Penultimo di sette figli, P. Francesco Leali nacque a Sabbio Chiese, Brescia, da Alessio e Domenica Vedovelli, proprietari e gestori di una bottega di stoffe. Il papà, per mettere insieme quella piccola fortuna, era emigrato in America e si era sottoposto a un duro lavoro che gli costò la salute. Il piccolo Francesco trascorse un’infanzia serena avendo come esempio il fratello Primo (terzogenito), di dieci anni più vecchio di lui e già in seminario diocesano. Scuola, gioco, scappatelle con i compagni e chiesa erano le occupazioni che si alternavano durante la sua giornata.
Quando Francesco aveva undici anni, il fratello Primo, che allora studiava teologia, manifestò al papà il desiderio di farsi missionario: apriti cielo! Scoppiò la bufera. Il genitore soffriva di asma e quella notizia contribuì a peggiorare la sua situazione tanto che sia i superiori del seminario, che il vescovo stesso, dissuasero il giovane seminarista dal seguire quella vocazione. Poco dopo, Don Primo fu ordinato sacerdote (1931) e mandato a Mompiano, ad un paio di chilometri dal centro di Brescia, come cappellano.
Dopo le elementari Francesco andò ad abitare a Mompiano insieme al fratello e si iscrisse all’istituto per geometri e ragionieri “Nicolò Tartaglia” di Brescia, dove si recava ogni mattina in bicicletta. “Devo confessare - scrive P. Leali nel suo diario - che qualche vago desiderio di seguire la vocazione missionaria mi era venuto, ma sapendo che cosa era successo con mio fratello, mi guardavo bene dal parlarne”.
Un giorno ne parlò al suo parroco, Don Angelo Gallotti, il quale gli rispose: “Dio è un gran rompiscatole”. Una donna anziana, una certa Marietta, notando che Francesco aveva qualche propensione alla vita sacerdotale, gli disse: “Non ti sognerai di farti prete anche tu, altrimenti la tua famiglia si spegnerà”. Francesco, toccandosi il mento per indicare la futura barba del missionario diede una risposta che doveva restare famosa: “Anche l’Impero Romano si è spento, può spegnersi pure la mia famiglia”.
Al Tartaglia Francesco si mostrò intraprendente: aveva quindici anni quando contribuì ad organizzare uno sciopero degli studenti per andare a vedere le Mille Miglia. Intanto, però, anche l’amore incipiente per una ragazza andava affievolendosi. “Io, alle scuole pubbliche, ero stato balilla e avanguardista e avevo partecipato con entusiasmo alle grandi sfilate in Piazza Vittoria, quando accompagnavamo festanti i militari che partivano per l’Etiopia. Devo dirlo: fremiti di patriottismo rigurgitavano anche fra di noi”.
Nell’Istituto Comboni
Il 10 luglio 1935 - Francesco aveva terminato l’ultimo corso delle inferiori - morì il papà. Dato che la voce di Dio si faceva sempre più chiara ed insistente, la sera dei funerali scrisse un biglietto nel quale manifestava il suo stato d’animo e il suo desiderio di farsi missionario, e lo mise sul letto del fratello Primo, che era in famiglia per quella triste circostanza. Il colloquio col fratello sacerdote fu breve e decisivo: “Ti accontenterò quanto prima”, gli rispose alla fine Don Primo. Il 4 ottobre, festa di san Francesco d’Assisi, il sacerdote accompagnò il fratello nell’Istituto Comboni di Brescia. Congedandosi, gli mise nelle mani una lettera che P. Leali conserverà per tutta la vita. Don Primo diceva: “Se io non sono riuscito a diventare missionario la causa non ultima fu, forse, la mia indegnità ad una vocazione così grande… Troverai difficoltà morali, spirituali, intellettuali, fisiche, ma se conosci che questa è la tua strada, lotta con perseveranza… Se ad un certo momento, illuminato dai tuoi superiori, ti rendessi conto che questa non è la tua strada, ritorna senza rispetto umano. Noi ti accoglieremo a braccia aperte… Oggi è il tuo onomastico, la festa del tuo patrono e il primo venerdì del mese. Affidati sempre al Cuore Sacratissimo di Gesù e andrai sicuro… In questo giorno straordinario per te, non so darti altro che il mio libretto delle preghiere. Le sue pagine sono testimoni di tante gioie interiori e di lacrime…”.
P. Luigi Cordone, superiore dell’Istituto Comboni, accolse il giovane e cercò di formarlo allo spirito missionario. “All’inizio non ero troppo entusiasta, - scrisse P. Leali - vedevo le difficoltà di una simile scelta, ma ho trovato dei superiori comprensivi che mi hanno illuminato e che mi hanno assicurato che la mia era una vera chiamata da parte di Dio. Ciò mi ha dato sicurezza. Mi hanno anche detto chiaramente che, nella vita missionaria, non dovevo aspettarmi tante consolazioni umane, tuttavia mi hanno assicurato che l’assistenza del Signore non sarebbe mai mancata, neppure nelle sofferenze”.
Novizio
Il 13 settembre 1937, un bel gruppo di studenti, tra i quali il nostro Francesco, lasciarono l’Istituto Comboni per andare nel noviziato di Venegono Superiore, Varese. Furono accolti da P. Antonio Todesco, appena tornato dalla missione, che, proprio quell’anno, iniziava il suo tirocinio di formatore sostituendo P. Giocondo Bombieri. P. Todesco era innamorato della missione dalla quale proveniva. Sul tavolo teneva alcune fotografie dei paesaggi e delle persone che gli ricordavano l’Africa. Mostrandole ai novizi, si lasciava andare a considerazioni sulla vita missionaria, sul corredo spirituale, intellettuale e fisico che occorreva per un buon lavoro; parlava delle sofferenze, ma non mancava di sottolineare le gioie di quella vita da pionieri del Regno di Dio. In seguito P. Todesco diventerà Superiore Generale dell’Istituto. “Tentazioni contro ogni virtù, scoraggiamento, dubbi sulla mia riuscita, impazienza nel vedere un tirocinio così lungo di preparazione alla vita missionaria, costituivano la mia lotta quotidiana, ma mi sostenevano le conferenze del padre maestro e l’ideale di andare ben preparato in Africa”, scrisse Francesco.
Se all’inizio del noviziato il padre maestro disse di Francesco: “Fatica per vincere il suo carattere impulsivo e rabbioso. Ha qualche dubbio sulla sua vocazione, tuttavia ha ottenuto belle vittorie”, alla fine annotò: “Ha fatto grandi progressi, specialmente nel modo di trattare gli altri. Il suo lavoro spirituale gli ha ottenuto buoni frutti e ha chiarito i dubbi sulla sua vocazione che ora gli appare sicura. Prosegue il suo lavoro spirituale con calma di spirito ed è sempre pronto a qualsiasi atto generoso per il Signore. Riesce a dominare il suo carattere e ha fatto ottimi progressi nello spirito di preghiera, di sacrificio e di obbedienza”.
La vera missione è in Africa
Il 7 ottobre 1939 Francesco emise i primi voti: era la prima donazione ufficiale a Dio. Per la circostanza era presente anche Don Primo il quale, il giorno dopo, accompagnò il fratello a Verona per la continuazione del liceo e poi della teologia nel seminario diocesano. Intanto scoppiò la guerra. Il 20 giugno 1940 Francesco acquisì l’attestato di infermiere e di aiutante di Sanità nel Reale Esercito Italiano. Se non in Italia, quell’infarinatura di medicina gli sarebbe stata utile in missione.
Quando cominciarono a piovere bombe su Verona (1941), gli studenti missionari emigrarono a Rebbio di Como dove continuarono i loro studi regolarmente. A Como P. Leali fu ordinato sacerdote insieme ad altri 26 compagni. Era il 29 giugno 1945.
Mentre si trovava al paese per le vacanze dopo la prima Messa, gli giunse una lettera del Superiore Generale che lo destinava a Crema come assistente e formatore dei giovani seminaristi comboniani. Le rotte da e per l’Africa non erano ancora state aperte. Si sapeva, però, che in tutte le missioni c’era bisogno urgente di missionari per dare il cambio a quelli che erano malati e bisognosi di cure e riposo.
La permanenza a Crema di P. Leali fu di breve durata: il primo aprile del 1946 ricevette l’ordine di andare a Bologna a studiare l’inglese per poter poi partire per il Bahr el Jebel. Essendo quel giorno “il primo aprile”, non credette alla notizia, ma quando lesse la lettera, con un salto di gioia balzò su una sedia mandandola in pezzi. Per la mamma fu un colpo duro, ma P. Leali aveva detto al Superiore Generale: “Qui si sente dire che si può fare missione anche in Italia. Questo non è il mio ideale. La missione per me è tra coloro che non hanno sentito parlare di Gesù Cristo. Perciò mi mandi in fretta in missione prima che mi abitui all’Italia”.
Il 24 giugno 1946 s’imbarcò sull’incrociatore Duca degli Abbruzzi che faceva la spola tra l’Egitto e l’Italia, riportando a casa i prigionieri di guerra. Erano con lui P. Alberto Guidi, P. Salvatore Mazzitelli, P. Alberto Della Piazza e P. Giovanni Battista Polacco. A Napoli, dove si fermarono più del previsto a causa di un guasto alla nave, i missionari dovettero chiedere la carità per mangiare. Fortunatamente a bordo furono invitati alla mensa ufficiali.
Giovedì 27 giugno poterono mettere piede sul suolo africano, a Port Said. P. Roberto Zanini li accolse e li accompagnò al Cairo. Il 6 luglio lasciarono il Cairo e partirono per Khartoum. Quindi, sul battello governativo, giunsero a Juba. Qui i missionari si divisero. P. Guidi fu destinato ad Okaru dove c’era il seminario; P. Della Piazza a Torit; P. Polacco a Rejaf; P. Mazzitelli a Kapoeta e P. Leali ad Isoke, una missione lontana 350 chilometri da Juba. Dopo una tappa di un paio di mesi a Torit per imparare la lingua, il 14 settembre 1946 P. Leali fece la sua entrata in missione in bicicletta, poiché il camion della Procura non poteva procedere a causa del fango. Era infatti la stagione delle piogge. Il nuovo arrivato fu accolto dalla popolazione con un caloroso battimani che lo fece sentire subito a suo agio. La sua presenza era ormai indispensabile perché P. Giorgio Ferrero, il superiore, passava da un attacco di malaria all’altro e aveva estremo bisogno di un aiutante.
Vita ad Isoke
“La mia missione di Isoke è bella anche se è lontana ed isolata rispetto agli altri centri importanti – scrive P. Leali. – Si trova in una conca circondata da monti e conta circa 30 mila abitanti di cinque etnie diverse. Due corsi d’acqua perenni le passano ai fianchi. Ci sono un bell’orto e un frutteto ben coltivati, con limoni, papaie e banane. Nella stalla ci sono alcune mucche e c’è perfino una casetta nella quale vengono allevati i piccioni. Il governo ha assegnato ai missionari una grande estensione di terreno perché possano, con le coltivazioni di sesamo, arachidi e durra, mantenere gli scolari della scuola maschile e femminile. Il luogo sarebbe un paradiso terrestre se non fosse per quelle benedette zanzare che, con la malaria, mi mettono addosso una grande stanchezza”. Ma oltre alle zanzare c’erano i serpenti che si nascondevano sotto gli armadi, e gli scorpioni che, di notte, uscivano da tutti i buchi.
Oltre ai ragazzi della scuola, la missione contava molti gruppi di catecumeni che si preparavano al battesimo. Al mattino la valle risuonava delle preghiere dei giovani e dei ragazzi, poi seguiva l’istruzione; il pomeriggio veniva diviso tra gioco e lavoro nei campi. Ognuno, infatti, doveva imparare a mantenersi con il proprio lavoro.
Un bel gruppo di catechisti s’incaricava di spiegare il catechismo e la Sacra Scrittura. I catechisti erano divisi secondo le varie lingue, in modo che tutti potessero comprendere bene. Toccava al Missionario, poi, esaminare se tutto procedeva nell’ortodossia. Per il primo Natale P. Leali poté battezzare una novantina di ragazzi.
P. Leali divenne anche maestro di canto e di musica (sapeva suonare l’harmonium). Col tempo mise in piedi una discreta banda musicale. Così, alla sera dopo cena, organizzava dei bei cori che risuonavano nella valle di Isoke “quasi fosse il canto di un coro di angeli”. Le suore, intanto, preparavano un po’ di corredo per P. Leali. Infatti, vedendo ciò che aveva portato con sé, tutta roba rammendata e sdrucita, la superiora radunò le sorelle e, mostrando quei miseri indumenti, disse: “Sorelle, guardate come è ridotta la nostra povera Italia!”.
Prima l’evangelizzazione
La missione aveva anche il reparto costruzioni. I fratelli, aiutati da lavoratori locali, impastavano mattoni e modellavano tegole; la falegnameria e la segheria funzionavano a pieno ritmo perché si trattava di ristrutturare i fabbricati che, per troppo tempo, erano rimasti senza manutenzione per mancanza di personale e di mezzi. In questo lavoro manuale erano impiegati spesso anche i sacerdoti. Nel suo diario, P. Leali registra il giorno in cui è andato sulla collina insieme ai ragazzi “per cercare pietre adatte per macinare la durra perché qui non c’è il mulino” e con due cerchi di ruota ha ricavato due campane “che fanno abbastanza rumore”. Ogni sera, P. Leali cercava di scrivere qualche riga sul diario, come era stato raccomandato dai superiori, ma a volte era così stanco che si addormentava sulla sedia. Una sera il quaderno gli cadde a terra e le voracissime termiti lo mangiarono. Sul nuovo quaderno scrisse: “Lo scritto precedente è andato in briciole, ma il lavoro fatto nel nome del Signore credo che rimarrà scritto in un libro intoccabile dalle termiti”.
Un giorno, per aver bevuto acqua inquinata, fu colpito dal verme di Guinea che si annida nei muscoli delle gambe e provoca dolori fortissimi. Fu operato da un catechista che incise la carne con una piccola lancia. Il dolore fu intenso, ma la guarigione assicurata. Ad Isoke P. Leali mostrò la sua tempra di autentico missionario dedicandosi alle visite ai villaggi, alla scuola e alla preparazione dei catecumeni. Infatti, anche se si adattava ai lavori manuali, quando la necessità lo richiedeva, preferiva il lavoro di evangelizzazione tra la gente.
Nel 1950 fu trasferito alla missione di Rejaf dove continuò il ministero con lo stesso sistema di Isoke. Lavorò con impegno e dedizione, fin quasi a logorare le sue forze per cui, dopo sei anni, dovette ritornare in Italia per una periodo di riposo. Veramente, chi doveva tornare perché seriamente ammalato era P. Polacco, ma quando aveva già il biglietto aereo in mano, morì.
“Chi mandiamo ora in Italia al suo posto senza disdire il viaggio?” Fu scelto P. Leali che era molto debole e bisognoso di cure. Fu così che, il 28 gennaio 1952, dopo sei anni di missione, ritornò in patria per la prima volta. Viaggiava con lui Fr. Gaetano Salata.
Seconda sosta sudanese
Dopo la visita in famiglia, P. Leali fu mandato nella casa comboniana di Padova come addetto al ministero, alle giornate missionarie e alla scuola. “Gli ho affidato l’insegnamento della matematica e della religione – ha scritto il superiore di Padova, P. Angelo Giacomelli – e riesce bene; avendo metodo, pazienza, comprensione, chiarezza nella spiegazione. È zelante e di vero spirito missionario. Ha raccolto tanta roba per le missioni”.
Dopo un anno, sentendosi perfettamente rinfrancato, P. Leali pregò i superiori di rimandarlo in missione. Tornò a Rejaf con l’incarico di superiore. Nel 1956 fu trasferito ad Isoke per esigenze di personale. Accettò di buon grado la destinazione perché conosceva molto bene quella missione che era stata “il suo primo amore”.
Nel suo diario ricorda due fatti che “mi hanno fatto incanutire i capelli anzitempo”. Per due notti di seguito, mentre dormiva in una cappella lontana dove era andato per visitare i villaggi, sentì accanto al cuscino qualche cosa che si muoveva. La prima notte pensò che fossero i topi ed essendo tanto stanco, non ci fece caso. Ma sentendo quel rumore anche la notte seguente, si decise ad alzarsi e ad accendere la pila per vedere di che cosa si trattava. Con sgomento, scoprì che sotto il suo cuscino aveva trovato posto un serpente cobra. Era grosso e lento nei movimenti perché aveva mangiato i topi che avevano fatto il nido tra la paglia del tetto. P. Leali si sentì gelare il sangue nelle vene, poi ringraziò il suo Angelo custode e non trovò di meglio che passare il resto della notte nella cabina del camioncino, anche se le zanzare fecero scempio della sua faccia.
Un giorno il catechista venne a dirgli che il leone aveva rapito un vitellino dalla stalla e lo stava divorando dietro un cespuglio. P. Leali imbracciò il fucile e partì seguito da alcuni giovani armati di lancia. Giunto in prossimità del cespuglio indicato, vide che i rami si muovevano ma non riusciva a distinguere la belva per l’erba troppo alta. Tuttavia prese la mira e sparò tre colpi, sicuro che, almeno uno, sarebbe andato a segno. A questo punto vide saltar fuori dal cespuglio tre leoni che, camminando lentamente, si dirigevano verso di lui. I giovani erano spariti ed egli cominciò a fare piccoli passi indietro per conservare la distanza, mentre invocava tutti i santi del Cielo: la sua preghiera fu efficace perché i leoni deviarono verso un corso d’acqua per dissetarsi. A questo punto riapparvero i giovani e assicurarono che le bestie sarebbero tornate dopo un po’ per finire il pasto. P. Leali, allora, disse di andare a prendere ciò che era rimasto del vitellino, lasciandone una buona parte per i leoni “che erano stati così gentili da non sbranarlo”.
Nella persecuzione
Nel 1955 a Torit scoppiò la rivolta dei soldati del Sud contro i loro comandanti che erano arabi del Nord. Ci furono morti e distruzioni. Poi la sommossa fu soffocata nel sangue con l’aiuto dell’Inghilterra. Il 1° gennaio del 1956 il Sudan raggiunse l’indipendenza dall’Inghilterra e subito il nuovo governo di ispirazione islamica iniziò una sorda persecuzione contro le missioni cattoliche. Le scuole furono nazionalizzate, ai missionari era vietato distribuire medicine e per allontanarsi dalla missione occorreva il permesso della polizia; in certi posti ai ragazzi venivano strappate dal collo le medaglie e le corone, alcuni catechisti e cristiani furono imprigionati e picchiati. Qualche missionario più in vista era già stato espulso. Nel bosco, intanto, si andava organizzando la resistenza da parte di quei Neri che non accettavano il governo di Khartoum e rifiutavano l’unificazione del Sudan del Sud con quello del Nord, come aveva stabilito l’Inghilterra.
All’inizio del 1958 P. Leali fu mandato nella missione di Lirya, a una cinquantina di chilometri dal capoluogo di regione, Juba. Lirya era una missione di recente fondazione, situata sulla strada che da Rejaf va a Torit. Contava circa 8.000 cristiani, parte della tribù Bari e parte della tribù Lotuko. P. Leali vi fu mandato perché conosceva bene entrambe le lingue. Nelle vicinanze c’era anche un lebbrosario con 150 malati che egli andava spesso a visitare.
I musulmani avevano aperto delle scuole coraniche e cercavano di accalappiare i ragazzi ai quali imponevano la lunga veste bianca. P. Leali, durante l’omelia domenicale, disse che i giovani cristiani che frequentavano quelle scuole con l’intento di cambiare religione, non potevano accostarsi ai sacramenti, specialmente alla comunione.
Una mattina vide arrivare alla missione un’auto della polizia: fu prelevato e portato a Juba dove fu interrogato. Egli ripeté ciò che aveva detto durante la predica. Il discorso non faceva una grinza per cui, dopo qualche giorno, fu riportato a Lirya e lasciato libero. Intanto le richieste di ricevere il battesimo da parte dei pagani si moltiplicavano e la Chiesa ingrossava le sue fila con grande rammarico del governo musulmano.
Nel 1961, P. Leali fu mandato a Torit, e nel novembre del 1963 ancora ad Isoke dove ormai conosceva tutti. Un brutto giorno, irruppero in missione alcuni ribelli provenienti dal bosco, lo misero al muro e lo minacciarono con le armi, accusandolo di parteggiare per il governo del Nord. Perquisirono la missione, portarono via alcune cose e picchiarono a sangue il catechista.
Poi arrivarono i soldati del governo, musulmani. Un cristiano rinnegato, accusò falsamente P. Leali di aver dato alle fiamme due villaggi. Ma la difesa di P. Leali contro un’accusa così assurda non trovò ascolto. Fu portato a Torit e imprigionato. Era febbricitante per la malaria, aveva vomito e dissenteria. “In questo tempo di prigionia il Signore permise che provassi un po’ di quell’abbandono che lui soffrì durante la sua passione. Non mi opponevo alla volontà di Dio, anzi invocavo il suo aiuto, ma dinanzi a me c’era un vuoto spaventoso. Ah – dicevo – se Dio fosse una cosa da potersi afferrare con le mani, io che ora mi trovo come un naufrago che sta per affogare lo stringerei tanto che per staccarmi da lui dovrebbero tagliarmi le braccia”. Finalmente un medico musulmano lo visitò e lo fece ricoverare in ospedale, anche se con un poliziotto armato vicino.
Fortunatamente i confratelli della missione gli portavano un po’ di cibo e qualche indumento per cambiarsi. Dopo 10 giorni di prigionia poté tornare alla missione, e ai primi di marzo del 1964, mentre ancora convalescente era in attesa del processo, venne espulso dal Sudan meridionale con tutti gli altri missionari e le suore. Così terminò l’avventura di P. Leali nel Sudan meridionale.
In Uganda
Tra il 1964 e il 1965 fece un tentativo di lavoro in Spagna, a Moncada, dove c’era lo scolasticato e il noviziato dei Comboniani spagnoli, ma l’Europa non era fatta per lui per cui, alla fine del 1965, lo troviamo in Uganda. Qui Mons. Mazzoldi lo assegnò alla nuova missione di Loyoro (1965-1968), quindi passò ad Amudat, tra gli Upe (1968-1971). Con grande entusiasmo P. Leali cercò di imparare le nuove lingue, e di adattarsi agli usi e costumi della gente. Il suo cuore, però, batteva per il Sudan Meridionale. “Se si realizza la possibilità di tornare in Sudan, io sono pronto”, scrisse più volte al Superiore Generale.
Dopo un anno di aggiornamento a Roma tra il 1971 e il 1972, fu deviato in Kenya, a Tartar. Vi rimase due anni perché nel 1974 tornò in Uganda, a Moroto, come vicerettore nel seminario degli Apostoli di Gesù “ma io ho sempre amato la vita di safari, il vivere in mezzo alla gente”, così tornò ad Amudat, come parroco (1977-1982), poi fu a Nabilatuk (1982-1985), quindi ancora ad Amudat (1985-1987), poi a Namalu (1987-1993) e finalmente a Naoi (1993-1999). Queste missioni si trovano tra i Karimojong, un popolo di pastori e allevatori, in continua lotta con le tribù confinanti per accaparrarsi le mandrie.
In Uganda P. Leali si è trovato coinvolto nella guerra di Amin, con le uccisioni, la fame, le malattie e innumerevoli pericoli. Ha sempre resistito agli inviti di lasciare tutto e andarsene, con la speranza che le cose sarebbero presto cambiate; e ha sopportato anche quando i missionari venivano uccisi o derubati. “Il seme che piantiamo qui nel Karamoja con tanto sacrificio e sudore, un giorno darà il suo frutto. La Chiesa pianta le sue radici anche qui. Ci sono già dei sacerdoti karimojong e dei bravi seminaristi”.
Ha amato gli africani
Caratteristica fondamentale di P. Leali è stato l’amore per gli africani, che si trasformava in zelo per la loro salvezza e in desiderio intenso di terminare tra loro i suoi giorni. Nel 1998 fu mandato in Italia per rimettersi in salute. Vide quell’ordine come un’espulsione dalla terra dove avrebbe voluto lasciare le proprie ossa. “Non è l’età e neanche un po’ di debolezza fisica che possano impedire in modo assoluto il ritorno in missione. Credo che le qualità essenziali per un missionario siano l’amore a tutti i nostri fratelli Neri e la voglia di portare loro il messaggio di Gesù Cristo. Tutte le altre qualità sono buone, ma non sono essenziali. A che serve la buona salute, la giovinezza e la robustezza fisica se non si amano gli africani? Noi siamo missionari, non mercenari. Io ho visto degli africani che hanno accettato la morte pur di essere fedeli a Gesù Cristo; ho visto i catecumeni sudanesi che sono stati presi a bastonate per essersi rifiutati di frequentare la kalwa (scuola coranica)… Questa mia lettera non è scritta per protestare, benché il mio allontanamento dall’Africa equivalga ad una espulsione. Tuttavia io accetto la volontà di Dio. Penso, però, che Dio, nel darmi questa croce, si è servito dei miei confratelli. Ma non porto rancore a nessuno e prego Dio che ci benedica tutti. Vuol dire che quando mi presenterò al suo tribunale, gli dirò che non sono stato io che ho lasciato la missione, ma qualche altro me l’ha fatta lasciare, e Lui capirà”.
Questa lettera è commovente perché fa risaltare il suo spirito missionario, anse se dobbiamo dire che i superiori avevano agito con prudenza e saggezza, perché P. Leali era seriamente ammalato. Tuttavia riuscì a tornare in missione ancora una volta, ma gli attacchi di depressione si facevano sempre più frequenti e acuti per cui, nel 2000, fu fatto rientrare definitivamente in Italia.
In data 1 gennaio 2000 scrisse al Superiore Generale: “Quantunque abbia ricevuto a malincuore la sua decisione perché mi separa in qualche modo dal grande amore che mantengo per il lavoro missionario, tuttavia riconosco che ha agito con prudenza. Grazie per avermi detto che, se la mia salute me lo consentirà, la via della missione rimane sempre aperta. Io mobiliterò tutti i protettori dal Cielo perché mi aiutino a ristabilirmi”. Non si ristabilì, anche perché ormai aveva sulle spalle 82 anni.
Trascorse un periodo a Brescia e fu un periodo buono. Chi scrive lo portava con sé per le confessioni nei vari paesi dove era richiesto il ministero dei Comboniani, e lui vi andava con vera soddisfazione perché si sentiva ancora sacerdote e missionario. E mentre si percorrevano quelle strade in auto, era un rosario dietro l’altro perché: “È con la preghiera e il sacrificio che si salvano le anime, anche quelle dei nostri cristiani”.
Ad un certo punto è dovuto andare a Milano, presso il Centro Ambrosoli, e lì ha consumato i suoi giorni nella preghiera e anche con qualche pena di spirito che ha saputo offrire per l’Istituto e per le missioni. Ultimamente si muoveva con la sedia a rotelle finché sorella morte è venuta a prenderlo per presentarlo al Signore. Dopo il funerale nella chiesa della Madonna di Fatima a Milano, la salma è stata traslata al suo paese dove riposa accanto ai familiari. P. Leali resterà nella storia dell’Istituto come un modello di missionario autentico, totalmente proteso alla diffusione del messaggio evangelico in Africa, zelante fino all’eroismo e di una grande capacità di amore verso gli africani.
P. Lorenzo Gaiga, mccj
Fr. Francesco Leali, the ninth of ten brothers, left his hometown of Sabbio Chiese, Brescia, after grade school and went to live in Mompiano, where his brother Primo was parish priest. He seemed to be destined to become an accountant or a surveyor as he studied at the Nicolò Tartaglia Institute of Brescia, where he used to travel daily on his bicycle. Rev. Primo had felt the pull of a missionary vocation, but had to give it up under pressure from his family, his superiors and his bishop. This, however, did not prevent him from filling his little brother’s heart with his passion for Africa. In 1913 their father Alessio, who had always been against the missionary vocation, passed away. Three months later, Rev. Primo escorted Francesco to the Comboni Institute of Viale Venezia saying: “This brother of mine has a missionary vocation.” And left him there.
In an interview he gave in 1999 Fr. Francesco said: “At first I wasn’t too enthused about it. I could see the difficulties this choice entailed, but I found superiors who were very understanding, who enlightened me and who assured me that this was indeed a true call from God. This reassured me. They told me very clearly that I should not expect too many human consolations, but assured me that God’s help would never fail me, even in times of suffering.”
Fr. Francesco took his fist vows on 7 October 1939 and was ordained priest on 29 June 1945 in Rebbio, where the scholastics were living because of the war. After a year of preparation in Italy, he left for Africa with the first group of missionaries that returned there after the war. He had been assigned to South Sudan. Here he soon showed the stamina of a true missionary dedicating his energies to visiting the villages, running schools and preparing the catechumens. He worked hard up to the point of undermining his health, so that, after six years, he had to return to Italy to recover, where he used his time of rest to do mission promotion. Two years later he was back in the Sudan and remained there until the expulsion of 1964.
He tried to work in Spain between 1964-1965, but Europe was not for him, so at the end of 1965 we find him in Uganda (1965-1972), then he was in Kenya (1972-1974) and finally back in Uganda, among the Karimojong (1974-1999) who became “his people of preference.”
Love for the Africans was a characteristic of Fr. Francesco’s that turned into zeal for their salvation. In 1998 he was sent to Italy to take care of his health. He saw this as a kind of expulsion from the land where he would have wanted to put his bones to rest. “Age and some physical weakness are not sufficient reasons to stand in the way of returning to the missions. I believe that the essential qualities of a missionary are love for our African brothers and sisters and the desire to bring to them the message of Jesus Christ . All other qualities are good, but are not essential. What is the use of having good health, youthfulness and physical strength, if we do not have love for the Africans? We are missionaries, not mercenaries. I have known Africans who have accepted death in order to be faithful to Jesus Christ; I have seen Sudanese catechumens beaten because they had refused to attend the kalwa (Koranic school)… This letter of mine is not written in protest, even though moving me out of Africa is similar to an expulsion. I accept God’s will. But I believe that, in giving me this cross, God used my confreres. I do not bear a grudge against anyone and I pray that God may bless us all. It means that, when I will appear at his judgment, I will tell him that leaving the mission was not my idea, but someone else’s, and He will understand.”
This is a very moving letter because it shows the missionary spirit of Fr. Francesco. We must, nevertheless, say that the superiors had acted with prudence and wisdom, because he was really ill. Despite of his illness, Fr. Francesco was able to return to the missions once more, but then he fell into depression ever more frequently and in a serious manner so that, in the year 2000, he was sent to Italy for good. He was sent to Brescia for a time. He would be taken by car to hear confessions in various places where the ministry of the Comboni Missionaries was requested. He was very happy to do this, as it made him feel that he was still a priest and a missionary. During the journey in the car, he kept saying the rosary because, he would say: “It is by prayer and sacrifice that we save souls, even those of our Christians.”
Fr. Francesco was subsequently transferred to Milano, at the Ambrosoli Centre, and there he spent his days in prayer and also suffering some spiritual pains that he offered up for the Institute and for the missions. Lately he had been confined to a wheelchair, until sister death came to fetch him and take him to the Lord. It was 18 April 2004. Following the funeral, held in the church of Our Lady of Fatima, the body was laid to rest in his hometown’s graveyard.
Da Mccj Bulletin n. 224 suppl. In Memoriam, ottobre 2004, pp.40-51