P. Giovanni Morazzoni era nato il 21 settembre 1928 a Barlassina, Milano. La sua era una illustre e numerosa famiglia – 16 figli di cui due sorelle che sono diventate suore – dai principi saldamente cristiani. Papà Umberto, laureato, era segretario comunale e per questo si era spostato in molti comuni d’Italia. La famiglia fu provata dal dolore: il nostro Giovanni aveva un anno e tre mesi quando rimase orfano di mamma, Rosa Ida Fassi, morta di broncopolmonite a 36 anni. Papà Umberto, con cinque figli in tenera età, si risposò. La nuova mamma, Giuseppina Trezzi, si prese cura dei cinque bambini e ne ebbe altri undici.
Giovanni frequentò alcune classi elementari a Vedano Olona, paese confinante con Venegono Superiore, ospite dello zio parroco Don Ambrogio Trezzi. In quel periodo visitò più volte il “castello” di Venegono dove c’erano i novizi Comboniani, nutrendo per loro ammirazione e simpatia. Avendo vinto delle borse di studio dell’Inadel, poté frequentare il collegio “4 novembre” di Roma (Ostia) e poi il collegio “Principe di Piemonte” di Anagni (Frosinone). Maturata la vocazione sacerdotale, nel 1941 entrò nel seminario diocesano milanese di San Pietro Martire (Seveso) per la terza media e il ginnasio.
Dopo il ginnasio, passò nel seminario maggiore milanese di Venegono Inferiore. Qui sentì il richiamo della vocazione missionaria, “contagiato” dai vicini novizi Comboniani. Con lui, entrarono dai Comboniani anche P. Luigi Cocchi, P. Enrico Galimberti e P. Mario Piotti. Possediamo la lettera che Giovanni scrisse al cardinale per ottenere il permesso di entrare tra i Comboniani.
“Il sottoscritto seminarista Giovanni Morazzoni, della parrocchia di Limbiate, del primo corso liceale, dopo aver molto pregato ed essersi consigliato con i reverendi Superiori, per corrispondere al divino invito del Signore che gli addita quale campo di apostolato l’Africa tenebrosa con i suoi milioni di poveri neri ancora schiavi di Satana, ha deciso di entrare a far parte della Congregazione delle Missioni Africane di Verona, per poter divenire un giorno padre e pastore di quelle povere anime abbandonate.
Fiducioso di poter ottenere il vostro benevolo consenso, promette preghiere per Voi e per il Seminario, a segno di doverosa riconoscenza e perenne gratitudine…”.
Merita di essere citata anche la lettera con la quale i genitori gli diedero il permesso: “Ut infideles universos ad evangelii lumen perducere digneris, te rogamus audi nos… Dolenti per il grande sacrificio, ma nello stesso tempo rassegnati perché memori del santo fine di questo eroico gesto, doniamo a Te, o Signore, un nostro amato figlio affinché, secondo il tuo volere, diventi padre e pastore di tante povere anime abbandonate. Fiduciosi nella tua bontà e misericordia imploriamo da Te aiuti e benedizioni. Limbiate, 1° ottobre 1944”.
Sacerdozio e sofferenza
A Venegono, Giovanni fu accolto da P. Antonio Todesco, maestro dei novizi, il quale scrisse di lui: “È ancora un ragazzo pieno di vita che migliora giorno dopo giorno. Si mantiene molto attaccato alla preghiera e alla direzione spirituale. Ama la vocazione e per essa si sacrifica volentieri. Ingegno buono, carattere un po’ birichino, ma generoso, deciso, assai sincero e buono. Salute un po’ debole, tanto che ha fatto più volte i raggi, ma i medici dicono che non c’è nulla di grave: sono i disturbi della crescita”.
Emise i primi voti il 15 agosto 1946, poi passò a Rebbio per la seconda e terza liceo, ma nel 1948 dovette andare ad Arco per curarsi (1948-1951). Cominciava così il lungo calvario di questo nostro confratello. Dopo un altro anno a Venegono per la prima teologia (1951-1952), ritornò ad Arco per ulteriori cure. Così Giovanni passò tre anni in sanatorio, durante i quali gli fu praticato il pneumotorace e fu operato alle tonsille, alla cistifellea e di appendicite. Di conseguenza, continuò sempre ad essere soggetto a forme bronchiali, insufficienza epatica e a soffrire di vertigini.
Si consolava pensando alla sua vocazione, alla sua donazione totale al Signore. Ecco cosa scrisse in quel tempo: “Gesù, passando un giorno accanto, mi disse: ‘Vieni e seguimi’. Pieno di gioia mi sono messo sulle orme del Maestro divino ed all’ombra della sua croce ho cominciato a salire il mio calvario. Ora che sono prossimo all’altare, Gesù mi ripete ancora con insistenza: ‘Ti voglio tutto mio, ti voglio figlio del mio Cuore’… Sono convinto della mia debolezza e riconosco le mie infedeltà nel servizio del Signore, ma oggi più che mai il Maestro divino additandomi il suo cuore mi fa sentire il suo invito alla confidenza… Il Signore mi conceda la grazia di diventare un apostolo ardente del suo Cuore affinché, nonostante la poca salute, possa lavorare molto un giorno in mezzo alle anime. Desidero poter essere utile all’amata Congregazione che tanto fa per me”.
Nel 1952 i superiori lo inviarono a Roma presso l’Università Urbaniana per completare la teologia. Il clima più mite rispetto a quello del nord, gli consentì di affrontare gli studi abbastanza regolarmente. I giudizi dei superiori, in quegli anni di formazione, sono molto positivi: “Da tutti è ben voluto e stimato, doti di intelligenza ottime, attaccamento al dovere serio, minuzioso nell’eseguire i suoi compiti, cordiale, generoso ed esemplare nell’osservanza delle regole e delle pratiche di pietà. Mostra zelo per la salvezza delle anime. La salute è cagionevole, può, però, fare molto bene in ufficio e nella scuola”.
“Nella comunità dello scolasticato di via San Pancrazio era un esempio per tutti e un elemento unificante per il suo carattere benevolo e comprensivo”, assicura un suo compagno. Prima dell’ordinazione scrisse: “Di fronte alla dignità del sacerdozio non mi resta che umiliarmi e riconoscere che veramente ‘humilia mundi elegit Deus’. Sono riconoscente di tutto al buon Dio e alla Vergine Immacolata che durante il periodo di preparazione mi ha maternamente assistito dandomi più volte segni evidenti della sua efficace intercessione. Con Gesù e Maria guardo serenamente al mio avvenire e rinnovo la mia volontà di spendere tutta la mia vita per la gloria di Dio e per il bene delle anime”.
Fu ordinato sacerdote a Roma dal cardinale Clemente Micara il 9 aprile 1955, un po’ in ritardo rispetto ai compagni a causa della malattia. A volte non poteva seguire i confratelli all’Università, ma godeva di grande considerazione presso i professori e i compagni. Era stimato dal cardinale Confalonieri che era stato segretario di quattro Papi ed era amico personale del suo papà.
Essendo molto maturo, nonostante la giovane età, i superiori lo incaricarono della formazione dei futuri missionari. Così, è stato padre spirituale a Carraia, Lucca, e poi a Brescia (1955-1965). Ma si dedicava molto anche alla pastorale (predicò una missione a Capannori) e all’aiuto ai poveri, ai malati, agli anziani. Sentiva molto questa sua responsabilità, perciò, cercava di rifornirsi di libri per prepararsi sempre meglio. Suoi illustri discepoli a Brescia sono stati l’attuale Superiore Generale dei Comboniani, P. Teresino Serra, e Mons. Gianfranco Masserdotti. Ad un certo punto, ritenendo di non avere una preparazione adeguata, chiese di essere esonerato. Allora, il provinciale di Milano lo nominò suo segretario, in Via Saldini. Fu un segretario attento, minuzioso, preciso e, soprattutto, discreto.
Nella contestazione giovanile
Nel 1966 divenne socio di P. Antonio Zagotto, maestro dei novizi di Gozzano. Qui P. Giovanni ha dato assistenza spirituale, oltre che ai novizi, anche ad un gruppo di universitari della zona. Eravamo già negli anni bollenti della contestazione giovanile che portò, nel 1969, alla chiusura del noviziato. Ecco una pagina di cronaca di quel tempo: “Il padre maestro, Antonio Zagotto, uomo timorato di Dio e consapevole delle sue responsabilità, non se la sentiva di trascinare una situazione che si rendeva ogni giorno più insostenibile. Scrisse, pregò, si consigliò con persone bene addentro nei problemi e poi, con tanta sofferenza in cuore, prese la decisione che gli pareva più conforme alla volontà di Dio e, il 20 gennaio 1969, alla mattina presto, ‘insalutato ospite’ lasciò il noviziato trovando rifugio in un’altra casa dell’Istituto. Con questo gesto intendeva stimolare i superiori di Roma e di Milano (il Superiore Generale e il provinciale) a prendere una decisione definitiva a proposito del noviziato. Possiamo solo immaginare la situazione in cui venne a trovarsi P. Giovanni, già sofferente per i suoi disturbi di salute…
Nei mesi di giugno e luglio di quel 1969 ci sarebbe stato il Capitolo Generale dell’Istituto con l’elezione del nuovo Superiore Generale. Certamente, in quell’importante assemblea si sarebbero affrontati gli scottanti problemi della formazione dei novizi.
Il provinciale, P. Giuseppe Gusmini, uomo portato alla tolleranza, si recò a Gozzano nella speranza di sistemare la situazione con il “buon senso e il buon cuore”. Diede a P. Giovanni l’incarico di badare alla casa, in attesa di P. Giovanni Ferracin che doveva essere il nuovo padre maestro. Egli intanto cominciò a dialogare con i singoli novizi. Ma si rese presto conto che l’unica soluzione era quella di chiudere il noviziato e mandare tutti a casa, riammettendo in noviziato solo quanti erano disposti ad impostare su binari diversi la loro formazione missionaria…”.
Dopo l’esperienza, che sarebbe meglio chiamare “trauma”, di Gozzano, P. Giovanni andò a Milano, in via Saldini, come addetto al ministero (1969-1972) e poi come superiore locale (1972-1974). Quella fu una stagione felice per P. Giovanni, perché, in quel periodo, fece un gran bene all’Istituto, grazie alla vasta cerchia di amici e benefattori che si aggiunsero all’elenco di quelli che già aveva e alla stima che seppe procurare all’Istituto da parte di molti sacerdoti e della Curia. Il Card. Giovanni Colombo lo conosceva, lo stimava e chiedeva sue notizie. Ma fu anche instancabile nel ministero di evangelizzazione e di promozione umana a favore della popolazione del quartiere, sempre con la massima disponibilità e senza giudicare. Nella sua opera caritativa sapeva coinvolgere anche gli altri. Suo fratello Emilio, per esempio, con un furgoncino portava mobili ed elettrodomestici usati a tante famiglie povere e raccoglieva carta e indumenti il cui ricavato andava alle missioni.
Non va trascurato il bene che ha fatto a tanti ex Comboniani che, lasciato l’Istituto, cercavano un posto di lavoro dignitoso. P. Giovanni, grazie ad un suo fratello che era uno dei responsabili dell’aeroporto di Milano, ne ha aiutati molti.
Addetto alla formazione permanente
Nel 1974 i superiori lo chiamarono a Roma perché potesse dedicarsi alla formazione permanente, cioè al corso di aggiornamento per confratelli reduci dalla missione. I fedeli di via Saldini volevano scrivere al cardinale Colombo per trattenere a Milano P. Giovanni, ma egli riuscì a dissuaderli, affinché si realizzasse l’obbedienza nella quale vedeva la volontà di Dio.
Anche nel ruolo di formatore fu amato perché capiva le aspettative dei confratelli e le loro esigenze. Ma fu proprio lui a porre un limite alla sua attività di formatore scrivendo: “Mi permetto due rilievi a riguardo del mio impiego nella formazione: 1° non ho avuto la possibilità di una formazione specifica; 2° in momenti particolarmente difficili ho sentito la mancanza di chiare direttive da parte dei superiori e di corresponsabilità da parte dei confratelli. Per cui, dopo il lungo periodo trascorso nella formazione e le difficoltà degli ultimi tempi, ho sentito indispensabile un avvicendamento. Ho optato per il ministero pastorale e mi trovo molto bene, naturalmente, tenendo conto dei limiti di salute; le mie possibilità di realizzazione sono proporzionate al tipo di lavoro, al clima, ecc. Nel posto giusto mi sembra di non avere particolari esigenze”.
P. Giovanni rimase vincolato alla Curia di Roma fino al 1988, data in cui fu assegnato alla provincia italiana, ma solo sulla carta perché, nel frattempo, era intervenuto un problema di salute. Nel 1976 era stato colto da una nevralgia al trigemino che, progressivamente, gli impedì di continuare qualsiasi attività fino al suo ultimo giorno di vita.
27 anni da “missionario nella sofferenza”
Attraverso le lettere di P. Giovanni ai superiori, possiamo valutare la sua sofferenza fisica e la sua forza spirituale.
Il 12 febbraio 1976 scrisse: “La fastidiosa nevralgia al trigemino mi impedisce di parlare speditamente, non riesco a masticare e deglutire e, soprattutto, non riesco a dormire di notte. Nei momenti di tregua, il male si concentra come una spina tra il naso e l’occhio sinistro e mandPa delle fitte acutissime. Per questo sono stato costretto a ritirarmi dal mio posto di lavoro col sincero dispiacere di mettere altri a disagio per doversi accollare quanto spetterebbe a me di fare… A giudizio dei medici dovrei pertanto sospendere a tempo non facilmente determinabile ogni attività impegnativa, rimanendo per un primo periodo sotto osservazione… Nonostante tutto mi sento in gioiosa comunione con la comunità”.
Il 14 agosto 1976 tentò una nuova cura: “In pochi giorni sono scomparsi i dolori che mi avevano tormentato per più di un mese. Sono sorti, però, dei disturbi collaterali: vertigini, nausea, tremiti, obnubilazione della vista, momenti di amnesia. Il professore che mi segue vorrebbe tentare un’operazione chirurgica; il neurologo, però, è del parere di riservare l’intervento al caso estremo… Da parte mia lascio piena libertà ai superiori di decidere se continuare o meno ad impegnarmi in futuro come responsabile dei corsi di aggiornamento. Ringrazio della comprensione e chiedo scusa degli eventuali disagi in cui altri venissero a trovarsi per me. Io intanto cerco di vivere la mia quotidiana offerta per le Missioni”.
Poiché in quel periodo P. Giovanni si trovava a casa sua, in vacanza, il Superiore Generale, P. Tarcisio Agostoni, gli scrisse: “Volentieri ti do il permesso di celebrare Messa in casa”.
Presso le carmelitane di Civenna
Nell’agosto del 1977, ai disturbi si aggiunse anche “un’epatite aggressiva cronica”. “Mentre mi dichiaro disponibile a qualsiasi decisione dei superiori, non so nemmeno io se sia il caso di chiedere un anno di piena libertà dalla vita comunitaria per vedere se è possibile un recupero delle condizioni di salute. Non credo necessario far presente che, in questo caso, non sarei mosso da altri fini perché mi sento sempre ‘sposato’ all’Istituto al quale sono attaccato. I medici mi consigliano di trascorrere l’inverno in clima di mare e l’estate in montagna in modo da sottoporre i nervi a meno sbalzi possibili”.
Il Superiore Generale gli rispose: “Non solo non ho difficoltà che tu faccia quanto i medici ti indicano, ma è mio desiderio che tu prenda il tempo necessario per sistemare la tua salute al mare o in montagna. Stai sicuro della benedizione di Dio su questo tuo progetto”. P. Giovanni trovò ospitalità presso le Suore Domenicane di Alassio: “Sono in un ambiente da ‘Laudato sii mi Signore’. Qui mi è facile contemplare”.
Inizialmente si cercarono luoghi adatti per cure specifiche finché, il 15 giugno 1978, giunse a Civenna (Como) presso l’Oasi delle Suore Carmelitane di Santa Teresa, dove rimase fino ad una settimana prima di morire facendo il cappellano delle suore.
Tra le suore, i superiori e P. Giovanni il dialogo fu sempre attivo. Scrive la Madre Generale da Torino al Superiore Generale: “Voglio ancora rassicurarla sul conto del caro P. Giovanni Morazzoni che conosco personalmente e di cui ho, più volte, potuto apprezzare la disponibilità alla volontà di Dio e la ricchezza interiore che sa così bene diffondere in quanti lo avvicinano; averlo fra noi, dunque, è una grazia che tutte sappiamo apprezzare”.
Anche la superiora di Civenna scriveva fra l’altro: “La malattia di P. Giovanni è grave ed il medico vi ha dato personalmente relazione. Sinceramente ci sono giorni in cui P. Giovanni, pur volendo guarire, fa veramente pena. Nonostante questo è sereno e gioioso. Quale esempio per noi! Continueremo a fare tutto quello che sarà necessario perché, giustamente, come ci ha raccomandato la Madre Generale, è una pupilla di Dio… Se la carità e la delicatezza sono una buona terapia, penso che l’una e l’altra non gli mancano, perché a Civenna tutti gli vogliono bene”.
Il 25° di Messa
Nel giugno del 1980 P. Giovanni celebrò i 25 anni di vita sacerdotale. Giunsero a Civenna il Superiore Generale e alcuni confratelli. P. Giovanni scrisse: “Abbracciando il Superiore Generale ho inteso abbracciare tutta la Congregazione per esprimerle riconoscenza, affetto e gioiosa comunione ‘Ecce quam bonum et quam iucundum…’”.
Nel dicembre del 1981 fu colpito da una grave forma di broncopolmonite. Se la cavò a fatica.
Nel 1982 scrisse: “Sono contento di appartenere ancora alla comunità della Curia con la quale mi sento particolarmente in comunione ogni volta che celebro l’Eucaristia. I confratelli di Rebbio mi sono vicini, non solo geograficamente, e li devo ringraziare per il loro spirito di fraternità. Di tanto in tanto vengono a visitarmi anche i confratelli di Venegono e, ultimamente, sono venute alcune novizie di Buccinigo. Volentieri offro al Signore quel poco che ho nelle mani per la Congregazione e tutte le sue opere”.
Possiamo veramente dire che P. Giovanni ha fatto tante cose buone nella sua vita, ma il suo capolavoro è consistito nel sopportare per 27 anni la dolorosissima nevralgia al trigemino.
Nostalgia di comunità e di missione
La lontananza dalla propria comunità gli faceva sentire ancora più forte il desiderio di comunità, ma desiderava anche la missione: “Chissà che prima dei cent’anni non riesca a partire per qualche missione. Alla fine mi rifaccio a quella preghiera che fin da bambino mi è stata insegnata da mio padre, tanto devoto del Sacro Cuore: ‘Cuore di Gesù tu sai, Cuore di Gesù tu vedi, Cuore di Gesù che puoi, Cuore di Gesù provvedi. Cuore di Gesù pensaci tu’. Sono grato alla Congregazione per la comprensione usatami… Penso spesso alla mia comunità e mi sento in comunione con essa. Molto spesso ripeto a me stesso: ‘Quanto è bello e buono che i fratelli vivano insieme…’”.
Ma non andò mai in missione. “Io stavo attento – scrive P. Gianantonio Berti, superiore a Rebbio – a non fargli pesare il fatto che ero stato tanti anni proprio nel centro dell’Africa, ma egli mi ha detto un giorno: ‘Tu sei stato in missione anche per me’ e non si notava in lui alcun rammarico. Era sereno e al suo posto, gli bastava compiere la volontà del Signore anche se era dura. Mi faceva ricordare Santa Teresina di Gesù Bambino che, nell’impossibilità di essere missionaria allo stesso tempo in Africa, in India e in America, aveva scelto di essere missionaria nel cuore della Chiesa con l’amore per le missioni.
Per i missionari P. Giovanni pregava, si teneva al corrente dei problemi delle missioni leggendo le riviste comboniane e inviando nelle missioni le offerte che riceveva. Molte persone, anche sacerdoti, andavano a vederlo e da lui ricevevano consigli e conforto. Insomma, era diventato un punto di riferimento nella zona.
Quando nell’agosto scorso la processione con la statua della Madonna si fermò nella chiesa accanto alle suore e P. Giovanni uscì sul balcone per onorare la Madonna, il popolo si mise spontaneamente ad applaudirlo. Anche come religioso era esemplare: tutte le volte che andavo a trovarlo chiedeva i piccoli permessi o chiedeva che confermassi quelli già ricevuti. Ci confessavamo uno all’altro. Gli parlavo liberamente della morte e del paradiso, ed egli ascoltava volentieri e annuiva. Fu lui a ricordarmi la giaculatoria: ‘Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia… assistetemi nell’ultima mia agonia e spiri in pace con voi l’anima mia’, e la recitava spesso.
Pur essendo fuori comunità col corpo, era molto legato ad essa con l’anima e il cuore. Amava e desiderava le visite dei confratelli, mandava a salutare tutti. Quando sono arrivato per salutarlo venerdì sera, mi ha chiesto di stargli vicino, poi ha congedato il fratello e la sorella che lo assistevano e mi ha chiesto di aiutarlo a rinnovare i voti religiosi davanti al crocifisso della prima professione”.
Un limpido orizzonte spirituale
L’orizzonte interiore di P. Giovanni può essere riassunto riportando il brano di una sua lettera scritta al Superiore Generale nel 1978: “Continuo le cure per la nevralgia al trigemino. Il Signore mi dà una grande serenità interiore: mi metto nelle sue mani per essere missionario come Lui vuole, desideroso soltanto di essere utile al mondo, alla Chiesa, all’Istituto, non secondo un mio progetto ma secondo il Suo progetto che può essere quello di manifestare la Sua potenza proprio attraverso la mia estrema debolezza. Mi curo, ovviamente, ma senza essere ossessionato per la salute. Faccio quel poco che posso e lascio che sia Lui a fare attraverso quello che non posso…
Alle volte mi assale il dubbio: questa spiritualità non sarà un alibi? Ma poi dico al Signore: ‘Tu sai il mio desiderio di lavorare anche fisicamente, se ne avessi le forze’. Mi rimetto comunque all’obbedienza per essere sicuro di battere la strada giusta”.
P. Giovanni, nei momenti di tregua del male o quando i dolori erano meno lancinanti, svolgeva anche il ministero esterno. Il gruppo “Movimento Terzo Mondo” di Milano, al quale prestava la sua opera come sacerdote, scrisse: “P. Giovanni, senza imporsi, ha saputo con la sua semplicità e con il suo amore verso il prossimo conquistare la nostra piena fiducia donandoci quell’aiuto spirituale e quella forza interiore di cui avevamo tanto bisogno e che un vero amico, come egli si è rivelato, ha saputo dare”. Era diventato il confessore di molti sacerdoti della zona e di moltissimi fedeli “che ricorrevano a lui come ad un novello P. Pio”.
Aspettando l’incontro col Padre
P. Gianantonio Berti, alla cui comunità P. Giovanni apparteneva dal 1988, ha tenuto l’omelia funebre e ha detto che P. Giovanni ha saputo nascondere sotto il velo dell’umiltà e del nascondimento una grande ricchezza interiore. “Io l’avevo conosciuto, solo di sfuggita, in un suo passaggio a Venegono quando ero scolastico, 40 anni fa, poi non l’ho più rivisto fino a quando è diventato membro della comunità di Rebbio. Ho sempre portato dentro di me un ricordo bello, come di un angelo che passa senza dire nulla, ma lasciando dietro di sé la scia di un sorriso buono che pacifica l’anima che l’ha incontrato.
Sono contento di averlo potuto assistere durante una notte. Si vedeva bene che soffriva perché riusciva a stento a trovare una posizione per riposare; eppure non si lamentava. In quella notte P. Giovanni mi ha fatto pensare a Gesù nel Getsemani, ma lui si preoccupava per me: ‘Siediti, copriti con la coperta; torna a casa prima che cominci il traffico…’.
La crisi decisiva era cominciata nei primi giorni di agosto e mi ero convinto che la Madonna sarebbe venuta a prenderlo il giorno dell’Assunta, poi, il 12 settembre (nome di Maria), perché era un gran devoto della Madonna. Una settimana prima di morire, è stato ricoverato nel Centro Ambrosoli (la casa di cura di Milano per i Comboniani ammalati). Il commiato da Civenna ha fatto piangere le suore carmelitane che lo hanno assistito con amore per 26 anni, il parroco Don Antonio e numerosi fedeli.
Quando l’ho lasciato, alla vigilia della festa del nostro Fondatore, ho capito che la Madonna aveva voluto fare una gentilezza a San Daniele Comboni, lasciando a lui l’onore di venirlo a chiamare come per dirgli che era stato un grande missionario, un suo fedele seguace, pur senza essere andato in Africa”.
Anche il parroco di Civenna e una suora carmelitana hanno dato la loro testimonianza dicendo cose che, se non fosse per esigenze di spazio, meriterebbero di essere riportate.
I funerali sono stati trionfali, con una grande presenza di sacerdoti e fedeli, sia a Milano che a Meda dove ora riposa. La morte di P. Giovanni è stata come il coronamento di una vita spesa per l’Istituto, da lui intensamente amato, e per le missioni sempre presenti nei giorni e anni della sua sofferenza. Ora dal cielo continuerà la sua preghiera di intercessione per i confratelli, per i familiari, per le suore carmelitane e per i fedeli che ricorrono a lui come a un santo.
P. Lorenzo Gaiga. Mccj.
Da Mccj Bulletin n. 226 suppl. In Memoriam, aprile 2005, pp. 40-50.
Chi ha seguito P. Giovanni nella sua lunga e dolorosa malattia prevedeva la sua scomparsa in una data simbolica. Così, sembrava che dovesse morire per l'Assunta, poi, il 12 settembre (Nome di Maria). Trascorsa anche quella data, si è intravista la festa di San Daniele Comboni, e così è stato: come un coronamento di una vita spesa nell'Istituto, da lui intensamente amato, e nelle missioni, sempre presenti nei giorni e anni della sua sofferenza.
Nato a Barlassina (Milano) in una numerosa e illustre famiglia il 1° ottobre 1944, fu presentato dai genitori all'Istituto con questa singolare formula di donazione: “Dolenti per il grande sacrificio... doniamo a Te, o Signore, il nostro amato figliolo, affinché, secondo il tuo volere, diventi padre e pastore di tante anime...”. Dopo le elementari aveva frequentato un Istituto tecnico e, successivamente, era entrato nei seminari della diocesi di Milano, Seveso e Venegono Inferiore. Iniziò il noviziato con i Comboniani a Venegono Superiore il 14 ottobre 1944 ed emise i primi voti il 15 agosto1946. Ma la salute cominciò a condizionare i suoi studi, perciò dallo scolasticato di Rebbio (1946-1948) passò per delle cure ad Arco (1948-1950), per tornare poi a Venegono (1950-1951) e nuovamente ad Arco (1951-1952). Nell'ottobre 1952 giunse a Roma, in un clima più adatto alla sua salute, e proseguì gli studi teologici presso l’Urbaniana. Nella comunità dello scolasticato a San Pancrazio era un esempio per tutti e un elemento unificante per il suo carattere benevolo e comprensivo. Fu ordinato sacerdote a Roma il 9 aprile 1955.
Fu destinato dai superiori alla formazione in qualità di direttore spirituale, prima a Carraia (1955-1958) e poi a Brescia (1958-1965). Sentiva molto questa responsabilità e, credendo di non avere una preparazione adeguata, chiese di essere esonerato. Così poté dedicarsi al ministero (Milano, Via Saldini) che gli dava soddisfazione e per il quale era ricambiato con affetto e stima. Il Cardinale Giovanni Colombo lo conosceva e lo stimava. Quegli anni (1965-1974) furono interrotti soltanto da un periodo a Gozzano come vice padre maestro (1966-1969). Nell'estate del 1974 fu chiamato a Roma come assistente al corso di rinnovamento. Anche in questo ruolo fu amato perché capiva le aspettative dei confratelli e le loro esigenze. Nel 1977, però, fu colto da una nevralgia al trigemino che, progressivamente gli impedì di continuare qualsiasi attività e continuò, di cura in cura, fino al suo ultimo giorno: 27 anni da missionario nella sofferenza.
Inizialmente si cercarono luoghi adatti per cure specifiche finché nel 1978 giunse a Civenna (Como) presso l'Oasi delle Suore Carmelitane di Santa Teresa, dove rimase fino ad una settimana prima di morire. Giuridicamente appartenne alla Curia generalizia fino al luglio 1988, data in cui fu assegnato alla provincia italiana, trovandosi vicino alla comunità di Rebbio.
Vi fu sempre un intenso dialogo fra i superiori e P. Giovanni, come pure con le Suore Carmelitane di Santa Teresa. La Superiora Generale nel 1982 scriveva da Torino al Superiore Generale dei Missionari Comboniani: “Voglio ancora rassicurarla sul conto del caro P. Giovanni Morazzoni che conosco personalmente e di cui ho, più volte, potuto apprezzare la disponibilità alla volontà di Dio e la ricchezza interiore che sa così bene diffondere in quanti lo avvicinano; averlo fra noi è dunque una grazia che tutte sappiamo apprezzare”. Anche la superiora di Civenna scriveva fra l’altro: “La malattia di P. Giovanni è grave ed il medico vi ha dato personalmente relazione. Sinceramente ci sono giorni in cui P. Giovanni, pur volendo guarire, fa veramente pena... nonostante questo è sereno e gioioso. Quale esempio per noi... Continueremo a fare tutto quello che sarà necessario perché, giustamente, come ci ha raccomandato la nostra Superiora Generale, è una pupilla di Dio”.
Si può quasi riassumere l'orizzonte interiore di P. Giovanni riportando un brano centrale di una lettera che scrisse da Civenna nel 1978 a P. Tarcisio Agostoni, Superiore Generale: “Continuo le cure per la nevralgia del trigemino; il Signore però mi dà una grande serenità interiore: mi metto nelle sue mani per essere 'missionario' come Lui vuole, desideroso soltanto di essere utile al mondo, alla Chiesa, all’Istituto... non secondo un mio progetto ma secondo il Suo progetto che può essere di manifestare la Sua potenza proprio attraverso la mia estrema debolezza. Mi curo, ovviamente, ma senza essere ossessionato per la salute; faccio quel poco che posso e lascio che sia Lui a fare attraverso quello che non posso... Alle volte mi assale il dubbio: questa 'spiritualità' non sarà un alibi? Ma poi dico al Signore: ‘Tu sai il mio desiderio di lavorare anche fisicamente, se ne avessi le forze!’ Mi rimetto comunque all'obbedienza per essere sicuro di battere la strada giusta”.
P. Pietro Ravasio.