono il Signore e non c'è alcun altro, fuori di me non c'è dio” (vedi prima lettura, Isaia 45,1.4-6). Ogni autorità dovrà rispondere davanti a Dio del bene dell'uomo che le è stato affidato: “Ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca” (ancora dalla I lettura). Ecco perché il cristiano non potrà mai abdicare del suo libero arbitrio, del rispetto della sua coscienza e della sua capacità critica. “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (Atti degli Apostoli 5,29).

Una domanda che tutti dovremmo porci è proprio questa: a chi appartengo io? Ad una famiglia, una professione, un gruppo sociale, un popolo, una nazione? Sicuramente! Ma Gesù ci ricorda la nostra appartenenza fondamentale: Tu appartieni a Dio!

3. La moneta di Gesù e Pietro

Il denaro di Cesare portava la sua immagine come segno della sua proprietà. L'uomo creato “a immagine e somiglianza di Dio” (Genesi 1,26-27), porta nel suo spirito l'impronta della sua appartenenza al Signore. Ecco, quindi, la rivendicazione di Gesù: “Rendete a Dio quello che è di Dio!”

Permettetemi un'immagine azzardata. La moneta dell'imposta a Cesare mi porta a pensare a quella moneta che Pietro, per indicazione di Gesù, estrae dalla bocca del pesce per pagare il tributo per il Tempio (Matteo 17,24-27). Una sola moneta per Gesù e per Pietro, entrambi associati in quella moneta. Quale immagine portava quella moneta? L'immagine di... Cristo davanti, quella di Pietro nel suo riverso. Quella di Cristo davanti, quella tua nel suo riverso. Tu appartieni a Cristo e Cristo ti appartiene ed entrambi al Padre!

Per la riflessione personale
Vi invito a leggere il bello e stimolante messaggio del Papa per la Giornata Missionaria Mondiale.

P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d'Azzano (Verona), ottobre 2023

Missione è annunciare la priorità di Dio e la salvezza in Cristo

Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; 1Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21

Giornata Missionaria Mondiale
22 ottobre 2023

Riflessioni
Nel Vangelo Gesù smonta la trappola che i farisei e gli erodiani gli stavano tendendo sul tema spinoso delle tasse da pagare all’imperatore di Roma, al quale era assoggettata la Palestina al tempo di Gesù. «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (v. 17). In qualunque modo avesse risposto a quella domanda maliziosa, Gesù sarebbe stato accusato di stare pro o contro Roma.  Gesù va oltre i due schieramenti polemici; distingue, anzi capovolge il modo di intendere l’autorità politica-umana e l’autorità suprema di Dio. La “moneta del tributo” in questione (v. 19), d’oro o altro metallo, era coniata dall’imperatore, che ne era il proprietario; il debitore ne era soltanto un proprietario temporaneo, con l’obbligo di resa-restituzione all’imperatore. Un dovere che anche Gesù riconosce (v. 21).

Ma quella moneta portava la scritta “al divino Cesare” o “al dio Cesare”, iscrizione che Gesù rifiuta e ribalta profeticamente: “Rendete a Dio quello che è di Dio” (21). Cesare può avere un certo diritto sulle cose, ma non sulle persone. «Cesare non ha diritto di vita e di morte sulle persone, non ha il diritto di violare la loro coscienza, non può impadronirsi della loro libertà. A Cesare non spetta il cuore, la mente, l’anima; spettano a Dio solo. Ad ogni potere umano è detto: non appropriarti dell’uomo. L’uomo è cosa di un Altro. Cosa di Dio… Per Gesù Dio non è il potere oltre ogni potere, è amore. Non è il padrone delle vite, è il servitore dei viventi. Non un Cesare più grande degli altri cesari, ma un servo sofferente per amore. Tutt’altro modo di essere Dio» (E. Ronchi).

La Parola di Dio in questa domenica getta una luce nuova sui rapporti fra uomo e uomo, fra uomo e Dio, fra l’uomo e le altre creature; fra religione e Stato, fra Vangelo e politica, missione e libertà religiosa, fede e libertà di coscienza, Chiesa e governi, laicità dello Stato e imperativi etici… Sono rapporti delicati e complessi, che toccano da vicino la coscienza individuale delle persone, ma anche il lavoro di chi annuncia il Vangelo a tutto campo. In particolare, la libertà religiosa, valore sancito dal Concilio Vaticano II, non esime, anzi richiede la proposta missionaria del Vangelo di Cristo, in vista di una libera scelta personale e delle ricadute nell’ambito familiare e sociale.

La risposta di Gesù sancisce l’autonomia delle due sfere di azione, umana e divina (v. 21), rivendicando, qui e in altri passi del Vangelo, la priorità di Dio, dal quale tutti gli esseri ricevono vita, destino, senso. Una sana autonomia esige chiarezza di ruoli, rispetto mutuo, collaborazione nella complementarietà e sussidiarietà, evitando sia le intrusioni di un sistema teocratico, come pure le evasioni di uno spiritualismo intimista. Tutti, però, sono chiamati a sostenere le iniziative per la promozione integrale della persona e lo sviluppo solidale dell’umanità. In questa luce, anche l’azione politica del re persiano Ciro (I lettura), definito “eletto” di Dio (v. 1), è vista in chiave di salvezza per il popolo ebraico, schiavo a Babilonia. Così pure, la crescita spirituale dei cristiani (II lettura), con i valori di fede operosa, carità impegnata e speranza ferma (v. 3), ha certamente conseguenze salutari per la convivenza familiare, politica e sociale.

Priorità di Dio, salvezza in Gesù Cristo. conosciuto e amato da tutti, perché tutti trovino in Lui vita, dignità, salvezza piena… Sono questi gli obiettivi dell’opera evangelizzatrice della Chiesa, che oggi celebra la Giornata Missionaria Mondiale. (*) Perché, come afferma ancora Papa Francesco: “Oggi c’è ancora moltissima gente che non conosce Gesù Cristo; … l’umanità ha grande bisogno di attingere alla salvezza portata da Cristo”. Di fatto, annunciare il Vangelo è il migliore servizio che la Chiesa può offrire al mondo, perché il Vangelo ha sempre una benefica influenza nella vita della famiglia umana: educazione, economia, lavoro, salute, relazioni famigliari e sociali, politica, pace, libertà e diritti umani… Il Vangelo è contrario all’evasione dalle realtà terrestri; il cristiano è chiamato ad impegnarsi concretamente in esse, a illuminarle, trasformarle, arricchirle con la luce che viene da Dio, bene supremo per una vita degna, libera e felice.

Parola del Papa

(*)Celebrare la Giornata Missionaria Mondiale significa riaffermare come la preghiera, la riflessione e l’aiuto materiale delle vostre offerte sono opportunità per partecipare attivamente alla missione di Gesù nella sua Chiesa. La carità espressa nelle collette delle celebrazioni liturgiche della penultima domenica di ottobre ha lo scopo di sostenere il lavoro missionario svolto a mio nome dalle Pontificie Opere Missionarie, per andare incontro ai bisogni spirituali e materiali dei popoli e delle Chiese in tutto il mondo per la salvezza di tutti”.
Papa Francesco
Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2020

P. Romeo Ballan, MCCJ

Convertirsi al cristianesimo
Matteo 22, 15-21

«Dicci il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?» (Mt  22, 16-17). La domanda che i farisei e gli erodiani propongono a Gesù nasconde l’intenzione di cogliere in contraddizione il Maestro, per minarne l’autorevolezza. L’insegnamento del Signore, infatti, sta diventando troppo imbarazzante, per la concretezza e per la radicale semplicità che non permettono una risposta indifferente o vaga. «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno». Anche nella precedente captatio benevolentiae  è sottintesa la convinzione che questa integrità sia in realtà un’utopia. Il mondo è più complesso di come insegni tu — sembrano dire i farisei. Non è possibile essere sempre coerenti, prendersi ogni volta cura del prossimo, accogliere tutti, anche i lebbrosi, i samaritani, i centurioni…

Ascoltando davvero Gesù ci si trova un po’ con le spalle al muro: ci si sente chiamati a prendere radicalmente sul serio l’invito ad amare il prossimo, cioè la persona concreta che trovo accanto a me proprio nel mondo in cui vivo: «non possiamo lasciare che qualcuno rimanga ai margini della vita» (Papa Francesco). I farisei di ieri e di oggi, tra i quali spesso finisce per trovarsi ognuno di noi, tendono invece a rifiutare questa radicalità, e cercano di dimostrare che è impossibile evitare di scendere a patti con il potere, con l’ingiustizia, con la violenza. E per dimostrare che questo “buonismo a oltranza” non è realistico, i farisei utilizzano lo stratagemma retorico universale e la “buttano in politica”: le tasse si devono pagare proprio sempre?

Eppure fin dai primi secoli la rivoluzione cristiana viene riconosciuta proprio in questo paradosso: le persone che ricevono il battesimo restano lì dove si trovano, «dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati», afferma la Lettera a Diogneto  (documento straordinario che risale alla fine del ii  secolo). Questo comportamento non può andare d’accordo con qualunque genere di organizzazione sociale, e infatti dall’inizio fino ai giorni nostri ci sono i martiri, persone normali che mettono il Vangelo al di sopra di qualsiasi altra logica, che “rendono a Dio quello che è di Dio” e in questo modo cambiano la logica del mondo.

Anche oggi la chiamata evangelica incontra, innanzitutto nel cuore di ognuno di noi, molte resistenze, che spesso ci portano a ribellarci ai pastori e a chiunque ce la ricordi (e qui si trovano forse le radici di alcune critiche agli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa, ricordati con insistenza da tutti gli ultimi Pontefici). Nel suo profilo di san Francesco d’Assisi, Chesterton fa un parallelo tra il grande santo “rivoluzionario” e san Domenico, notando tra i due una differenza “che non va a discapito di nessuno dei due” e che forse riassume la conversione che è richiesta a tutti noi, chiamati a “rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” nella nostra vita quotidiana. «Mentre possiamo — afferma Chesterton — aver bisogno di qualcuno come Domenico per convertire i pagani al cristianesimo, abbiamo ancora più urgente necessità di qualcuno come Francesco per convertire al cristianesimo i cristiani».
[Carlo De Marchi – L’Osservatore Romano]

“Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare,
e a Dio quello che è di Dio”

Is 45,1.4-6; Salmo 95; 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21

Il tema di questa domenica sta nella famosa dichiarazione di Gesù, diventata quasi proverbiale: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”. Tutto parte dal tributo (tributum capitis) che le provincie conquistate pagavano all’imperatore romano. Gli zeloti (rivoluzionari) si facevano un dovere religioso di non sottomettervi, mentre gli erodiani appoggiavano le forze di occupazione e i farisei (esperti di diritto), che si opponevano anche, vi si adattavano perché venisse loro garantita la libertà religiosa. La domanda posta a Gesù è quindi troppo insidiosa., e i rabbini la discutevano spesso nell’ambito della sinagoga. Si tratta in particolare di definire la liceità del tributo nel contesto della legge ebraica.

Essi lo interpellano come “maestro” e gli riconoscono la dote della libertà di parola. Questa abile captatio benevolentiae rientra nel loro progetto di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Pensano di chiuderlo così in un dilemma: qualunque sia la risposta, si attirerà certamente l’ira di una parte dei presenti.

Gesù smaschera l’ipocrisia dei suoi interlocutori, che proseguono altri obiettivi sotto la copertura degli scrupoli religiosi. Egli li costringe a uscire allo scoperto: “Mostratemi la moneta del tributo”. Essa recava l’immagine di Tiberio Cesare, e nell’esergo l’iscrizione che lo proclamava Divus et Pontifex Maximus (Divino e pontefice massimo).

Per Gesù basta rendere a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio. Si falserebbe il pensiero di Gesù se si supponesse che il debito a Cesare si colloca nello stesso piano ed ha lo stesso valore assoluto e definitivo del dovere verso Dio. Non sono due realtà uguali e simmetriche. Dio è l’unico che si deve adorare con amore filiale. In altre parole, Dio e la sua regalità non entrano in concorrenza con il potere di Cesare, perché stanno ad un altro livello. Cioè si stimino le cose della terra per quel poco che valgono e si adempiano i propri doveri in base alle loro necessità. E bisogna sempre non dimenticare che l’essenziale è altrove, nella fedeltà al Padre celeste. Si tratta della gerarchizzazione dei doveri: c’è la vita politica, e al di sopra, la vita religiosa, con il primato riconosciuto a Dio.

Gesù, in nome dell’unica signoria di Dio, circoscrive l’ambito del potere politico, gli toglie la maschera della sacralità idolatrica e gli restituisce la sua laicità profana, come pure il suo ruolo reale e sociale. Inoltre, ogni decisione politica deve essere illuminata dalla parola di Dio, perché a Dio appartiene ogni cosa, anche Cesare.

Quante volte Cesare (il potere politico), ognuno di noi, tentiamo di erigerci in potere assoluto senza o contro Dio, e pretendiamo qualcosa che non ci è dovuto? Purtroppo un uomo che si traveste da Dio, da assoluto, al massimo fa ridere. Infatti, quando Dio viene presentato nelle vesti e negli atteggiamenti di Cesare o di un individuo, questo diventa sempre uno spettacolo ridicolo ed una blasfema.

Non si può, d’altra parte, ridurre la sentenza di Gesù sul tributo a Cesare per giustificare la distinzione o separazione tra Stato e Chiesa, tra ambito politico e quello religioso. Questa lettura sarebbe riduttiva ed anacronistica, perché Dio non è la Chiesa, e Cesare nella concezione dell’Impero Romano non corrisponde allo Stato moderno.

Un’ultima cosa. Si potrebbe anche comprendere il restituire a Dio le cose di Dio in un altro senso. Gesù ha detto: Quello che fate al più piccolo tra voi, lo fate a me. Così ciò che è dovuto a Dio riguarda anche l’attenzione ai poveri, agli esclusi, agli sfruttati, breve agli schiacciati sotto tutte le forme di oppressione e sofferenza.
Don Joseph Ndoum

Liberi per seguire Cristo

«Perché mi mettete alla prova, ipocriti?» (Matteo, 22, 18). La liturgia di questa domenica ci propone un brano evangelico dal messaggio incontrovertibile. Narrativamente il passo è collocato in un momento del vangelo matteano dalle forti tinte drammatiche: Yeshua è a Gerusalemme, nell’area del Tempio (21, 23). Fin dal giorno precedente, giorno del suo arrivo nella città santa, gli scontri “teologici” che il maestro di Galilea ha con le classi religiose gerosolimitane sono violenti. Il rabbi Yeshua entra a Gerusalemme osannato dalla folla (21, 1-11); giunto all’interno del Tempio ribalta i banchi dei cambiavalute, scaccia i mercanti e, citando Isaia prima e Geremia poi, invoca la preghiera nella casa di Adonai (il Tempio); chiama ladri quanti in essa rubano, facendola diventare un mercato religioso a cielo aperto (21, 12-13). Cura ciechi e zoppi, inquietando così ancora di più i capi dei sacerdoti e gli scribi che, nel frattempo, continuano a udire bambini gridare: «Osanna al Figlio di David» (21, 15).

Dopo aver lasciato le classi religiose nel pieno turbamento, il rabbi pernotta a Betania con i suoi. L’indomani maledice un fico che trova senza frutti (21, 18-19), probabile simbolo, quel fico, dei frutti che Yeshua sente di non raccogliere in mezzo alle classi religiose del popolo eletto. Tornato al Tempio il maestro è presto avvistato e messo alle strette dagli scribi e dai capi dei sacerdoti; a questo punto racconta la parabola del padrone di una vigna e del figlio suo gettato fuori dalla vigna e ucciso dai contadini: «Questi è l’erede! Venite, uccidiamolo e impadroniamoci della sua eredità» (21, 38); e quella degli invitati che decidono di non presentarsi alle nozze del figlio del re: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non ne erano degni» (22, 8).

Nel racconto di tutte queste parabole, farisei, scribi e capi dei sacerdoti si sentono molto chiaramente chiamati in causa. Secondo l’evangelista essi interpretano con maestria il messaggio tra le righe; sarebbero loro, secondo Yeshua, a macchiarsi del crimine più grande di tutti: respingere il suo annunzio, respingere lui, l’inviato del Padre.

Ed è proprio qui che si situa il passo evangelico della prossima domenica, che pare avere al centro la disputa tra potere politico e quello divino. «Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù. E gli inviarono i loro discepoli, insieme agli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei sincero e insegni la via di Dio in verità, e che non ti lasci influenzare da nessuno, perché non guardi all’aspetto degli uomini. Dicci dunque che te ne pare: è permesso dare il tributo a Cesare oppure no?”. Ma Gesú, avendo compreso la loro malizia, rispose: […] “Rendete ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio!”» (Matteo, 22, 15-21).

Domenica prossima gran parte dell’omiletica volta a commentare questo passo probabilmente si concentrerà sulla doverosa distinzione che il buon cristiano ha da compiere tra potere mondano e potere divino; spingerà in certo modo verso un’interpretazione spiccatamente moraleggiante del passo, e disquisirà sulla necessità per il buon cristiano di essere libero dai beni terreni per seguire il Cristo. Qui pongo l’accento, invece, sulla significatività di un messaggio molto più profondo, nascosto nella trama narrativa in senso ampio: il maestro di Galilea è nel pieno del suo dramma. È, secondo l’evangelista, radicalmente respinto dalla classe religiosa del suo popolo; si sta avviando verso il tragico epilogo della sua missione, è travisato, osannato, stretto da ogni parte; si cerca di farlo cadere, per coglierlo in fallo e condurlo alla morte. Noi, magniloquenti classi religiose di questo nostro oggi, innanzi a questo vangelo, da che parte ci poniamo? 
[Deborah Sutera — L’Osservatore Romano]