Il brano evangelico riporta una parte del discorso di addio in cui Gesù promette ai discepoli lo Spirito Santo come maestro interiore che porta a compimento la sua rivelazione. Egli annunzia, in questa occasione la sua venuta assieme al Padre presso il discepolo fedele: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Il credente, irradiazione della Shekinah di Dio
“Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.
Giovanni 14,23-29
Ci avviciniamo alle feste dell’Ascensione e della Pentecoste. Il Vangelo di questa domenica, come quello della scorsa, ci offre uno stralcio del lungo discorso di addio di Gesù durante l’Ultima Cena. All’annuncio della sua dipartita, l’atmosfera si carica di tristezza. L’avvilimento, lo sconcerto e la paura serpeggiano tra i discepoli. Gesù li rassicura, invitandoli a non temere (cfr. Gv 14,1.27), e promette che la loro tristezza si trasformerà in gioia (Gv 16,20.22).
Il dono della pace e il Paràclito
Gesù cerca di assicurare la coesione del gruppo dei discepoli. Domenica scorsa, il Signore ha consegnato loro – e a noi – il comandamento dell’amore. Oggi offre la pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace.” Notiamo bene: Gesù non augura la pace, ma ce la dona! Quella che era stata la sua pace, ora la consegna a noi. Una pace così forte e profonda da non essere sopraffatta nemmeno dalla persecuzione.
Inoltre, Gesù promette un altro dono: lo Spirito Santo. “Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.”
A più riprese, nel suo discorso, Gesù ribadisce questa promessa dell’invio dello Spirito (Gv 14,16-17; 14,26; 15,26; 16,7-11; 16,13-15), ogni volta aggiungendo nuovi dettagli sulla missione dello Spirito Santo, chiamato a continuare l’opera di Gesù.
È lo Spirito Santo che rende la pace del cristiano solida e duratura, perché egli è il nostro Paràclito – Paràklētos in greco –, cioè l’“Avvocato” che ci sta accanto come difensore e consolatore. Se il gruppetto minuto e smarrito degli apostoli, costituito da persone umili e analfabete, è riuscito a rivoluzionare la storia del mondo, ciò si può spiegare solo con il concorso di una forza divina: lo Spirito Santo!
L’angoscia di un’assenza
Il discorso di congedo di Gesù ruota attorno all'annuncio della sua imminente partenza, che turba profondamente il gruppo. Quattro apostoli gli pongono quattro domande. Il numero quattro è simbolo di totalità e universalità (come i quattro punti cardinali). I quattro – Pietro, Tommaso, Filippo e Giuda – rappresentano ciascuno di noi. Le domande che rivolgono a Gesù sono anche le nostre, quelle che avremmo posto allora e che continuiamo a porre oggi.
Siamo entrati in una fase critica di “cambiamento epocale”, dai contorni ancora oscuri, una sfida inedita: stimolante per alcuni, inquietante per altri. Nella nostra cultura occidentale, molti credenti vivono questa crisi come un “inverno ecclesiale” e una “notte oscura” della fede. L'atmosfera di quella notte nel Cenacolo può rappresentare simbolicamente e illuminare il nostro presente di apparente “eclissi” di Dio.
1. Pietro: generosità e fragilità. La prima domanda è di Pietro. All'annuncio della partenza, Simon Pietro chiede a Gesù: “Signore, dove vai?”. Gesù risponde: “Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi”. Pietro insiste: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!”. Pietro è l'immagine del discepolo deciso e generoso, che ama il suo Signore, ma non fa i conti con la propria fragilità (cfr. Gv 13,36-38).
Quante volte anche noi abbiamo fatto promesse simili, per poi comportarci con codardia nell’ora della verità. Il Signore non si scandalizza della nostra debolezza. Egli sa attendere: “Mi seguirai più tardi!”
2. Tommaso: volontarietà e incertezza. Gesù chiarisce lo scopo del suo “viaggio”: “Vado a prepararvi un posto”. E aggiunge: “E del luogo dove io vado, conoscete la via”.
Interviene Tommaso, il discepolo pratico e concreto, testardo e volenteroso: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”.
Anche noi, tante volte, vorremmo che il Signore fosse più esplicito e chiaro nella nostra vita. Con tante strade allettanti davanti a noi, spesso ci sentiamo disorientati.
Gesù risponde: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,2-6). Il Padre è la meta, e Gesù è il cammino per arrivarci, tramite la sua parola e il suo esempio.
3. Filippo: idealismo e concretezza. Gesù aggiunge ancora: “Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto.”
Immagino che il gruppo sia rimasto piuttosto perplesso davanti a questa affermazione del Maestro, chiedendosi tra loro quando mai avessero visto il Padre. Certo, Gesù aveva parlato continuamente del Padre, arrivando perfino a dire che lui e il Padre erano “una cosa sola” (Gv 10,30). Ma il Padre, a dire il vero, loro non l’avevano mai visto!
Allora interviene Filippo e chiede: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!” (Gv 14,8-10). Filippo, a mio parere, è il tipo di discepolo buono, idealista e semplice. Anche noi, talvolta, vorremmo “vedere” senza mediazioni. E invece Gesù insiste: bisogna passare attraverso la mediazione del Figlio. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”; “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me.”
4. Giuda: pragmatismo e insofferenza. Il quarto discepolo a intervenire è Giuda, non l'Iscariota, forse Giuda Taddeo oppure un parente, cugino di Gesù. Quando Gesù parla di manifestarsi a loro, ai discepoli, egli esclama, un po’ stupito: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?”
Giuda è il tipo di discepolo pragmatico e insofferente riguardo alla piega che gli eventi stanno prendendo. La sua è un’osservazione più che giusta e ragionevole, si direbbe. Loro, i discepoli, lo conoscevano già e avevano creduto in lui. Bisognava, invece, che Gesù si manifestasse con segni e prodigi a quanti ancora non credevano.
La stessa cosa gliel’avevano già detto i suoi parenti: “Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo” (Gv 7,3-5). La stessa, identica cosa gli diremmo molti di noi oggi. Con crescente preoccupazione vediamo assottigliarsi il numero dei credenti, tante volte derisi e ostacolati. I valori evangelici hanno sempre meno presa sulla società. La guerra e l'ingiustizia dilagano... E Dio tace!
Il brano del Vangelo di oggi ci presenta la risposta di Gesù.
La sorpresa di una nuova presenza
Il brano del Vangelo odierno inizia con una rivelazione straordinaria: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.”
Colui che i cieli non potevano contenere; che in passato si era limitato a visitare i suoi amici Abramo, Giacobbe, Mosè...; che si era reso presente nell’Arca dell'Alleanza; che aveva accondisceso a stabilire la sua dimora (Shekinah) nel Tempio; che negli ultimi tempi era diventato “Emanuele”, Dio in mezzo a noi... ora fa un ulteriore passo di avvicinamento all’uomo e stabilisce la sua Shekinah nel cuore del credente!
Si tratta di qualcosa di inaudito, una realtà misteriosa, intima e profonda, che forse non abbiamo ancora interiorizzato. San Paolo l’ha colta molto bene quando afferma che siamo il Tempio di Dio (cfr. 1Cor 3,17 e 6,19; vedi anche 2Cor 6,16; Ef 3,17; Rom 8,11).
Noi, forse, la riteniamo troppo grande per crederci. O, chissà, temiamo di essere tacciati di pietismo, di intimismo o di spiritualismo? Eppure non c’è un “vangelo” più bello e, allo stesso tempo, più rivoluzionario. Il cuore del credente – mosso dall’amore e da una fede operosa – diventa una sorta di rete (web) di rapporti di comunione e di interazione tra l’umanità e Dio.
Non pensiamo, però, che Dio si attenda un’accoglienza da cinque stelle! Gli basta un cuore semplice e aperto: con una mensa, una tovaglia e un fiore fresco; il pane e una brocca d’acqua fresca (meglio ancora, una bottiglia di vino!) sulla tavola; alcune sedie attorno; e la porta socchiusa, ad invitare il viandante.
Ad ognuno di noi la fantasia e la creatività per tradurre tutto questo in gesti concreti e in uno stile di vita. Allora saremo l’irradiazione della Shekinah, della Dimora di Dio, i testimoni della Risurrezione!
P. Manuel João Pereira Correia, mccj
Lo Spirito d’amore: stimolo e garante della missione
Atti 15,1-2.22-29; Sl 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
Riflessioni
Gesù preannuncia agli Apostoli i doni pasquali, frutti della sua passione e risurrezione. In primo luogo, il dono di un amore nuovo (Vangelo): un amore che è una ‘immersione piena’ nella Trinità Santa, che viene ad abitare, a prendere dimora presso chi crede e ama (v. 23); un amore che diviene sorgente di vita nuova. Inoltre il dono della pace: Gesù dona una pace diversa da quella che il mondo offre, una pace più forte di qualunque turbamento e difficoltà (v. 27). E soprattutto il dono del Consolatore, lo Spirito Santo, come maestro e memoria delle cose che Gesù ha insegnato (v. 26). È una promessa che riguarda da vicino il cammino della Chiesa nella storia: Gesù non poté esplicitare tutte le conseguenze e le applicazioni del suo messaggio, perciò garantì la presenza amica di una guida sicura anche davanti ai problemi nuovi, agli avvenimenti imprevisti, agli sviluppi delle scienze umane... Fra le molteplici sfide di oggi ci sono: le nuove povertà, migrazioni, fondamentalismi, biogenetica, globalizzazione, dialogo interreligioso, ecologia... Lo Spirito interviene sempre come luce, forza, perdono, consolazione, perché è novità, dono d'amore. (*)
Le nuove scelte che la comunità dei credenti in Cristo dovrà fare lungo i secoli, con la guida dello Spirito, non potranno essere in contraddizione con il messaggio di Gesù, ma ne saranno uno sviluppo, un approfondimento creativo, un’applicazione rispondente alle esigenze delle persone in tempi e luoghi diversi. Una situazione tempestosa per la Chiesa -una vera questione di vita o di morte!- si presentò quasi subito, intorno all’anno 50, a pochi lustri dall’evento storico di Gesù. Il libro degli Atti (I lettura) racconta le polemiche e le animate discussioni fra due gruppi: da una parte, un gruppo di cristiani provenienti dal giudaismo, i quali volevano imporre ai pagani determinate pratiche dell’antica Legge prima di battezzarli; Paolo e Barnaba, invece, vedevano in tali pratiche il rischio di vanificare la grazia di Cristo ed erano favorevoli all’accoglienza diretta dei pagani nella comunità cristiana, senza imposizioni giudaiche (v. 1-2).
Molto saggiamente, il dibattito fu portato al massimo livello: alla presenza e al discernimento degli Apostoli a Gerusalemme. Tre furono le tendenze emerse nel Concilio di Gerusalemme: la linea aperta di Paolo e Barnaba, l’atteggiamento esitante di Pietro, e la posizione pratica di Giacomo, vescovo di Gerusalemme, che operò una mediazione fra Paolo e i giudaizzanti, con criteri pastorali e qualche concessione transitoria (v. 29), come risulta dal primo documento conciliare della Chiesa (v. 23-29).
La presenza dello Spirito Santo è riconoscibile in tutto questo travagliato cammino: nella ricerca di una comunione più forte, nella discussione aperta in vista di una decisione comunitaria, nell’ascolto dei vari esponenti, nella scelta di testimoni credibili da inviare ad Antiochia. La presenza dello Spirito è efficace soprattutto nella netta affermazione della salvezza offerta a tutti per mezzo di Cristo, facilitando così l’accesso dei pagani al Vangelo, senza imporre loro altri obblighi. Tale decisione è il risultato di una travagliata e felice sinergia: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi...” (v. 28).
“L’itinerario storico della Chiesa ha un suo progresso non sempre lineare, come lo stesso Concilio di Gerusalemme attesta. Importanti sono alcune virtù come la dinamicità che impedisce alla Chiesa di essere nostalgica; la fedeltà che impedisce alla Chiesa di essere sbandata; la pazienza che impedisce alla Chiesa di essere frenetica; la profezia che fa comprendere alla Chiesa i segni dei tempi; la tolleranza e il dialogo che impediscono alla Chiesa la malattia dell’integralismo; la speranza che fa superare alla Chiesa esitazioni e incertezze. Ma su tutto deve dominare la fede nello Spirito, guida ultima e viva della Chiesa” (G. Ravasi). Il metodo conciliare-sinodale è stato collaudato e resta valido per ogni epoca, come cammino di comunione e di missione!
Parola del Papa
(*) “Dove ci sono il Padre e Gesù, c’è anche lo Spirito Santo. È Lui che prepara e apre i cuori perché accolgano questo annuncio, è Lui che mantiene viva questa esperienza di salvezza, è Lui che ti aiuterà a crescere in questa gioia se lo lasci agire. Lo Spirito Santo riempie il cuore di Cristo risorto e da lì si riversa nella tua vita come una sorgente. E quando lo accogli, lo Spirito Santo ti fa entrare sempre più nel cuore di Cristo, affinché tu sia sempre più colmo del suo amore, della sua luce e della sua forza. Invoca ogni giorno lo Spirito Santo perché rinnovi costantemente in te l’esperienza del grande annuncio”.
Papa Francesco
Esortazione apostolica Christus Vivit, 25.3.2019 - n.130-131
P. Romeo Ballan, MCCJ
Tre volti diversi di Chiesa
Quell’equilibrio tra ideali e realtà quotidiana
At 15,1-2.22-29; Salmo 65; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
Siamo ancora nel tempo pasquale, e ancora meditiamo sulle novità che Gesù Cristo morto e risorto ha introdotto nel mondo. Nella prima lettura, dagli Atti degli Apostoli, viene descritta una singolare vicenda dei primi cristiani: il racconto di quello che la tradizione ha considerato il primo della Chiesa, in cui è stato definito lo statuto dei cristiani di origine pagana, con un documento autorevole maturato nella preghiera, nell’ascolto dello Spirito e nel dialogo fraterno. Al suo centro si trova questa solenne dichiarazione: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie”. Sono quattro divieti che anche i cristiani non-ebrei devono osservare: astenersi “dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dall’impudicizia (in greco ‘porneia’)”.
Questi decreti riflettono la preoccupazione di rendere possibile la convivenza tra i diversi gruppi cristiani. Ma, in realtà, questo decreto mira prioritariamente a sconfessare i cristiani di origine ebraica che vorrebbero imporre anche ai pagano-cristiano la circoncisione con le relative osservanze della legge di Mosè.
La seconda lettura, dal libro dell’Apocalisse, ci parla della vita futura dei credenti in Cristo, raffigurata nell’immagine della Gerusalemme celeste, che non ha bisogno della luce del sole, perché Dio la illumina, e sua lampada è l’Agnello immolato, Gesù Cristo. L’immagine dominante in questa descrizione della Chiesa escatologica è quella della luce, dilatata e diffusa dalle pietre preziose con le quali è costruita la città. Il secondo elemento è la stabilità e la sicurezza suggerite dal grande ed alto muro da cinta, nel quale si aprono le dodici porte custodite da dodici angeli. Questo numero è posto in connessione con le dodici tribù dei figli di Israele e con i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Mediante il linguaggio simbolico della luce, il testo riesce ad esprimere la realtà escatologica che in termini teologici astratti viene chiamata piena comunione e contemplazione di Dio
Il brano evangelico riporta una parte del discorso di addio in cui Gesù promette ai discepoli lo Spirito Santo come maestro interiore che porta a compimento la sua rivelazione. Egli annunzia, in questa occasione la sua venuta assieme al Padre presso il discepolo fedele: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Questa “dimora” attuale nel credente dà compimento all’attesa biblica della dimora di Dio in mezzo al suo popolo. La condizione richiesta per questa “Shekinah” (dimora, abitazione di Dio in mezzo ai suoi) è l’osservanza della parola di Gesù attuata nell’amore. Giovanni ama presentare il rapporto nuovo che unisce l’uomo a Dio non più come una faccia a faccia, ma attraverso l’immagine della abitazione reciproca (Gv14, 23; 15, 4-7). Questo segno è diventato realtà in Gesù Cristo. Chi non aderisce a Gesù, come unico e definitivo rivelatore di Dio, non può accogliere le sue parole come autorevoli e vincolanti per la sua vita.
Gesù promette di inviare ai suoi discepoli lo Spirito Santo, presentato come soggetto della rivelazione post pasquale: “Egli Vi insegnerà e ricorderà”. Egli li aiuterà a comprendere ed attualizzare tutto quello che Gesù ha detto. Alla fine Gesù promette ai discepoli la pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”. La specificità di questa pace, donata da Gesù, si salda con il suo invito a superare la paura e l’angoscia della morte: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”. Gesù quindi invita i suoi ad entrare nella prospettiva della sua partenza che è la condizione previa per una sua nuova venuta e presenza.
Don Joseph Ndoum
Grazie all’opera dello Spirito
la parola di Gesù diventa contemporanea
La tecnologia ci offre dispositivi capaci di conservare in spazi microscopici quantità sempre crescenti di informazioni, dati, notizie, fotografie e video. Siamo sempre alla ricerca di un computer o di uno smartphone che abbia una crescente capacità di memoria, in modo che quando necessario sia possibile richiamare il file e così utilizzare quanto in esso contenuto. Anche il Vangelo e l’intera Scrittura possono essere un file conservato nella nostra mente che, quando serve, richiamiamo alla memoria: così il Vangelo diventa un manuale di istruzioni su come comportarci nelle diverse circostanze della vita e un codice di valori da vivere offerto alla nostra libertà.
Gesù nel Vangelo parla invece dello Spirito come di colui che «vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Non, dunque, semplicemente richiamare alla memoria, ma ricordare, cioè secondo l’etimologia latina, “richiamare nel cuore”, in quella che, per la Scrittura, è la sede dei sentimenti dell’uomo, dei suoi pensieri, il luogo dove si prendono le decisioni e si formulano i propositi per la vita. Nel cuore, grazie all’opera dello Spirito, la parola di Gesù torna ad essere viva, diventa contemporanea, una fiamma che arde e con la sua luce guida, consola, corregge, incoraggia, spinge alla missione e alla testimonianza.
Senza l’opera dello Spirito che rende viva la Parola, la vita cristiana rischia di rimanere sterile e le nostre parole non sono più l’eco dell’eterna parola di salvezza che Cristo ha annunciato. La sete di verità e di senso, che abita profondamente il cuore dell’uomo, specie quando egli si trova a dover affrontare i grandi enigmi della vita quali la morte e la sofferenza, è saziata solo se le parole dei discepoli del Risorto, prima di essere pronunciate, sono state immerse nel mistero trinitario, lì dove Dio le ha pronunciate. Come ha scritto il Santo Padre: «Invochiamolo oggi, ben fondati sulla preghiera, senza la quale ogni azione corre il rischio di rimanere vuota e l’annuncio alla fine e privo di anima».
Se la Chiesa esiste per evangelizzare, lo Spirito, che le fa tornare nel cuore la parola del Maestro, custodisce la sua identità e la rende sempre capace di parlare all’uomo di ogni tempo e di ogni cultura, permettendole così di essere cattolica, universale capace di veicolare e far assimilare ad ogni uomo il Vangelo. È, dunque, lo Spirito la sorgente della speranza che abita il cuore dei discepoli, i quali nonostante le difficoltà dell’ora presente nell’annuncio del Vangelo, sono certi che la loro parola e la loro vita, fecondati dal Paraclito, conducono ogni uomo a scoprire la bellezza dell’amore di Dio, riconoscendo nell’incontro con Gesù Cristo, il senso ultimo dell’esistenza umana.
[Nicola Filippi – L’Osservatore Romano]
Per vivere la Parola dobbiamo lasciarci amare da Dio
Ermes Ronchi
Se uno mi ama, osserverà la mia parola. Il primo posto nel Vangelo non spetta alla morale, ma alla fede, che è una storia d’amore con Dio, uno stringersi a Lui come di bambino al petto della madre e non la vuol lasciare, perché è vita. Se uno mi ama, vivrà la mia Parola. E noi abbiamo capito male, come se fosse scritto: osserverà i miei comandamenti. Ma la Parola non si riduce a comandamenti, è molto di più. La Parola «opera in voi che credete» (1 Ts 2,13), crea, genera, accende, spalanca orizzonti, illumina passi, semina di vita i campi della vita.
Noi pensiamo: Se osservo le sue leggi, io amo Dio. E non è così, perché puoi essere un cristiano osservante anche per paura, per ricerca di vantaggi, o per sensi di colpa. Ci hanno insegnato: se ti penti, Dio ti userà misericordia. Invece la misericordia previene il pentimento, il tempo della misericordia è l’anticipo, quello di Dio è amore preveniente.
Cosa vuol dire amare il Signore Gesù? Come si fa? L’amore a Dio è un’emozione, un gesto o molti gesti di carità, molte preghiere e sacrifici? No. Amare comincia con una resa a Dio, con il lasciarsi amare. Dio non si merita, si accoglie.
Proprio come continua il Vangelo oggi: e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Noi siamo il cielo di Dio, abitato da Dio intero, cielo spazioso in cui spazia il Signore della vita. Un campo dove cade pioggia di vita, in cui il sole sveglia i germogli del grano.
Capisco che non posso fare affidamento sui pochi centesimi di amore che soli mi appartengono, non bastano per quasi nulla. Nei momenti difficili, se non ci fossi tu, Padre saldo, Figlio tenero, Spirito vitale, cosa potrei comprare con le mie monetine?
Lo Spirito vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Si tratta di una affermazione che scintilla di profezia. Insegnare e ricordare, sono i due verbi dove soffia lo Spirito: il riportare al cuore le grandi parole di Gesù e l’apprendimento di nuove sillabe divine; ciò che è stato detto “in quei giorni” e ciò che lo Spirito continua a insegnare in questo tempo.
L’umiltà di Gesù: neppure lui ha insegnato tutto, se ne va e avrebbe ancora cose da trasmettere. La libertà di Gesù: non chiude i suoi dentro recinti di parole ma insegna sentieri, spazi di ricerca e di scoperta, dove ha casa lo Spirito. Che bella questa Chiesa e questa umanità profetiche, catturate dal Soffio di Dio! Questo Spirito che convoca tutti, non soltanto i profeti di un tempo, o le gerarchie di oggi, ma tutti noi, toccati al cuore da Cristo e che non finiamo di inseguirne le tracce. E ci fa rinascere come cercatori d’oro, impegnati a inventare luoghi dove si parli con amore dell’Amore.
“Lo Spirito santo, il Consolatore, vi insegnerà ogni cosa”
Enzo Bianchi
In questo tempo pasquale la chiesa continua a offrirci i “discorsi di addio” di Gesù (cf. Gv 13,31-16,33), collocati nell’ultima cena ma da intendersi quali parole di Gesù glorificato, del Signore risorto e vivente che si rivolge alla sua comunità aprendole gli occhi sul suo presente nella storia, una volta avvenuto il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
In quel contesto di ultimo incontro tra Gesù e i suoi, alcuni discepoli gli pongono delle domande: Pietro innanzitutto (cf. Gv 13,36-37), poi Tommaso (cf. Gv 14,5), infine Giuda, non l’Iscariota. Costui gli chiede: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). È una domanda che deve aver causato anche sofferenza nei discepoli: dopo quell’avventura vissuta insieme a Gesù per anni, egli se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo… Una piccola e sparuta comunità ha compreso qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma gli altri non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce dunque la venuta del Figlio dell’uomo sulla terra, la sua vita in attesa del regno di Dio imminente che egli proclamava?
Gesù allora risponde: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ecco perché Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che gli è ostile perché non riesce ad amarlo: per avere la manifestazione di Gesù occorre amarlo! Ogni volta che si leggono queste parole, si è turbati in profondità: Gesù, figlio di Maria e di Giuseppe, uomo come noi, non ci chiede solo di essere suoi discepoli, di osservare il suo insegnamento, ma anche di amarlo, perché amandolo si compie ciò che lui vuole e facendo ciò che lui vuole lo si ama. In ogni caso, qui l’amore viene definito necessario per la relazione con Gesù. Amare è una parola impegnativa, eppure Gesù la utilizza, leggendo la relazione con il discepolo non solo nella fede, nell’obbedienza all’insegnamento, nella sequela, ma anche nell’amore.
Più in profondità, Gesù precisa che chi lo ama, nell’amore per lui resterà fedele alla sua parola – riassunta per il quarto vangelo nel “comandamento nuovo”, “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12) – , sarà amato dal Padre, così che il Padre e il Figlio verranno a mettere dimora presso di lui: inabitazione di Dio in chi ama Gesù! Se manca l’amore, invece, non ci sarà riconoscimento di questa presenza quando Gesù sarà “assente”; dopo la sua vicenda terrena, infatti, una volta salito presso il Padre (cf. Gv 20,17), Gesù sarà assente, e tuttavia, se l’amore resta, egli sarà presente nel suo discepolo. Di fronte a queste parole la nostra comprensione vacilla, ma ci può venire in soccorso l’esperienza vissuta in una relazione di amore, quando l’amato/a è assente eppure noi facciamo una certa esperienza della sua presenza in noi, nell’attesa che ritorni e con la sua presenza faccia a faccia rinnovi la relazione d’amore e la riempia.
Questa è un’esperienza dell’assente che possono conoscere solo gli amanti, e Gesù la promette indicandola però nello spazio della fedeltà alla sua parola, della realizzazione dei suoi comandi. Per questo specifica che la sua parola, quella data ai discepoli e alle folle in tutta la sua vita, non era parola sua, ma parola di Dio, del Padre che lo aveva inviato nel mondo. Questa parola ormai consegnata ai credenti, che rimane per sempre, è capace di far sentire la presenza di Gesù quando la parola stessa sarà letta, meditata, ascoltata e realizzata dal cristiano; sarà un segno, un sacramento efficace, che genera la Presenza del Signore. Gesù non è più tra di noi con la sua presenza fisica, in quanto glorificato, risuscitato dallo Spirito e vivente presso il Padre; ma la sua parola, conservata nella chiesa, lo rende vivente nell’assemblea che lo ascolta, Presenza divina che fa di ogni ascoltatore la dimora di Dio. Quella “Parola (Lógos)” che “si è fatta carne (sárx)” (Gv 1,14) in Gesù di Nazaret si è fatta voce (phoné) e quindi lógos, parola degli umani, e in ogni credente si fa Presenza di Dio (Shekinah), si fa carne (sárx) umana del credente, continuando a dimorare nel mondo (cf. Gv 17,18).
E di tutta questa dinamica di presenza è assolutamente artefice lo Spirito di Dio che è anche lo Spirito di Cristo. È l’altro Inviato dal Padre, è l’altro Maestro inviato dal Padre, è l’altro Consolatore inviato dal Padre.
Gesù sale al Padre e lo Spirito santo, che era suo “compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), da Cristo scende su tutti i credenti come un Paraclito, chiamato accanto quale difensore e consolatore; sarà proprio lui a insegnare ogni cosa, facendo ricordare tutte le parole di Gesù e, nel contempo, rinnovandole nell’oggi della chiesa. C’è una sola differenza tra Gesù e il Consolatore: Gesù parlava di fronte ai discepoli che lo ascoltavano, mentre il Consolatore, che con il Figlio e il Padre viene ad abitare nel credente, parla come un “maestro interiore”, con più forza, potremmo dire… Non siamo orfani, non siamo stati lasciati soli da Gesù, e quel Dio che dovevamo scoprire fuori di noi, davanti a noi, ora dobbiamo scoprirlo in noi come presenza che ha messo in noi la sua tenda, la sua dimora.
Certo, nell’andarsene Gesù vede la sua opera, quella che umanamente ha realizzato in obbedienza al Padre, “incompiuta”, perché i discepoli non capiscono ancora, perché la verità nella sua pienezza non è ancora rivelabile e lui stesso avrebbe ancora molti insegnamenti da dare, molte cose da rivelare… Eppure ecco che Gesù ci insegna l’arte di “lasciare la presa”: se ne va senza ansia per la sua comunità e per il suo destino, ma anzi con la fiducia che c’è lo Spirito, il Consolatore e Difensore,
il quale agirà nella comunità da lui lasciata; insegnerà molte cose necessarie e che egli stesso, Gesù, si era inibito di insegnare perché la comunità non era pronta a recepirle e a comprenderle; e soprattutto darà ai discepoli grande forza e tanti doni che essi non possedevano.
“Lo Spirito santo vi insegnerà ogni cosa e vi farà ricordare tutto ciò che io vi ho detto”: promessa, questa, che vediamo realizzata nella vita della chiesa e nella nostra vita, nelle nostre storie. Oggi il Vangelo lo comprendiamo più di ieri, più di mille anni fa. Per la salvezza degli uomini e delle donne di ieri era sufficiente quella comprensione, ma per noi oggi è necessaria un’altra comprensione, dovuta alla “corsa” del Vangelo nella storia (cf. 2Ts 3,1), perché in essa il Vangelo si dilata e la chiesa lo approfondisce, lo comprende meglio e di più. La fede dei grandi padri della chiesa è ancora la fede della chiesa di oggi, ma molto più approfondita. Il Vangelo letto al concilio di Trento è lo stesso Vangelo letto da noi oggi, ma oggi lo comprendiamo meglio, come affermava papa Giovanni. Siamo nel tempo in cui lo Spirito santo, che è sempre Spirito del Padre, procedendo da lui, ma anche Spirito del Figlio, perché suo “compagno inseparabile”, è presente nelle vie della chiesa e agisce quando essa lo invoca e gli obbedisce.
Così nella chiesa c’è la pace, lo shalom, la vita piena lasciata da Gesù, non la pace mondana, ma una pace sorretta dalla speranza, perché Gesù ha detto ancora: “Me ne vado, ma ritornerò a voi!”. “Se n’è andato il nostro pastore”, abbiamo cantato nel responsorio del sabato santo; ma in questo tempo pasquale che dura fino al giorno del Signore possiamo cantare: “Ecco, ritorna il nostro Pastore”, perché viene a noi ogni giorno in questa discesa del Padre e del Figlio nella forza syn-kata-batica, ac-con-discendente, dello Spirito santo. Viene con la Parola, fedelmente; viene con gli eventi della storia nei quali, al di là delle evidenze, è sempre operante; viene nella nostra carne che fatica e lotta, ma per essere trasfigurata dalla sua gloriosa venuta.
Ma noi amiamo Gesù? Secondo le sue affermazioni ascoltate e interpretate, infatti, se non lo amiamo, non siamo capaci di restare fedeli alla sua parola. Se invece viviamo tale amore e tale obbedienza al Signore, la sua vita diventa la nostra vita.
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