In Pace Christi

Tabarelli Paolo

Tabarelli Paolo
Data di nascita : 04/02/1947
Luogo di nascita : Faver/Italia
Voti temporanei : 13/05/1978
Voti perpetui : 16/05/1981
Data ordinazione : 26/05/1981
Data decesso : 31/03/2015
Luogo decesso : Rungu/RDC

P. Paolo Tabarelli era nato a Faver, provincia di Trento, il 4 febbraio 1947. Durante il liceo era stato colpito, assieme ad alcuni amici, dai Missionari Comboniani ma, prima di entrare in noviziato, decise di uscire dall’Istituto e fece il servizio militare come alpino. Alla fine, aveva già cominciato a lavorare come tecnico in un negozio di elettrodomestici, quando decise di rientrare: emise i primi voti nel 1978 e quelli perpetui nel 1981. Ordinato nello stesso anno, fu subito assegnato al Congo (allora Zaire). Le notizie che riportiamo sono state inviate da Fr. Duilio Plazzotta che ha vissuto con lui per diversi anni.

I forgerons sans frontières

Destinato al Congo, trascorse i primi tre mesi nella missione di Rungu per imparare la lingua (il lingala), la cultura e gli usi e costumi della gente delle tribù del nord est. I confratelli si accorsero subito della sua seria preparazione biblico-teologica ma anche delle sue doti tecniche e iniziarono a chiedergli diversi servizi.

La sua prima missione fu quella di Ango, tra gli azande, dove divenne parroco e si distinse da subito per il linguaggio chiaro e tagliente contro le ingiustizie, tanto da dare fastidio alle autorità e da essere controllato dagli agenti della ANR – Agence Nationale Renseignements (il KGB locale) – ed essere, per questo, conosciuto fino a Kisangani.

Riornato a Rungu, P. Paolo prese ad occuparsi del funzionamento della centrale elettrica e della formazione tecnica dei forgerons sans frontières (fabbri-ferrai senza frontiere), il nome con cui definiva scherzosamente i ragazzi presi dalla strada e ai quali aveva dato un rifugio e una formazione pratica, come tecnici nel settore elettrotecnico ed elettronico, che permettesse loro di guadagnarsi la vita con dignità. E nei vari posti in cui è stato, Ango, Dungu, Kinshasa, Kisangani, Isiro, ha lasciato giovani tecnicamente capaci. A Dungu, ad esempio, iniziò un’esperienza di inserzione tra la gente, vivendo e lavorando tra loro, ospite della famiglia di Kino, uno dei suoi migliori allievi.

A Rungu, aveva preso subito a cuore lo stato della centrale elettrica, della turbina Kapplan e della rete di distribuzione della corrente, con particolare attenzione all’ospedale. Fin dall’arrivo in Congo, la turbina aveva avuto dei problemi in seguito al furto di componenti di elettronica e dell’automatismo idraulico e meccanico, con danni da scasso, durante il trasporto da Matadi a Isiro. Dopo un periodo di funzionamento con sistemi manuali poco ortodossi, fu trascurata e poi abbandonata per seri guasti meccanici dovuti alla mancanza di manutenzione. Ci volle il genio di P. Paolo per rimetterla in grado non solo di funzionare ma di essere automatizzata (per la messa in moto e l’arresto, e per emergenza da surriscaldamento). Si prese cura di questo gioiello prezioso e utile, formando i suoi forgerons per la manutenzione e la riparazione dei guasti, distribuendo poi la corrente oltre che all’ospedale, alle scuole, al seminario e alla missione, anche nei quartieri, per permettere alla gente uno sviluppo e un maggior benessere.

Anche qui (pur mantenendo in missione una cameretta e l’atelier) aveva scelto di vivere con i suoi forgerons, tra la gente, acquistando un terreno e costruendo delle capanne per la loro accoglienza. Si prendeva cura soprattutto dei poveri e degli emarginati.

Jonathan, ad esempio, era un bambino proveniente da Niangara, che era stato considerato dai genitori come ndoki (portatore di sfortuna) e quindi scacciato dalla famiglia. P. Paolo lo raccolse dalla strada in condizioni disperate, lo fece curare in ospedale, contando sull’appoggio di Nadia, Lisetta, Maria e di tutte le volontarie del COE (Centro Orientamento Educativo) fino a fargli recuperare salute e voglia di vivere. Poi lo accolse tra i forgerons seguendolo sempre con pazienza, nei suoi comportamenti dovuti ai traumi dell’infanzia. Per lui, come per tanti altri, è stato veramente padre e madre, e così era considerato da loro, che affettuosamente lo chiamavano “vieux”. Naturalmente questi giovani, spesso problematici, non mancavano di creargli problemi e di sottrarre materiale e cose personali per venderli. Non mancava di lamentarsi, di riprenderli e anche di insultarli vivacemente, ma guai se una terza persona – fossimo anche noi confratelli amici, o le ragazze del COE – si permetteva di parlare male dei ragazzi… diventava una belva in loro difesa.

Profeta scomodo
Dobbiamo dire che il suo modo di voler vivere tra la gente e le decisioni che prendeva riguardo al ministero, decisamente fuori degli schemi convenzionali, suscitava non poche perplessità e contrasti con gli altri confratelli e i superiori. Ascoltiamo, però, la testimonianza di Fr. Duilio.

La signora Bernadette mi ha detto: “Ho visto recentemente il film ‘Preferisco il Paradiso’, su San Filippo Neri. In questi giorni ho riflettuto molto su quanto P. Paolo assomigliava a questo santo che si è fatto carico dei ragazzi emarginati, prendendosi cura di loro e difendendoli, e non sempre compreso e aiutato dai suoi superiori e dalle autorità ecclesiastiche. P. Paolo è una lezione di vita per tutte noi mamme”.

E Masudi, uno dei suoi forgerons, ha detto: “P. Paolo è stato un vero padre per me e per tutti i forgerons. Ha saputo darci quello che i nostri padri non ci hanno dato. Ci ha dato un mestiere e dignità, ci ha aiutato nelle difficoltà, e difeso, anche quando non lo meritavamo. Siamo orgogliosi di essere quello che siamo grazie a lui, e che i comboniani non dimentichino che ha lasciato dei ‘figli’. Ci sentiamo comboniani anche noi”.

Era uno dei profeti dei nostri giorni. Come tutti i profeti della Bibbia, ha alzato la voce e denunciato i soprusi e le ingiustizie a danno dei poveri e degli emarginati, e portava in sé il dolore di tutti. Si prendeva cura e difendeva i più deboli, anche se avevano torto. Era chiaro per lui che la Chiesa doveva cambiare, convertirsi, uscire dagli schemi tradizionali delle parrocchie per farsi carico delle ‘brebis galeuses’ (pecore con la rogna) che erano la maggioranza assoluta dei cristiani, che non hanno simpatia per la Chiesa e sono presi da altri interessi, e che sono una sfida spesso ignorata. Cercava sempre di scuotere anche i confratelli dalle loro idee, di mettere dentro le loro teste il tarlo del dubbio sul loro stile di pastorale e di promozione umana.

Il primo incontro con P. Paolo poteva essere traumatico, perché il suo linguaggio colorito e diretto poteva essere preso come un’offesa ma poi, quando si iniziava a conoscerlo, si capiva che il cuore era di tutt’altra pasta. Amava gli africani, anche se non mancava di insultarli (come insultava i suoi confratelli) ma tutti potevano sempre contare su di lui, sul suo servizio. Non risparmiava per sé le sue energie.

Dotato di un’intelligenza vivace, quasi ‘geniale’, aveva un bagaglio biblico-teologico e intellettuale notevole, che amava coltivare soprattutto nelle ore notturne, quando era più libero per concentrarsi nella calma. Conosceva bene l’ebraico e il greco, e ne ebbi una prova, dice Fr. Duilio. P. Enzo Bellucco mi aveva chiesto di fargli una bibbia di legno, aperta, da esporre in chiesa, sul lato opposto del tabernacolo, con pirografato, sulla pagina di sinistra, il brano dell’inizio del vangelo di Giovanni in ebraico e, sulla pagina di destra, lo stesso brano in greco. Ovviamente, mi inviò i due testi da copiare. Completata l’opera, la mostrai a P. Paolo che, dopo aver letto il testo in ebraico, mi disse che mancava la lettera resh, indicandomi una resh nel testo. Controllai il testo che avevo copiato ed era vero, avevo saltato la lettera.

Nelle omelie sapeva dare contenuti profondi in modo chiaro e tagliente. Si prestava volentieri per le celebrazioni eucaristiche in ospedale e per le suore domenicane che lo consideravano il loro cappellano.

Amava dedicarsi all’agricoltura. Nella biblioteca di Rungu, c’erano riviste e testi lasciati in eredità dai padri domenicani, tra cui le raccolte di riviste di agricoltura, dei tempi della colonia belga. P. Paolo era l’unica persona che le leggeva e sapeva trarne profitto. Conosceva i terreni e le carenze di humus dovute alle continue piogge. Amava piantare alberi non solo da frutta. Sapeva come far germogliare una noce di cocco per avere un nuovo albero.

Amava anche gli animali: acquistò un asino, Omar, perché nel villaggio si imparasse ad utilizzarlo per trasportare legna e prodotti dei campi in modo da alleviare le fatiche delle donne. Ma Omar era… un lazzarone e non ha mai amato troppo il lavoro, diventando buon amico di Drago, il cane di P. Paolo, che si presentava in missione solo all’ora dei pasti! Acquistò anche una mucca e un vitello per insegnare ai forgerons le tecniche dell’allevamento.

Con la partenza dei comboniani da Rungu, P. Paolo fu destinato alla comunità di Mungbere, ma volle continuare a prendersi cura della centrale elettrica – e a seguire i forgerons – e dell’ospedale di Rungu, oltre che occuparsi di quello di Mungbere. Così, alternava periodi in comunità a Mungbere e periodi a Rungu.

Nadia, volontaria del COE, dopo la morte di P. Paolo, ha detto: “A Rungu niente sarà come prima. P. Paolo ci manca già e mancherà molto ai suoi forgerons e alla gente che ha sempre aiutato e amato. Ci mancherà come amico sempre presente. Ci mancherà a tavola quando condividevamo il pane e il vissuto di ogni giorno. Ci mancherà anche il suo carattere, che ci era di pungolo e stimolo per essere missionarie sensibili ai poveri e agli emarginati e in continua conversione. Immagino che ci resterà più vicino di quanto pensiamo”.

Gli ultimi giorni
Questa Settimana Santa è iniziata proprio “all’ombra della croce”. La sera della Domenica delle Palme abbiamo ricevuto una telefonata da Nadia del COE che ci comunicava che P. Paolo era stato portato d’urgenza in ospedale e in sala operatoria per ernia strozzata e addome acuto.

Era stato a pranzo da loro, le volontarie Nadia e Maria Antonietta, come amava fare per ricaricarsi e scambiare quattro chiacchere. Dopo il pranzo era rientrato al ‘palais’, la capanna dove viveva vicino ai suoi ragazzi, tra la gente. Verso le quattro e mezzo ha iniziato a sentire dei dolori addominali acuti. L’intervento era andato bene. Verso le ventitré ha avuto un collasso con crollo di pressione. I medici sono subito intervenuti per farlo riprendere. All’alba i dolori erano diminuiti, ma P. Paolo continuava ad essere agitato e aveva qualche difficoltà respiratoria. Poco dopo ha avuto un altro collasso. Nonostante tutti gli sforzi dei medici, si vedeva che P. Paolo se ne stava andando. Rispondeva ancora chiaramente quando veniva chiamato. L’abbé Raphael, il parroco, gli aveva amministrato l’unzione degli infermi. Poi la situazione è crollata e poco dopo mezzogiorno il Signore l’ha chiamato a sé. L’abbé Raphael ha avvertito i cristiani e organizzato subito un momento di preghiera in chiesa prima che il corpo partisse per Isiro. Sarebbe stato bello poter fare la veglia funebre a Rungu, dove P. Paolo era di casa, amato e stimato dalla gente, e dove c’erano molti dei ragazzi che ha sempre aiutato, ma qui il corpo non può essere conservato e va sepolto entro le 24 ore. Intanto in chiesa si erano raccolte molte persone per salutare P. Paolo e molte erano rimaste fuori, piangendo e gridando il loro dolore. Durante la preghiera è giunta da Isiro la macchina, che è stata subito preparata per il ritorno con il corpo di P. Paolo. Terminata la preghiera, verso le sedici la macchina è potuta ripartire, mentre Fr. Duilio Plazzotta la precedeva in moto velocemente, per giungere un po’ prima a Isiro e avvertire la gente dell’arrivo. Alle 20.00 tutti erano a Isiro, dove la gente si era già raccolta in chiesa e stava attendendo l’arrivo della salma.

Isiro: il funerale
Alle 21.00, alla presenza di molti cristiani, suore, religiosi e una quindicina di sacerdoti, è stata celebrata la Messa, seguita dalla veglia funebre, partecipata e animata secondo le tradizioni della nostra gente, fino alla celebrazione del funerale, alle undici della mattina seguente. La Messa funebre è stata celebrata da Mons. Julien Andavo Mbia, vescovo di Isiro, con circa 25 sacerdoti concelebranti, molti cristiani e religiosi. Alla sinistra della bara, diversi banchi erano occupati dai suoi ragazzi, quelli che aveva raccolto dalla strada, seguito e formato come buoni tecnici. Alcuni, come Masudi, Tonton e Kino, avvertiti per telefono, venivano da Durba e Dungu e avevano viaggiato un giorno e una notte con le moto per essere lì, con il cuore spezzato, ad abbracciarlo e salutarlo per l’ultima volta.

All’inizio della Messa, P. Samuel ha tracciato un breve profilo della vita di P. Paolo, dalle origini alla famiglia e al cammino vocazionale. Ha sottolineato la sua attenzione alle persone più povere ed emarginate, la difesa dei loro diritti, il suo spirito di servizio, la sua intelligenza vivace e acuta, la seria formazione biblica e teologica, lo spirito critico e profetico della sua vita, le sue doti tecniche e la capacità di formare bravi tecnici, la sua genialità. Il suo soffrire e gridare contro i soprusi e le ingiustizie verso i poveri e gli emarginati, il suo desiderio di essere tra la gente, inserito nella loro realtà quotidiana. Un profeta che, come i tutti profeti, ha gridato contro gli oppressori ed è stato pungolo per far riflettere e invitare a cambiare sia noi, suoi confratelli, che tutti i cristiani comodamente adagiati sulle loro idee. Il Vescovo, Mons. Julien, nell’omelia ha espresso la sua amicizia e gratitudine per quanto P. Paolo ha fatto per la gente e per i più poveri e per la sua presenza stimolante per la Chiesa di Isiro e per la missione di Rungu in particolare.

Dopo la Messa, tutti noi, con il Vescovo, sacerdoti, religiose e religiosi e una folta folla di amici e fedeli ci siamo incamminati in processione per accompagnare P. Paolo a Mgambe (3 km), dove è stato sepolto nel giardino interno della nostra casa, accanto al novizio Magloire (anche lui morto a Rungu alcuni anni fa), non distante dalla cappellina “memoriale” dei nostri cinquant’anni di presenza in Congo e del martirio dei nostri confratelli durante la ribellione dei Simba nel 1964 (tre dei quali uccisi a Rungu).

La testimonianza di P. Joseph Mumbere Musanga
Vorrei condividere ciò che conservo nel cuore del mio unico incontro con P. Paolo, durante la mia prima visita alla comunità di Mungbere, nel 2014.

Temevo la sua reazione nei miei confronti, in quanto rappresentante del servizio di autorità, per la sua opposizione a tutto ciò che era regola e autorità o comunque limitazione alla libertà della gente. Invece, il colloquio con lui è stato uno dei più belli, intimi e profondi che io abbia mai avuto con un confratello da quando sono provinciale. Anzi, quello che P. Paolo mi ha detto e il modo in cui lo ha detto rimangono unici fino ad oggi.

Prima di tutto, mi ha chiesto di essere paziente con lui e mi ha domandato se sapevo che cos’è un provinciale. Ero un po’ imbarazzato dalla domanda. Allora mi ha spiegato che il provinciale è una ‘pattumiera’, che raccoglie l’immondizia dei confratelli, dove questi ‘buttano’ le loro stupidità e sporcizie. E che era contento di vedere che finalmente era “un congolese a guidare degli italiani. Era da tempo il mio sogno – ha detto – perché noi italiani non conosciamo neanche l’1% dell’anima congolese”. P. Paolo ha sempre avuto un modo di parlare franco, con una libertà che tutti gli invidiavamo. Il nostro colloquio è andato avanti per più di due ore, durante le quali P. Paolo ha parlato della sua vita missionaria e della malattia della nipote.

Si è soffermato a lungo sulla sua esperienza a Rungu, dicendo che si trovava in Congo da molti anni ma che da quando viveva in mezzo alla gente si era reso conto di non conoscere i congolesi e quindi di non poterli giudicare; di sapere che sarebbe stato sempre un estraneo, uno dal quale si va quando si ha bisogno di soldi, ma che aveva scelto di rimanere e di provare a vivere con loro.

Sappiamo che era un grande tecnico e che la centrale elettrica di Rungu continua a girare grazie a lui. Ma non ha parlato di quello che aveva fatto ma solo di quello che era, e della gente con cui viveva. P. Paolo aveva capito che la missione non consiste nel fare, ma nell’essere con, nel vivere con, nel soffrire con, nel gioire con e anche nel morire con.

Ha parlato anche della sua anima insoddisfatta, delle sue peripezie come sacerdote e come missionario, di come avrebbe voluto essere diverso: un congolese fra gli altri. Poi il discorso è andato alla nipote malata di leucemia; voleva passare con lei il suo periodo di vacanze.

Ecco che cosa ci siamo detti: abbiamo parlato solo delle persone, e di lui. Mi ha colpito il fatto che non abbiamo detto niente del lavoro e di ciò che bisognava fare. Abbiamo parlato della vita e delle sue sfide. Prima del nostro colloquio non conoscevo P. Paolo ma subito dopo, ero diventato un suo ammiratore. Aveva fatto la scelta dell’inserzione radicale, della causa comune totale con la gente. Così ha cominciato a leggere in modo diverso la realtà.

Un altro testimone se n’è andato. Dopo P. Gaetano Manzi, ci ha lasciato anche P. Paolo Tabarelli: in comune avevano il fatto di aver abbracciato la vita dei congolesi e di aver dato loro ciò che avevano di più prezioso: la loro vita. E sono morti come muoiono i congolesi, nei nostri ospedali, per un semplice intervento chirurgico che altrove sarebbe un gioco da bambini. In Congo, migliaia di persone muoiono così.

Concludo con una sua riflessione, che ci arriva dalla famiglia e dagli amici del suo paese, dove i confratelli che si trovano in Italia sono andati a celebrare: ‘Sono dell’idea che è meglio affrontare gli squali che rimanere prigionieri ad Alcatraz. Il grande mistero di Dio è la libertà, spetta a ciascuno di noi scoprirla e abbracciarla. Non c’è posto negli alberghi del già fatto e del già detto. Bisogna andare nella stalla; rimanere lì, calpestare la polvere che calpestano, essere amico di quegli occhi incastonati in un volto nero come diamanti: penso che è questo che Dio vuole da me’.

Grazie, P. Paolo, per la tua testimonianza. Molti di noi non ti capivano e spesso questa è la vita dei profeti: li si capisce solo dopo la loro morte. Ti ringrazio personalmente, perché sei stato tu ad aprirmi gli occhi e a farmi comprendere che il servizio dell’autorità è lavare i piedi sporchi dei confratelli.

Le parole di P. Fermo Bernasconi
Sono perfettamente d’accordo con quanto ha detto P. Mumbere. Una volta, dopo ore di dialogo – era ormai notte – gli chiesi perché gridava con me e mi rispose che solo con me poteva far uscire tutta la sofferenza che aveva dentro, la sua e quella che raccoglieva dai giovani in mezzo ai quali viveva. È stato sempre sincero, non faceva finta di niente; spesso le parole o le espressioni che usava potevano mettere a disagio, ma gli servivano per condividere il suo malessere. E anche la sua fede era sincera. Ricordo una lunga condivisione in cui spiegò la differenza fra credere nella sopravvivenza e avere fede nella risurrezione. Aveva, per la Bibbia, un amore grande e serio, grande per il tempo che gli dedicava, serio per come la studiava, sulla base della sua conoscenza dell’ebraico e del greco.

Mi sono sempre sentito accolto da lui e ho potuto constatare la sua disponibilità. Quando gli chiesi di lasciare Isiro per Rungu, mi disse che non era d’accordo sui motivi che gli avevo spiegato ma che era contento di partire nell’obbedienza.

Da Mccj Bulletin n. 266 suppl. In Memoriam, gennaio 2016, pp. 40-49.