Eugenio era nato a Jerago, in provincia di Varese, il 17 giugno 1942. A undici anni entrò nel seminario dei Tommasini a Torino per il periodo 1953-1958, dove completò il ginnasio. Durante l’ultimo anno conobbe il Comboniano P. Enrico Farè che a quei tempi era incaricato dell’animazione vocazionale. Tenutosi in contatto epistolare con lui, nel 1958 Eugenio chiese e ottenne di entrare dai Missionari Comboniani. Siccome proprio in quegli anni l’Istituto aveva deciso che si terminasse il liceo prima di entrare in noviziato, Eugenio venne mandato a Carraia (Lucca) per finire gli studi liceali.
Entrato nel noviziato di Gozzano (Novara), emise i primi voti nel 1963 e i voti perpetui nel 1966. Fece i primi tre anni di scolasticato a Brescia, dove fu anche “prefetto” dei giovani seminaristi, e il quarto anno a Venegono. Fu ordinato sacerdote il 28 giugno 1967 a Milano dal Cardinale Giovanni Colombo.
Dopo l’ordinazione fu mandato nel seminario minore di Rebbio (Como) per sei anni (1967-1973) come formatore e incaricato dell’accoglienza dei confratelli anziani. Qui ricevette la sua destinazione per il Centrafrica.
Nella missione del Centrafrica
È interessante ricordare che il territorio del Centrafrica aveva fatto parte del Vicariato di Comboni, anche se allora Comboni non aveva potuto fare nulla per mancanza di personale.
Solo nel 1966 un gruppo di Comboniani poté giungere nella Repubblica Centrafricana, stabilendosi nelle due parrocchie di Agbosi e Mboki, nella diocesi di Bangassou. Il loro arrivo e la loro presenza erano stati motivati da alcune decine di migliaia di rifugiati sudanesi, in maggioranza azande, nella regione sud-orientale del paese. Dopo gli accordi di Addis Abeba nel 1972, i rifugiati cominciarono gradualmente a ritornare in Sudan ed ebbe inizio la nuova fase della missione comboniana in Centrafrica.
Così, passata l’emergenza dei rifugiati, l’ultimo trentennio ha visto suore, padri e fratelli cercare di rispondere ai bisogni della Chiesa e del popolo centrafricano in diverse zone e diocesi del paese. Per tutti, non sono di certo mancate le sfide, in tutti i campi: dal dialogo con l’islam all’approccio fermo ma costruttivo con le sette, dal flagello dell’Aids all’impegno per la formazione di laici locali a tutti i livelli, perché diventassero sempre più protagonisti dello sviluppo democratico del paese e della crescita di una comunità cristiana matura e dinamica.
È in questo contesto che P. Eugenio si inserì per un periodo di quindici anni (1973-1988). Durante quegli anni lavorò nella missione di Boda come parroco e superiore locale, a Bangui come provinciale del Centrafrica (1981-1986) che a quel tempo comprendeva alcune comunità in Ciad, e poi nel ministero pastorale.
Una sua caratteristica, come provinciale, era l’attenzione costante per la salute fisica e morale dei confratelli. Se si accorgeva che in una comunità c’era un problema, non esitava a mettersi in viaggio e a percorrere centinaia di chilometri per andare a visitare quei confratelli, cercare di risolvere al meglio le difficoltà e riportare la serenità.
P. Eugenio è stato provinciale nei momenti più difficili e delicati che il Centrafrica e il Ciad abbiano avuto: colpi di stato, guerre civili, momenti di forte tensione tra i guerriglieri e il governo, eppure non ha mai rinunciato a fare viaggi lunghi e faticosi pur di non lasciare soli i suoi missionari e incoraggiarli. Anche a rischio della vita.
In Italia
Assegnato all’Italia nel 1988, P. Eugenio lavorò a Casavatore (1988-1991) nell’animazione missionaria, come economo e nella pastorale tra gli immigrati. Dal 1991 al 1999 rimase a Gordola (Svizzera), occupandosi soprattutto dell’accoglienza agli anziani. Trasferito a Venegono, lavorò nell’animazione missionaria e nel ministero pastorale fino ai suoi ultimi giorni.
Quando la salute è diventata più fragile, P. Eugenio si è reso conto dell’impossibilità di tornare in missione. Ma questo non gli ha impedito di mantenere sempre vivo il suo spirito missionario. Davanti all’evidenza di non poter più essere attivo come in passato, non si è arreso, non ha mai voluto sentirsi disoccupato e ha saputo trasformare la sua nuova condizione in una “missione”: con la sua presenza attiva nella comunità, con il ministero nelle parrocchie vicine, rendendosi disponibile per la confessione e la direzione spirituale nei confronti di tante persone che venivano a cercarlo e dedicando tanto tempo alla preghiera.
P. Eugenio è morto a Venegono (Varese) il 17 marzo 2010 ed è stato sepolto a Jerago, suo paese natale.
La Messa funebre, celebrata la mattina del 19 marzo nella chiesa di S. Giorgio a Jerago, è stata presieduta da mons. Luigi Stucchi, vescovo ausiliare di Milano incaricato della zona di Varese, con la presenza di un altro vescovo ausiliare milanese, mons. Mario Delpini, originario di Jerago, e di vari confratelli comboniani e sacerdoti della zona. Nell’omelia, Mons. Stucchi ha posto l’accento sulla fedeltà di P. Eugenio alla vocazione missionaria, nonostante la malattia, e si è augurato che il suo esempio possa essere seme di nuove vocazioni. Dopo la comunione, sono intervenuti P. Corrado Masini, provinciale dell’Italia, che ha ringraziato a nome dei Comboniani la famiglia e la parrocchia per aver donato P. Eugenio alla missione, e P. Livio Tagliaferri che ha ricordato il servizio svolto da P. Eugenio come provinciale del Centrafrica in anni difficili, la sua attenzione alle persone e la vicinanza ai missionari in difficoltà. Infine il parroco, don Remo Ciapparella, ha fatto notare che proprio quel giorno, 19 marzo, era previsto in parrocchia un incontro con P. Eugenio nell’ambito dell’anno sacerdotale, ma la sua testimonianza l’ha data con la sua morte, a conclusione di una vita interamente donata.
Testimonianza di un confratello
“Con la sua morte, ci ha lasciato un vuoto ma anche un’eredità: il suo ricordo ci porta a vedere in lui un esempio di vita donata con amore e impegno fino alla fine. Con i fatti più che con le parole, P. Eugenio ci ha insegnato che la vita va vissuta nel quotidiano come un dono da amare e condividere.
La sua scomparsa improvvisa e inattesa ha lasciato tutti noi che lo conoscevamo nello sconcerto e nel dolore. Aveva superato bene l’operazione all’anca e aveva ripreso i suoi servizi alla comunità e i contatti con parroci e amici. Per la comunità dei Missionari Comboniani di Venegono, poi, dopo i cambiamenti avvenuti in questi ultimi due anni, era un punto di riferimento importante. Quella mattina in cui ho ricevuto la telefonata che mi annunciava la sua morte, il mio primo pensiero è andato alla frase del vangelo nella parabola dei talenti: “Vieni servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo Signore” (Mt 25,11-30). È questa fedeltà che ha caratterizzato tutta la vita di P. Eugenio: fedeltà alla sua vocazione missionaria, fedeltà agli impegni che gli sono stati affidati in questi 47 anni di vita religiosa e 43 di ministero sacerdotale, e fedeltà alla preghiera”.
Testimonianza di P. Antonio Guarino
Ricordo P. Eugenio con tanta simpatia e ammirazione. Ho trascorso con lui, a Venegono, circa due anni, dal 2006 al 2008. La cosa che più mi ha colpito è stata la sua forte identità missionaria e comboniana. Vedeva il ministero come possibilità concreta di animazione missionaria ed era sempre pronto per qualsiasi tipo di ministero che gli veniva offerto. Generoso e disponibile, lo portava avanti con tanta voglia e piacere. Cosciente del fatto che probabilmente non sarebbe più tornato in missione, faceva del suo meglio per rendersi utile nel campo pastorale.
Amava i confratelli. Sì, era capace di amarli profondamente e di soffrire con loro e per loro. P. Eugenio faceva delle sue giornate e degli incontri programmati un motivo perenne di preghiera. Era puntuale la mattina a scendere giù in cappella, alle 5.30. Si metteva nell’ultimo banco e lì, con il suo breviario, iniziava a pregare e a meditare la Parola. Una Parola che costantemente cercava di fare sua. Era amante della liturgia e si preparava ad essa, per aiutare la comunità a vivere bene questi momenti. Era chiaro e semplice nella sua esposizione e premuroso verso i novizi.
Le caratteristiche che mi hanno colpito in lui sono essenzialmente tre:
1. Uomo di preghiera. Si vedeva che il suo termine di confronto durante la giornata era Dio, la sua Parola. Era un uomo cosciente delle sue debolezze, ma anche della presenza di Dio nella sua vita. A volte poteva essere diretto e impulsivo, ma subito dopo era pronto a chiedere scusa e a riprendere con più lena e gioia. P. Eugenio era anche molto sensibile, di una sensibilità che lo portava a soffrire tantissimo.
2. Missionario e confratello identificato. Su alcuni punti riguardanti l’offerta di sé alla missione appariva intransigente con sé e con gli altri. La formazione, che aveva acquisito nel corso degli anni attraverso la sua esperienza missionaria, lo aveva portato a fondare il suo vivere quotidiano su alcuni punti basilari e si faceva guidare da essi. Per lui, erano importanti alcune cose per le quali dava se stesso e lo testimoniava come meglio poteva. L’amore per il Signore, per una vita di preghiera semplice ma efficace, ritmata dall’incontro con le persone semplici che amava incontrare e con le quali colloquiare. A modo suo, P. Eugenio era capace di entrare nel cuore delle persone e parlare loro di Dio, cosa, questa, che non è scontata per nessuno.
3. Il rispetto profondo che aveva per ogni persona. P. Eugenio non si lasciava andare a pettegolezzi o a critiche. Aveva imparato a portare tutto nel cuore. A volte mi confidava che si sentiva inutile ma, allo stesso tempo, ripartiva sempre con una carica nuova per fare e dare una mano alla missione con il suo esempio, la sua testimonianza semplice ma profonda, e soprattutto mettendosi a disposizione per qualsiasi cosa potesse essere di aiuto alla comunità.
Testimonianza di P. Jonas Béka Tita Oléma Mbéko
Sono originario della parrocchia Notre Dame de Fatima dove i Missionari Comboniani lavorano dal 1967. Ho conosciuto P. Eugenio quando facevo il chierichetto nella mia parrocchia. P. Eugenio, oltre ad essere provinciale, faceva anche il lavoro pastorale; infatti, i villaggi attorno a Bangui erano anch’essi a carico dei Comboniani della parrocchia di Fatima. Come chierichetto, lo accompagnavo nelle sue visite pastorali in questi villaggi. A volte si rientrava la sera, ma spesso, a causa della distanza, restavamo fuori per due o tre giorni: era un padre per noi chierichetti e consideravamo un privilegio viaggiare con lui. La cosa che più ci colpiva era la sua pazienza: non aveva fretta di rientrare in parrocchia. Dopo la Messa, rimaneva in cappella per ascoltare le confidenze delle persone sui diversi aspetti della vita della comunità. Mangiava volentieri il cibo che gli veniva offerto dalla gente del posto. Ricordo che una volta, al responsabile della comunità che gli aveva chiesto se mangiava il cibo africano, in particolare il cibo ngbaka, aveva risposto: “Sono un missionario, mangio tutto quello che mangiano gli africani”. Avevamo fame quel giorno e fummo entusiasti della sua risposta. P. Eugenio era molto generoso con tutti, parlava bene il sango, la lingua locale, per cui era facilitato nei rapporti con la gente. È grazie alla testimonianza di questi Comboniani che hanno lavorato in Centrafrica, soprattutto di P. Eugenio, che sono diventato missionario.
Da Mccj Bulletin n. 244 suppl. In Memoriam, aprile 2010, pp. 47-53