Giovedì 30 ottobre 2025
Il servizio missionario è sia un compito che un grande dono di Dio, anzi, una cascata di doni! Il Signore della missione, colui che chiama e invia, è anche colui che benedice. Di recente qualcuno mi ha chiesto che cosa la missione mi abbia donato da quando nel giugno 1981 feci la mia professione come missionario comboniano. È stata una domanda semplice e diretta, che mi ha portato a fare memoria delle tante benedizioni ricevute, dopo aver accettato di essere un discepolo missionario di Gesù secondo lo stile di san Daniele Comboni.
Ciò che la missione mi ha donato…
Una famiglia molto estesa
Gesù ha promesso che chi lascia la propria famiglia e le proprie radici per amore suo riceverà cento volte tanto già in questa vita, e poi la vita eterna. Gesù è un gentiluomo e mantiene la sua parola.
Ho lasciato il mio luogo di nascita, Cinfães, la mia famiglia e i miei amici per seguire Gesù come missionario comboniano. Per quattro anni ho studiato teologia in Inghilterra, poi ho svolto dodici anni di apostolato missionario in Etiopia e sette in Sud Sudan. Ho trascorso anche nove mesi in Messico frequentando un corso di formazione permanente. Oggi ho una famiglia incredibilmente numerosa, sparsa in Europa, Africa e Americhe – persone che considero genitori, fratelli e amici. I social media mi aiutano a restare in contatto con tutti loro, che porto nel mio cuore come doni di Gesù.
Un nuovo popolo
La missione mi ha dato un nuovo popolo, con il quale condivido una relazione sponsale, abbracciandone luci e ombre.
Il 16 gennaio 1993 arrivai alla missione di Qillenso, tra il gruppo etnico dei guji, appartenente alla più ampia famiglia degli oromo, nel sud dell’Etiopia. Ad accompagnarmi al mio primo posto di missione fu il compianto padre Ivo do Vale. Fino a quel giorno non avevo mai sentito parlare dei guji. Con il tempo, ho imparato la loro lingua, la loro cultura, la loro cucina e le loro tradizioni. Ho persino adottato l’uso di alcuni tipici capi di vestiario usati dai maschi del gruppo. Il mondo guji è diventato il suolo sacro sul quale cammino a piedi nudi, spogliato del mio eurocentrismo. Ho imparato proverbi e miti locali, che mi hanno fatto scoprire una nuova saggezza che è venuta ad arricchire la visione del mondo che possedevo.
Nuovi modi di dire Dio
Noi portoghesi abbiamo i nostri modi di dire Dio, di pregarlo e di credere in lui, diversi da nord a sud. Anche il popolo guji ha un modo tradizionale di invocare l’Onnipotente. Nelle loro preghiere abituali, chiamano Dio «nostro padre e nostra madre», «nostro nonno e nostra nonna», «nostro bisnonno», o «colui che ci ha dato la vita». Queste espressioni racchiudono una verità riscontrabile sia nella Bibbia che nelle tradizioni di molti popoli: proveniamo tutti da Dio. Lo aveva già detto san Paolo nel suo discorso all’Areopago di Atene: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28a). È affascinante sentire la gente guji dire che «il silenzio attraversa Dio» e che «l’amore arido (cioè, senza opere) ferisce».
Presso la gente del Sud Sudan, invece, ho imparato ad amare l’espressione araba «Allah karim» (“Allah il Generoso”), che ho subito aggiunto alla mia litania dei nomi di Dio.
La missione è anche preghiera. Gesù ci ha insegnato un nuovo modo di relazionarci a Dio, chiamandolo “Abbà” (“papà”). Il missionario prega con la gente tra cui vive al punto di adottare il suo modo di pregare, facilitando e avviando la loro esperienza di Dio alla scuola di Gesù.
Una nuova esperienza del tempo
Il tempo – assieme allo spazio – ci sembra un concetto assoluto. Eppure, in Etiopia ho scoperto che nulla è più relativo della nostra esperienza del tempo. Gli etiopi seguono un calendario diverso: dall’11 settembre scorso siamo entrati nell’anno 2018, con il primo giorno di meskerem, il mese che apre l’anno etiopico, composto di 13 mesi: 12 di 30 giorni ciascuno, più pagume, un mese di solo cinque giorni (o sei, negli anni bisestili).
Le ore del giorno nuovo si contano dall’alba (le nostre 6 del mattino) e non dalla mezzanotte. Il Natale si celebra il 7 gennaio, l’Epifania il 19 gennaio e la Pasqua solo occasionalmente coincide con il calendario universale (come è accaduto quest’anno). L’Assunzione cade il 22 agosto e la Festa della Santa Croce il 27 settembre.
Ho anche imparato che il tempo non si misura con l’orologio, ma si crea negli incontri interpersonali, e che a determinare le ore del giorno è la luce del sole, non l’orologio che hai al polso – avvertito solo come un bracciale costoso! Nei giorni nuvolosi il tempo è avvertito in modo diverso da come lo si avverte nei giorni sereni.
La mistica della vita quotidiana
In Etiopia la vita quotidiana scorre in modo tranquillo. Apprendere questo ritmo ha significato per me rallentare ogni cosa. Durante i primi otto anni, ho svolto il mio lavoro missionario spostandomi a piedi. Oggi le strade asfaltate hanno raggiunto quasi tutte le missioni; dove non c’è ancora l’asfalto, i sentieri sono larghi abbastanza per il passaggio di veicoli.
Vivendo lentamente e camminando nella foresta, ho ripreso coscienza di tutto ciò che mi circonda: gli uccelli e i loro canti gioiosi, i raggi del sole che giocano con la nebbia mattutina attraverso gli alberi secolari, le orchidee selvatiche, i piccoli fiori che punteggiano la terra verde... Ho riscoperto la mistica della vita ordinaria e ho perfino ripreso a scrivere poesie.
Un’esperienza professionale unica
In Portogallo ho servito soprattutto attraverso il giornalismo, lavorando per dodici anni con le riviste comboniane Além-Mar e Audácia (2001-6 e 2014-20). Dal 2007 al 2013, il Consiglio generale mi invitò a unirmi a una équipe composta da due suore comboniane e un fratello per fondare la Catholic Radio Network in Sud Sudan, dove ho servito come direttore dell’informazione. Nonostante le scarse risorse tecniche, le sparatorie notturne e il caldo torrido, è stata un’esperienza professionale unica. Ho iniziato a Radio Bakhita a Juba. Quando entrarono in attività altre sette stazioni FM in Sud Sudan, una nei Monti Nuba (Sudan) e una salesiana, ho creato la mia redazione con altri due giornalisti. Fu un periodo impegnativo –si trattava di formare professionisti dei media e di raccontare la storia di una nazione che nasceva, scontrandoci occasionalmente con le autorità – ma anche profondamente gratificante.
… e ciò che la missione ha dato alla Chiesa
La persona che mi chiese cosa la missione mi abbia donato, aveva in serbo una seconda domanda: «Che cosa ha offerto la missione alla Chiesa?». La mia risposta è stata immediata; «Innumerevoli doni».
Identità
La missione ripristina l’identità propria della Chiesa. La Chiesa è missione. Gesù non l’ha fondata come un club esoterico per i redenti, ma l’ha inviata in tutti il mondo e alle estreme periferie della vita per proclamare la Buona Notizia del Regno di giustizia, pace e gioia già presente in mezzo a noi. La chiesa o è missione o non è; la missione è l’essenza stessa della Chiesa, non una attività facoltativa.
Condivisione
Il cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione – il “dicastero missionario” del Vaticano – è stato vescovo della diocesi filippina di Imus. Nonostante avesse pochissimi sacerdoti, decise di condividerne alcuni con territori di missione. I suoi consiglieri non erano d’accordo, ma alla fine accettarono e la diocesi fu benedetta con un’abbondanza di vocazioni. La missione rivela la matematica di Dio: per moltiplicare, bisogna dividere. La condivisione è la via per rivitalizzare e rinnovare le Chiese più antiche.
Energia
La Chiesa universale è la comunione di tutte le Chiese particolari o locali. Le giovani Chiese offrono energia a quelle più anziane e stanche, inviando suore e sacerdoti a servire in vari ministeri. Si stima che circa 400 sacerdoti stranieri prestino attualmente servizio nella Chiesa in Portogallo, in un contesto di grave carenza vocazionale. La gioia con cui le Chiese giovani celebrano la liturgia e la vita ispira le Chiese più antiche a bilanciare le norme liturgiche con la creatività dello Spirito Santo, che muove e anima le comunità. Ci ricordano che la fede viva non è solo intellettuale (idee) o emotiva (intimità), ma incarnata ed espressa attraverso parola, musica, danza e silenzio. Le comunità più anziane si sono indebolite e hanno bisogno dell’energia festosa delle comunità giovani, che ci insegnano che ogni momento – di vita e di morte, di gioia e dolore — è degno di essere celebrato. Celebrare insieme è un atto di autentica e sincera solidarietà.
Ospitalità
L’ospitalità è un comandamento nel Sud globale, mentre nelle comunità del Nord prevale spesso la diffidenza. Proclamare Dio come Padre comune significa accogliere tutti – anche gli stranieri – come fratelli e sorelle. L’ospitalità mantiene le comunità aperte e attente ai bisogni dei più poveri e vulnerabili, e questo è qualcosa che s’impara. Durante le mie camminate nel territorio guji, in novembre e dicembre – la stagione del mais abbondante – se passavo accanto a un bambino che mangiava una pannocchia arrostita o bollita mentre custodiva il bestiame, la spezzava subito a metà per condividerla con me. Sapevo che non avrebbe mangiato di nuovo fino a sera, ma rifiutare la sua generosa ospitalità sarebbe stato profondamente scortese.
L’ospitalità si offre e si accoglie. È un atto di umiltà e di umanità: è riconoscere che non sono autosufficiente e che l’altro dà significato alla mia identità.
L’ospitalità viene sia offerta che accettata. È un atto di umiltà e umanità, un riconoscimento del fatto che non sono autosufficiente e che l’altro dà significato alla mia identità.