Fr. Ulderico Menini ha scritto un’autobiografia da cui riassumiamo queste note.
Nacque a Verona il 13 maggio 1922 “quando si stava preparando la marcia su Roma e si cantava Giovinezza. Era anche il mese di maggio, con tante rose e fiori. A scuola mi chiamavano ‘figlio della lupa’, il parroco mi chiamava ‘figlio di Dio’ e la mamma semplicemente ‘il mio piccoletto più grande’, il che, tutto compreso, creava una grande confusione”. Di quegli anni Ulderico ricorda le frequenti camminate per andare in chiesa per la Messa mattutina, il catechismo, la prova di canto “e, se si aggiungevano funzioni serali, diventavano ulteriori passeggiatine d’estate e d’inverno. Siamo arrivati così al 1935, quando per necessità di cose siamo andati a fare i mezzadri dal parroco”.
La vocazione
In quel periodo cominciò a maturare la sua vocazione, sentendo nel suo cuore l’invito: “Se vuoi, vieni. Sì, dicevo, ma dove, come, quando? Nel frattempo mi passò per la mente di mettermi a pregare, così per conto mio, e di nascosto perché nessuno doveva sapere niente. Provavo anche gusto a rimanere in chiesa alle volte, altre volte rimanevo su in camera della mamma con il suo crocifisso tra le mani e piangevo di commozione”. Suo fratello minore, Ugolino, accettato nel seminario comboniano di Padova, portava a casa dei libri missionari da vendere durante le vacanze estive e Ulderico li divorava tutti. Un giorno rivelò alla mamma questo suo desiderio piuttosto timidamente. La prima reazione della mamma fu: “Non sarai matto, con tutto quello che c’è da fare!”. Poi fu lei a ritornare cautamente sull’argomento, dicendogli che erano cose serie e che bisognava pensarci bene. Nel 1938, in occasione del Congresso eucaristico di Verona e del centenario di San Zeno, vari gruppi religiosi allestirono una grande mostra missionaria e qui Ulderico si innamorò della vita religiosa. La mamma gli consigliò di parlarne con il parroco.
I primi anni coi Comboniani
Nel frattempo aveva conosciuto i Missionari Comboniani di Verona e così, nel giugno del 1939, a diciassette anni, fece domanda di entrare nell’Istituto. Data la sua età e la mancanza di studi, venne mandato a Thiene per prepararsi a diventare Fratello. Poi, fu mandato a Firenze per il noviziato (1940-1942), dove emise i primi voti nell’ottobre 1942 e, sei anni dopo, i voti perpetui. Terminato il noviziato, fu assegnato alla provincia italiana e trascorse otto anni in varie case d’Italia (Sulmona, Padova, Troia, Verona), dove prestò servizio principalmente come cuoco. E non fu, di certo, un compito facile visto che erano gli anni della guerra (con i controlli e i bombardamenti) e dell’immediato dopoguerra (con scarsità di tutto). Dopo la guerra, iniziarono anche i lavori di ricostruzione, nonostante la difficoltà di reperire materiale da costruzione, perché i ragazzi cominciavano a tornare in seminario. C’era da lavorare sodo. “Si doveva poi andare a fare la spesa. Macchine non ce n’erano a disposizione e mi portavo a casa il necessario in bicicletta, con due portabagagli grossi, a volte carico come un asino, su per via Fontana del Ferro. M’accadde un giorno che andai a finire dentro le rotaie del tram con le ruote della bicicletta, rovesciando tutto in piazza. Fortuna volle che non ci fosse tanta gente in quel momento ad assistere allo spettacolo: veste talare, bicicletta e cappello da prete… roba da don Camillo”. L’11 giugno 1949 Ulderico partecipò con la mamma all’ordinazione del fratello Ugolino nel duomo di Milano. “Mai vidi la mamma così contenta. Non cessava di ringraziare il Signore e la Madonna per un dono così grande, di essere coinvolta in un evento così grande, troppo, troppo era per lei e si riteneva soddisfatta di tante tribolazioni e sacrifici sofferti in tanti anni”.
In Sud Sudan
“La sera della domenica di Pasqua del 1950, come di consueto, portai il caffè al Superiore Generale, P. Antonio Todesco. Io ero stanco morto, mentre P. Todesco aveva voglia di chiacchierare e portò il discorso sull’Africa. Sentendo che per aria c’era qualcosa di insolito, cominciai anch’io a parlare e a dirgli che dopo dieci anni di cucina, sarebbe stato ora di cambiare aria e di fare il missionario sul serio. La sera seguente P. Todesco m’informò che potevo partire anch’io per la nuova Prefettura di Mupoi, in Sudan”.
Dopo il volo fino a Khartoum, Fr. Ulderico e i suoi compagni presero un barcone che, dopo molti giorni e peripezie li portò a Wau e da qui, procedendo con un “vecchio camion, un residuato della guerra di Abissinia senza porte né sedili”, arrivarono a Mupoi. Dopo alcune settimane, Fr. Ulderico raggiunse Yubu, “mia finale destinazione, che sarebbe diventata anche la missione del cuore. Yubu era a quel tempo la missione più bella e più ambita di tutto il vicariato, situata a circa mille metri sul livello del mare, vicina ad un ospedale e a un piccolo centro commerciale. Incontrai P. Raffaele Errico, apostolo della strada, P. Italo Gheno, gran missionario delle visite ai villaggi, P. Walter Bellini, gran maestro di catechismo, con Fr. Erminio Ferracin e Fr. Ernesto Calderola”. A Yubu, Fr. Ulderico si trasformò in muratore, preparando centinaia di migliaia di mattoni per i vari fabbricati della missione, la casa dei padri e delle suore, la chiesa, i dormitori per le ragazze e i catecumeni, ecc. Trasferito poi a Yambio, una missione aperta di recente, anche qui si mise ad aiutare gli altri Fratelli nelle costruzioni, soprattutto di scuole e dormitori. In un anno riuscirono a preparare settecentomila mattoni. Un’impresa gigantesca, se si pensa che bisognava prendere l’argilla o il fango dal fiume e prepararne la forma, metterli in fila e proteggerli dal sole con la paglia, raccogliere legna a sufficienza e poi cuocerli per giorni nei forni preparati a questo scopo. Il trasporto di ogni cosa era fatto a mano, non essendoci mezzi a disposizione. Il vescovo intendeva mettere su una produzione di mattoni su scala industriale da vendere anche alla gente e aveva loro procurato una macchina per fare i mattoni “made in USA”. Finché ha funzionato, andava tutto bene. “Riuscivamo a produrre 20 mila forme al giorno. Siamo arrivati alla vigilia di Natale con un milione e duecentomila mattoni, tutti là in piedi, l’uno vicino all’altro, come giovani balilla sull’attenti. Ma quanto lavoro: le notti non erano nemmeno lunghe abbastanza per farci sognare! E noi, com’eravamo ridotti! Il giorno dopo Natale, P. Remo Armani ci disse che potevamo prendere quel che volevamo, ma che andassimo via per almeno quindici giorni a riposare”.
Una strana malattia
“Verso Pasqua del 1956 cominciai a sentirmi male: uno strano mal di stomaco che mi prendeva un giorno alla settimana e dal quale non riuscivo a guarire”. Quell’anno iniziarono anche le ostilità del governo contro i missionari. La Pasqua dell’anno successivo, Fr. Ulderico ebbe “l’opportunità di battezzare quattro persone in fin di vita: questa è stata una grande soddisfazione che il Signore nella sua bontà mi ha voluto concedere”. Intanto il suo male non diminuiva. Il 15 agosto, festa dell’Assunta, assisté febbricitante alla S. Messa: sarebbe stata la sua ultima in terra d’Africa. Subito dopo, ritornò a letto con la febbre alta e senza più forze, anche perché non riusciva a deglutire nulla. Inutili, se non pericolosi, sono stati i tentavi di alcuni medici di soccorrerlo: spesso le medicine lo facevano sentire peggio. Venne presa la decisione di rimandarlo in Italia. Il 10 ottobre partì per Wau e da qui, con un aereo, per Khartoum, solo che dopo circa un’ora di volo, “notai che un motore dell’aereo, quello vicino a me, si era fermato d’improvviso. A bordo c’ero solo io, alcune suore ed il personale di servizio. Invertendo la rotta, l’aereo ritornò a Wau. Non occorre dire che abbiamo invocato tutti gli angeli e i santi disponibili lassù in cielo, e certo non sarà mancata la loro Regina e Mamma nostra. Con il loro aiuto siamo arrivati a mettere piede a terra e a tirare un bel sospirone di sollievo e a riacquistare i nostri colori”.
In Inghilterra
Il 7 novembre 1958 Fr. Ulderico arrivò in Italia. Alloggiando a San Pancrazio, Roma, venne sottoposto a visite mediche, ma nessuno riusciva a diagnosticare la sua malattia. Però iniziò a mangiare qualcosa. Dopo una visita agli anziani genitori, a Verona incontrò P. Todesco che gli suggerì di andare in Inghilterra.
Il 15 giugno 1960 partì per l’Inghilterra e precisamente per Mirfield, Yorkshire, dove un gruppo di Fratelli stavano demolendo un vecchio edificio per costruire il nuovo seminario minore. La pioggerella, l’umidità e il freddo non gli fecero troppo bene. In gennaio dell’anno seguente fu ricoverato all’ospedale italiano di Londra e da qui fu mandato al St. Pancras Hospital, specializzato in malattie tropicali. Qui, dopo numerosi test e lastre, il professore gli disse che si trattava di un’ulcera (‘una sola?’ chiese il medico che gli stava accanto) piuttosto brutta e gli ordinò di rimanere in ospedale e a letto per otto settimane di seguito. Fr. Ulderico scrisse al Superiore Generale, P. Gaetano Briani: “Temo che, per me, non sarà tanto una bella Pasqua perché, com’era da prevedersi, dovrò passarla a letto bevendo grandi bicchieri di latte”. In marzo 1960 ritornò in ospedale perché non si sentiva bene. Qui gli dissero che quell’andamento era tipico della bilarzia. In giugno si sentì nuovamente male e fu operato per un’appendicite e numerose aderenze lasciate dalle ulcere guarite. Finalmente, tre anni dopo essersi messo a letto per la prima volta con la febbre a Yubu, Fr. Ulderico cominciava a sentirsi meglio e a recuperare le forze.
Uganda e Kenya
Il 10 ottobre poté ritornare in Italia, dove rimase poco più di quattro anni, nelle case di Crema e Pordenone. Nell’aprile del 1965, sapendo che si cercava del personale da mandare in Congo dopo l’uccisione dei nostri quattro confratelli, Fr. Ulderico chiedeva umilmente di essere inviato nuovamente in missione, possibilmente in Congo. Scriveva: “So pure di non meritare un tale favore e sono anche convinto di non essere degno di calcare le orme dei nostri eroici missionari che laggiù così generosamente hanno lasciato la vita”.
Quello stesso anno Fr. Ulderico venne assegnato alla provincia dell’Uganda. Rimase quasi dieci anni, dapprima nella missione di Katikamu (dove costruì una grande chiesa e altre cappelle) e poi in quella di Kasaala, anche qui addetto principalmente alle costruzioni. Per il mancato rinnovo del permesso, dovette trasferirsi in Kenya per un paio di anni. Lavorò per il vescovo di Eldoret, “una cittadina oltre i tremila metri, tutta villette e giardini di fiori da rimanere incantati”. Un giorno, il 31 marzo, mentre si recava al posto di lavoro in macchina, venne investito da un treno che lo trasportò per oltre un chilometro. “Finalmente il treno si fermò. Scesi tranquillamente dalla macchina con poca fatica: la porta era aperta ed avevo perso la ruota sinistra della macchina”. Arrivano i conducenti del treno, la polizia e poi anche l’ambulanza convinti di trovare morti e feriti, ma trovarono solo Fr. Ulderico senza neanche un graffio. Il mese dopo era già di ritorno sul posto di lavoro per una grande costruzione voluta dal vescovo. La costruzione consisteva in un noviziato per le Suore locali (quattro fabbricati con i vari servizi) e due per la servitù: il tutto attrezzato per la luce e l’acqua, con relativo scarico, poi un grande fabbricato con chiesa, parlatori, sale per riunioni, scuole, laboratori, refettorio e cucina. Oltre a questo, era impegnato in mille altri lavori, tra cui rifare il tetto della cattedrale. “Ormai era tutto finito. Avevo licenziato gli operai, eccetto una decina per fare i giardini ed alberare la cinta di cipressi, e mi ero recato in città per pagare le ultime fatture, quando cominciai a sentirmi male. Feci appena in tempo a mettermi a lato della strada con la macchina, quando la vista mi si offuscò quasi completamente e cominciò un forte vomito di sangue”.
Rientro definitivo in Italia
Così, nel 1976, fu costretto, ancora una volta per motivi di salute, a tornare in Italia. Venne nuovamente assegnato alla provincia italiana, nella comunità di Verona, addetto alla Casa Madre come Fratello tuttofare. Pur conservando nel cuore il grande desiderio di ritornare in missione, non gli fu più possibile, perché non si ristabilì mai sufficientemente in salute. Nel 1978 scriveva: “Qui a Verona quelli che possono lavorare sono pochi, e quei pochi devono sgambettare tutto il giorno affinché le cose vadano bene e siano di comune soddisfazione”.
A Verona, con una comunità così eterogenea, non deve essere stato un periodo facile. I confratelli anziani avranno sofferto per i cambiamenti, le decisioni e le ventate di rinnovamento che spiravano in tutti gli angoli della casa: spostamento della biblioteca (con relativo disfacimento dei libri e cose vecchie), del museo, del terzo piano, degli uffici di Nigrizia, cambiamento dei superiori, e poi, in particolare, il ridimensionamento della chiesa per avere più spazio per le stanze dei confratelli anziani e ammalati. “C’erano sempre coloro che sognavano ristrutturazioni più ampie e più radicali. Si sentiva spesso parlare di rinnovamento con grande avversione per il passato, il che ci lasciava perplessi perché non si riusciva mai a capire cosa significasse”.
Fr. Ulderico prese in consegna gli incarichi di altri Fratelli. “Nel 1980 ereditai alcune gabbie di conigli dal Fratello che c’era prima di me e mi fu proposto di tirarle fuori ed utilizzarle. Da principio lo feci più per hobby che per altro, ma vidi che la cosa era gradita alla comunità e che riuscivo anche a procurare molta carne da vendere, già confezionata in sacchetti da tre chilogrammi. Ma poi tutto venne fermato perché ‘sapeva di tradizionalismo e di passato: oggi al mercato si trova tutto ciò che si vuole e senza fatica’. Mi venne affidato anche l’orto che provvedeva verdura a sufficienza alla comunità e ai confratelli di passaggio. Ma anche qui trovai non poche critiche dai soliti progressisti. Senza dire poi che quelli sopra di me a volte mi chiedevano di piantare certi prodotti e i loro successori magari mi dicevano di fare il contrario”.
“Nel 1988 in consiglio di comunità fu deciso di pulire il monte dietro la statua dell’Angelo, che era tutto bosco e spine alte a non dire, sotto cui trovavano rifugio incontrastato i drogati e gente poco raccomandabile. In alcuni posti si trovavano siringhe a manate. Nel settembre di quell’anno, tra una cosa e l’altra, mi misi a lavorarci. Sotto i rovi spinosi, scoprii degli ulivi. La forestale intervenne un paio di volte, chiamata da un vicino interessato a quel terreno, accusandomi di tagliare gli alberi. L’anno successivo continuai nel mio lavoro, scavando ceppi e radici d’ogni genere e, nel frattempo, piantando ulivi e alberi da frutto. Ne ebbi per tre anni, perché vi lavoravo solo in autunno e in inverno, quando l’orto non richiedeva il mio tempo”.
Nel 1996 Fr. Ulderico partecipò a Roma, alla Beatificazione di Daniele Comboni. È rimasto a Verona fino a quando, il 26 ottobre 2008, è ritornato alla casa del Padre.
Testimonianze
P. Aleardo De Berti così lo ricorda nel giorno del funerale: “Fr. Ulderico ha vissuto 86 anni, di cui 66 consacrando il suo tempo, il suo lavoro e la sua vita con la professione religiosa missionaria. Il 7 ottobre scorso ha festeggiato spiritualmente il 60° di consacrazione perpetua. Non è necessario entrare nei particolari della sua vita. So che ha usato i suoi talenti in Sud Sudan, Uganda e Kenya, come pure in Inghilterra e qui in Italia. Quanti hanno vissuto con lui possono testimoniare delle belle costruzioni eseguite in missione e del bell’orto che coltivava in Casa Madre. Fr. Ulderico può essere chiamato lo specialista dell’orto per la cura che aveva di ogni pezzo di terreno a lui affidato, col quale riusciva a fornire verdura fresca a tutta la comunità. Anche lui ha tentato di cooperare alla costruzione della città di Dio in questo mondo, come hanno fatto e fanno tanti Missionari Comboniani, ciascuno con talenti diversi l’uno dall’altro. Vorrei concludere col pensiero offertomi dalla sua data di nascita: 13 maggio, giorno in cui si commemora la prima apparizione di Fatima. Penso proprio che la Madonna, Madre della Chiesa missionaria, abbia guidato la vita del giovane Ulderico, così da affidarlo alla spiritualità missionaria di San Daniele Comboni dall’età di 18 anni, con la sua entrata in noviziato, fino al giorno della sua morte avvenuta di domenica, giorno in cui si celebra la risurrezione del Signore. Per Fr. Ulderico, quella è stata l’ultima chiamata che il Padre gli ha rivolto”.
P. Teresino Serra, Superiore Generale, così ha scritto in occasione della sua morte: “Se ognuno di noi parlasse di una virtù che ha visto nella vita di questo nostro fratello, ne verrebbe fuori un bel mosaico di qualità comboniana. Tra queste virtù, nomino il suo amore all’Istituto e alla vocazione di Fratello. A Fr. Ulderico piaceva intonare il canto Gesù lo sguardo amabile, che ci riportava a tempi da non dimenticare. Ma anche Fr. Ulderico aveva uno sguardo amabile… perché aveva un gran buon cuore. Le parole che di lui ricordo di più sono: ‘Prego per i Superiori, perché siano buoni con noi poveretti’. Lo diceva in dialetto e con una risatina di bontà”.
Ci piace riportare anche le parole dei suoi familiari: “Caro zio, oggi per noi è un giorno di dolore perché sei venuto a mancare e ci lasci un vuoto che è incolmabile. Vogliamo rendere grazie a Dio per averci donato la tua presenza nella nostra vita. Sei stato per noi dono di semplicità, umiltà, carità, bontà e fede in Gesù Cristo. Con la tua allegria e il tuo sorriso ci hai dato conforto e speranza nelle prove della vita. Hai lasciato nei nostri cuori un segno indelebile perché hai vissuto come un degno, onesto e instancabile lavoratore nella vigna del Signore, soprattutto nella tua missione di Comboniano. Il tuo amore per il lavoro umile della terra ha portato buon frutto e hai saputo far nascere germogli d’amore anche dove il terreno era arido. Possa il Signore accoglierti nella vita eterna insieme alla Vergine Maria di cui sei stato fedele servitore”.
Da Mccj Bulletin n. 239 suppl. In Memoriam, ottobre 2008, pp. 109-117.