Il gesto di Gesù che caccia i mercanti (Gv 2, 13-22) è teatrale e sorprendente. Avrebbe potuto predicare mettendo in guardia i discepoli, come farà a proposito degli scribi e dei farisei, senza la sferza di cordicelle. È un gesto che è proprio accaduto, lo riportano tutti i quattro vangeli. Solo Giovanni però, lo mette all’inizio della predicazione.

Dedicazione della Basilica Lateranense
9 Novembre
Giovanni 2,13-22

Quando l’imperatore Costantino diede piena libertà ai cristiani (313), questi non si risparmiarono nell’edificare luoghi al Signore e molte furono le chiese costruite in quei tempi. Lo stesso imperatore lo fece, facendo costruire sul monte Celio a Roma, sul luogo dell’antico Palazzo Laterano, una magnifica basilica che Papa Silvestro I dedicò al SS. Salvatore (318 o 324). In essa fu edificata una cappella dedicata a S. Giovanni Battista che serviva da battistero: nel IX secolo papa Sergio III aggiunse la dedica al Battista. Infine papa Lucio II, nel XII secolo, la dedico anche a San Giovanni Evangelista. Di qui la denominazione di Basilica Papale del Santissimo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista in Laterano. La Basilica è considerata dai cristiani come la principale, la madre di tutte le chiese del mondo.

Più volte distrutta durante il corso dei secoli, fu sempre ricostruita, e l’ultima sua riedificazione avvenne sotto il pontificato di Benedetto XIII, che la riconsacrò l’anno 1724. Fu in quest’occasione che venne stabilita ed estesa a tutta la cristianità la festa che oggi celebriamo.

Luogo d’incontro

Le letture bibliche scelte per questo giorno sviluppano il tema del “tempio”. Nell’Antico Testamento (prima lettura, Ez 47), il profeta Ezechiele, dall’esilio in Babilonia (siamo circa nel 592 a.C), cerca di aiutare il popolo a uscire dallo scoraggiamento, dal non avere più una terra e un luogo dove pregare. S’innalza così il suo messaggio – la prima lettura – nel quale il profeta annuncia il giorno in cui il popolo adorerà il suo Dio nel nuovo tempio. Un luogo dove l’uomo innalza la sua preghiera a Dio e dove Dio si avvicina all’uomo ascoltando la sua preghiera e soccorrendolo lì dove chiede: luogo d’incontro. In questo modo il tempio assume il ruolo di Casa di Dio e Casa del popolo di Dio. Da questo tempio, continua il profeta, lui vede sgorgare acqua: “Vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua”. Un’acqua che è dono e che porterà vita, benedizione. Un luogo dove si pratica la giustizia, la sola capace di risanare il popolo.

Fuori da qui

Ogni ebreo maschio era obbligato a salire a Gerusalemme per offrire l’agnello in occasione della Pasqua, e tre settimane prima iniziava la “vendita” degli animali idonei all’offerta (le colombe erano il sacrificio dei poveri (Lv 5,7). I cambiavalute avevano il compito di ricevere le “monete romane” che dovevano essere cambiate con monete coniate a Tiro: non si trattava tanto di una questione di ortodossia religiosa, anche se così era fatta passare. In fondo anche le monete di Tiro riportavano iscritta un’immagine pagana, ma contenevano più argento, quindi valevano di più.A sovraintendere a questo “commercio” c’erano i sacerdoti del tempio, che in questo cambio avevano sempre un profitto. Questo è il contesto che Gesù trova nel Tempio, di preciso nello Hieron, ossia nel cortile esterno del Tempio, il Cortile dei Gentili. Il Tempio propriamente detto è il Naos, il santuario, che sarà citato al v. 19-21. “Fatta una frusta di cordicelle…scacciò fuori dal tempio”: con il flagello Gesù fustiga questo “commercio” presente nel Tempio (lo Hieron). Rovescia i banchi dei venditori e scaccia fuori tutti (cfr Es 32, vitello d’oro).

“Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”: Parole e azioni che rimandano al profeta Zaccaria, il quale annunciava quello che succederà quando il Signore verrà nella città di Gerusalemme: “In quel giorno non vi sarà neppure un cananeo (=mercante) nella casa del Signore” (Zc 14,21).

“Quale segno ci mostri per fare queste cose?” … Distruggete questo tempio e in tre giorni io  lo farò risorgere”. I sacerdoti del tempio chiedono con quale “autorità” Gesù fa questo, e Lui risponde invitandoli a distruggere il tempio (naos) che lui lo farà risorgere. La risposta di Gesù non si riferisce tanto al tempio, ossia a tutto l’edificio, quanto al “santuario” vero e proprio, lì dove c’era la presenza di Dio.“Egli parlava del tempio del suo corpo”. Con la Pasqua di Gesù – con il suo corpo distrutto e risorto – inizia il nuovo culto, il culto dell’amore, nel nuovo tempio (naos), e il nuovo tempio è Lui stesso. Sarà la resurrezione l’evento chiave che renderà i discepoli finalmente capaci di comprendere, e sarà lo Spirito Santo (Gv14,26) a far loro ricordare le cose in modo nuovo.

Gesù, nuovo tempio

L’odierna festa della Dedicazione della Basilica del Laterano ci permette di far memoria del cammino del popolo e della costante e fedele premura di Dio. Nello stesso tempo, ci viene ricordato che oggi ciascuno di noi, in Gesù risorto, è “casa di Dio”, perché lo Spirito stesso abita in me, in ciascuno di noi (1Cor 3,16). Solo a essere consapevoli di questo, da una parte ci porta a magnificare il Signore, ma dall’altra ci porta a dire, a volte con dismisura, “Signore, io non sono degno che tu entri nella mia casa…” (Mt 8,8), dimenticando che Lui è già in noi, e che ci accoglie e ci ama non per come vorremmo essere, ma per come siamo, qui, ora.  Sono le distrazioni presenti in noi che rendono sfuocato il volto del Signore! Quando impareremo a tenere fisso lo sguardo in Gesù, Autore e perfezionatore della nostra fede, della nostra amicizia con Lui (cfr Eb 12,1-4), allora il nostro volto brillerà della luce che sgorga dal cuore “unificato”. L’equilibrio richiesto non è cosa di un momento, ma è cammino di una vita, di questo continuo rientrare in noi stessi puntando dritti alla “stanza del Re” (cfr Il Castello Interiore, santa Teresa d’Avila).
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Cristiani, Tempio del Signore
Paul Devreux

Quest’anno abbiamo la fortuna che, oltre la commemorazione dei cari defunti, si celebra di domenica anche la festa della dedicazione della basilica Lateranense, madre di tutte le chiese. E’ la cattedrale di Roma e del suo vescovo il quale, per questo motivo, è anche Papa, e non viceversa.

E’ la madre di tutte le chiese per cui possiamo dire che è la festa della Chiesa in generale. Come chiese intendiamo non gli edifici dove ci raduniamo ma le comunità che in esse si radunano; la chiesa è fatta di persone, non di stanzoni. Gli edifici sono utili per radunare la comunità; inoltre sono immagine di ciò che la comunità e i singoli cristiani sono: Tempio del Signore.

Le mura sono il corpo, il tabernacolo e l’altare sono segno della presenza del Signore, la parola sull’ambone è come lo Spirito Santo che ci parla e ci ricorda tutto quello che Gesù ha insegnato. Questo è vero per la comunità che si raduna come per il singolo battezzato.

Il fatto che proprio in questa ricorrenza la Chiesa ci proponga il Vangelo che narra la cacciata dei mercanti dal tempio di Gesù che dichiara: distruggete questo tempio ed io lo riedificherò in tre giorni, ci fa capire che d’ora in poi il Tempio è Lui, presenza di Dio in mezzo a noi, e che dobbiamo cercarlo dentro di noi che siamo anche tempio dello Spirito Santo. Ecco perché ognuno di noi è più importante di qualsiasi edificio, e questo lo percepiamo, vero; infatti, nessuno di noi sacrificherebbe la vita per un edificio, mentre per una persona cara o una comunità forse sì.

Terminerei dicendo che è bello il fatto che Gesù si arrabbia e caccia i mercanti dal tempio. E’ un sentimento che riscontro in molti nostri contemporanei e soprattutto in chi non frequenta la chiesa, ogni volta che vedo che si scandalizzano davanti al commercio che c’è intorno ai grandi santuari. Segno che l’uomo, anche se si definisce scettico, intuisce che l’amore di Dio è gratuito e che tutto ciò che vuole parlare di Lui per essere ascoltato deve anzitutto essere gratuito. Questo è bello perché è un segno della presenza dello Spirito Santo anche in loro.
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Dedicàti
Clarisse Sant’Agata

La liturgia di questa domenica celebra la dedicazione della basilica di S. Giovanni in Laterano. Questa festa, normalmente ignorata dalla maggior parte dei cristiani, prevale sulla liturgia della Parola della domenica e ci invita ad soffermarci sul mistero della Chiesa che siamo tutti noi, radunati nel nome di Dio, abitati dallo Spirito, dedicati a Colui che ha stretto con il suo popolo un’alleanza eterna.

Questa festa ha un’origine molto antica. Quando l’imperatore romano Costantino si convertì alla religione cristiana, verso il 312, donò al papa il palazzo del Laterano al quale aggiunse, qualche anno più tardi, una Chiesa (la Chiesa del Laterano), la prima, per data e per dignità, di tutte le chiese d’Occidente. Consacrata il 9 novembre 324 con il nome di basilica del Santissimo Salvatore, fu la prima chiesa in assoluto ad essere pubblicamente consacrata. Questa chiesa è tanto più importante se si considera che i primi secoli della storia cristiana furono di persecuzione e di clandestinità. I cristiani non potevano riunirsi per celebrare il Signore Gesù. Le catacombe erano l’unico luogo dove potersi radunare per confessare la propria fede nel Cristo, e questo spesso a scapito della vita. Quindi per tutti i cristiani reduci dalle catacombe, la basilica del Laterano fu il luogo dove finalmente poter adorare e celebrare apertamente Cristo Salvatore. Quell’edificio di pietre, costruito per onorare il Salvatore del mondo, era il simbolo della “vittoria”, fino ad allora nascosta, della testimonianza dei martiri; era il simbolo della vittoria dell’amore sulla morte che ha inaugurato la Pasqua di Gesù e si compie in ogni discepolo che lo segue sulla via della Croce. Quella basilica era inoltre il segno tangibile del tempio spirituale che è il cuore del cristiano, dimora santa dedicata alla lode del Crocifisso Risorto, il Vivente.

Le Chiese di tutto il mondo, unendosi oggi alla Chiesa di Roma, la riconoscono come “madre” di tutte le chiese nella carità. In realtà ogni chiesa ha la medesima funzione, cioè quella di essere luogo dedicato a Dio dove si celebra il mistero della salvezza: il Verbo, facendosi carne, ha piantato la sua tenda fra noi (cfr. Gv 1,14) e prolunga la sua presenza attraverso la chiesa vivente che è il suo corpo. Le chiese in muratura sono solo un segno di questa presenza di Cristo: è Lui che lì parla, dona se stesso come cibo, guida la comunità raccolta in preghiera, rimane con noi per sempre. Questa festa perciò ci invita a riconoscere nuovamente che la nostra vita è fondata in Cristo, pietra di scandalo sulla quale si edifica l’edificio della Chiesa, ed è dedicata interamente al servizio di Dio e dei fratelli. Infatti più che celebrare un edificio di pietra (come può essere la Basilica del Laterano), ci ricorda che noi stessi siamo Chiesa, memoriale vivente della forza dell’amore di Dio per il mondo.

La liturgia della parola di oggi ci presenta un cambiamento di prospettiva: il tempio che Salomone ha costruito e offerto al popolo come luogo per incontrare il Signore (1 lettura), è sostituito dal nuovo tempio dove è possibile adorare Dio in spirito e verità (Vangelo). Questo nuovo tempio è il corpo di Cristo, crocifisso e risorto. E’ Lui il nuovo tempio dove incontrare e adorare il Padre. Sulla croce è liberato lo Spirito che, accolto nel cuore dei credenti, li rende Chiesa, comunità di fratelli animati dall’amore consegnato del Figlio, dedicati per sempre a questo amore che ha invaso la loro vita. Il Padre cerca tali adoratori (Vangelo), cioè uomini e donne che si lasciano abitare dallo Spirito e restituendo la loro vita vissuta nell’amore, gli rendono testimonianza.

Questa festa quindi ci rinnova come tempio vivente di Dio, spazio di cui ha preso possesso il suo Spirito, dedicato a Lui, dedito ad una vita nell’amore, ad immagine del Figlio.
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Chiesa e chiese
Paolo Curtaz

Curiosa, la festa di oggi: in tutto il mondo i cristiani romani celebrano la dedicazione della Cattedrale di Roma, come se fosse la propria Chiesa e la domenica assume un contorno di riflessione particolare.

La ragione di questa festa è semplice: la liturgia ci richiama al ruolo centrale della Chiesa di Roma nella nostra esperienza e al ruolo del luogo di culto per i cristiani. Per alcune chiese italiane la prossima settimana sarà, tra l’altro, l’occasione di riflettere sul proprio essere chiesa locale.

Cos’è “chiesa”?

Ci viene spontaneo pensare ad un luogo, vero? D’altronde la storia dell’arte ci consegna scenari straordinari, gare di bellezza, Cattedrali che sfidano il tempo per dare lode al Signore.

Nel cristianesimo come in ogni cultura e civiltà, l’arte esprime il proprio meglio quando cerca di raggiungere Dio, quando cerca di esprimere il concetto assoluto di bellezza. Ma, amici, la chiesa ha senso solo se contiene una Chiesa, cioè una comunità. La visione cristiana del tempio è piuttosto dissacrante: non esistono luoghi che contengono Dio, ma luoghi che contengono comunità che lodano Dio.

Perciò le nostre chiese sono un riferimento continuo alla Chiesa fatta da persone vive. Anzi: il rischio di ridurre a museo i nostri luoghi di culto è reale e questo ci deve spronare a costruire comunità. Cos’è la Chiesa? E’ il sogno di Dio, fratelli e sorelle radunati dalla sua Parola che, mettendo al servizio del Regno i propri doni, costruiscono il luogo che rende presente l’amore di Dio. Detta così è poetica e bella, concretamente, poi, ci scontriamo con la nostra fragile esperienza di comunità… Comunità stanche gestite semi-dispoticamente da sacerdoti troppo legati al proprio ruolo, comunità-alloggio che vengono vissute come un’istituzione distributrice di servizi, comunità-fantasma nella nostre grandi città in cui chi partecipa chiede solo di essere lasciato in pace ad assolvere le proprie devozioni.

No, amici, realizziamo il sogno di Dio, diventiamo – finalmente – Chiesa: radunati intorno alla Parola, vivendo il proprio ministero e la propria vocazione, lasciando da parte guru e santoni, consapevoli di essere stati scelti, facciamo diventare i nostri templi dei luoghi di incontro e di accoglienza, luoghi di stile e di vangelo, luoghi che custodiscono il pane del cammino e la parola. Conserviamo le nostre chiese, valorizziamole, ma soprattutto il restauro del fuori sia sempre secondo o contemporaneo al restauro dentro la comunità.

Celebrare la Cattedrale di Roma significa prendere a cuore il destino di quel pezzo di Chiesa che abita il mio quartiere, la mia città, significa rendere presente nella realtà povera che è la Parrocchia un pezzo di Regno.

Ma la dedicazione della Basilica Lateranense ci spinge ad una seconda riflessione sulla cattolicità romana, cioè sulla chiesa universale (senza confini, questo significa “cattolica”!) in comunione con la chiesa madre di Roma. La Cattedrale, luogo in cui si custodisce la cattedra, il luogo da cui il Vescovo annuncia la parola, è segno di unità per tutte le parrocchie di una Chiesa locale.

Nell’esperienza della Chiesa cattolica Roma, sede dell’apostolo Pietro e luogo di martirio suo e di Paolo, riveste una centralità spirituale e una vocazione particolare, la vocazione alla custodia del deposito della fede. Di cosa si tratta? Un compito difficile affidato a Pietro e alla sua comunità: custodire la fede. In parole semplici: amico che ascolti, chi ti garantisce che la mia interpretazione della Parola sia quella vissuta da duemila anni di cristianesimo? Che io non sia uno dei tanti mullah con una mia carismatica e personale interpretazione del Vangelo?

Chi garantisce a me di essere nel solco scavato dall’esperienza delle comunità illuminate dallo Spirito dono del Risorto? Semplice: la comunione con Pietro e la sua Chiesa, il guardare a quella cattedra, a quell’insegnamento che diventa tutela e custode della Parola, non la Parola influenzata dalle correnti di pensiero, interpretata a proprio comodo dall’ultima moda di turno, no: la Parola vera quella pronunciata da Gesù e riecheggiata dai testimoni. Oggi è la festa della cattolicità della Chiesa e della sua unità, della bellezza della diversità e della ricchezza dell’unione intorno al carisma di Pietro, rude pescatore chiamato ad essere roccia irremovibile nella custodia delle parole del Maestro.
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Frequentare la Chiesa non è una pratica esteriore
Raniero Cantalamessa

Quest’anno, al posto della XXXII Domenica del Tempo ordinario, si celebra la festa della dedicazione della chiesa-madre di Roma, la basilica Lateranense, dedicata inizialmente al Salvatore e in seguito a san Giovanni Battista. Che cosa rappresenta per la liturgia e per la spiritualità cristiana la dedicazione di una chiesa e l’esistenza stessa della chiesa, intesa come luogo di culto? Dobbiamo partire da queste parole del Vangelo: “È venuto il momento, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori”.

Gesù insegna che il tempio di Dio è, primariamente, il cuore dell’uomo che ha accolto la sua parola. Parlando di sé e del Padre dice: “Noi verremo in lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23) e Paolo scrive ai cristiani: “Non sapete che voi siete il tempio di Dio?” (1 Cor 3, 16). Tempio nuovo di Dio è, dunque, il credente. Ma luogo della presenza di Dio e di Cristo è anche là, “dove due o più sono riuniti nel suo nome” (Mt 18, 20). Il concilio Vaticano II arriva a chiamare la famiglia cristiana una “chiesa domestica” (LG, 11), cioè un piccolo tempio di Dio, proprio perché, grazie al sacramento del matrimonio, essa è, per eccellenza, il luogo in cui “due o più” sono riuniti nel suo nome.

A che titolo, allora, noi cristiani diamo tanta importanza alla chiesa, se ognuno di noi può adorare il Padre in spirito e verità nel proprio cuore, o nella sua casa? Perché questo obbligo di recarci in chiesa ogni domenica? La risposta è che Gesù Cristo non ci salva separatamente gli uni dagli altri; egli è venuto a formarsi un popolo, una comunità di persone, in comunione con lui e tra di loro.

Quello che è la casa, una abitazione propria, per una famiglia, è la chiesa per la famiglia di Dio. Non c’è famiglia, senza una casa. Uno dei film del neorealismo italiano che ancora ricordo è “Il tetto” scritto da Cesare Zavattini e diretto da Vittorio De Sica. Due giovani, poveri e innamorati, si sposano, ma non hanno una casa propria. Alla periferia della Roma del dopoguerra escogitano un sistema per farsene una, lottando contro il tempo e contro la legge (se la costruzione non è arrivata al tetto prima di sera verrà demolita). Quando alla fine completato il tetto, sono sicuri di avere una casa e una intimità propria, si abbracciano felici; sono una famiglia.

Ho visto questa storia ripetersi in tanti quartieri di città, paesi e villaggi che non avevano una chiesa propria e hanno dovuto costruirsene una loro. La solidarietà, l’entusiasmo, la gioia di lavorare insieme con il prete per dare alla comunità un luogo di culto e di incontro sono storie ognuna delle quali meriterebbe un film come quello di De Sica…

Dobbiamo però evocare anche un fenomeno doloroso: l’abbandono in massa della frequenza alla chiesa e quindi della Messa domenicale. Le statistiche sulla pratica religiosa sono da pianto. Non è detto che chi non va in chiesa abbia sempre perso la fede; no, solo che si sostituisce alla religione istituita da Cristo la cosiddetta religione del “fai da te”, in America dicono del “pick and choose”, prendi e scegli. Come si fa al supermercato. Fuori metafora, ognuno si fa una sua idea di Dio, della preghiera e si sente tranquillo con essa.

Si dimentica, in questo modo, che Dio si è rivelato in Cristo, che Cristo ha predicato un vangelo, ha fondato una ekklesia, cioè una assemblea di chiamati, ha istituito dei sacramenti, come segni e tramiti della sua presenza e della salvezza. Ignorare tutto questo per coltivare una propria immagine di Dio espone al soggettivismo più totale. Non ci si confronta più con nessun altro se non con se stessi. In questo caso, sì, che si verifica quello che diceva il filosofo Feuerbach: Dio si riduce alla proiezione dei propri bisogni e desideri; non è più Dio che crea l’uomo a sua immagine, ma l’uomo che si crea un Dio a sua immagine. Ma è un Dio che non salva!

Certo una religiosità fatta solo di pratiche esteriori non serve a nulla; Gesù combatte contro di essa lungo tutto il vangelo. Però non c’è contrasto tra la religione dei segni e dei sacramenti e quella intima, personale; tra il rito e lo spirito. I grandi geni religiosi (pensiamo ad Agostino, Pascal, Kierkegaard, il nostro Manzoni) erano uomini di una interiorità profonda e personalissima e nello stesso tempo erano inseriti in una comunità, frequentavano la loro chiesa, erano “praticanti”.

Nelle Confessioni (VIII,2) S. Agostino narra come avvenne la conversione dal paganesimo del grande retore e filosofo romano Vittorino. Convinto ormai della verità del cristianesimo, diceva al sacerdote Simpliciano: “Sappi che io ormai sono cristiano”. Simpliciano gli rispondeva: “Non ci credo finché non ti vedo nella chiesa di Cristo”. Lui di rimando: “Sono dunque le pareti che ci fanno cristiani?” La cosa andò avanti per un po’ tra queste schermaglie. Ma un giorno Vittorino lesse nel vangelo la parola di Cristo: “Chi si vergognerà di me in questa generazione anch’io mi vergognerò di lui davanti al Padre mio”. Capì che era il rispetto umano, la paura di cosa avrebbero detto i suoi dotti colleghi, a trattenerlo dall’andare in chiesa: si recò da Simpliciano e gli disse: “Andiamo in chiesa, voglio farmi cristiano”. Credo che questa storia ha qualcosa da dire anche oggi a più d’una persona di cultura.

Dio non si compra
Antonio Savone

Una liturgia – quella della Dedicazione – che da una parte riconosce e celebra la presenza di Dio in uno spazio circoscritto e dall’altra allarga prospettive irreversibili. Racconta un sogno questa liturgia: non imprigionare Dio. Dio è qui ma anche altrove. Dio è più grande di queste pareti e più grande dello spazio che una istituzione ecclesiastica gli conferisce. Dio è oltre le nostre parole, oltre le nostre definizioni come è oltre i nostri spazi: questi, semmai, sono solo sacramento di lui, segno di lui. E noi, di domenica in domenica veniamo qui proprio a farci discepoli di un Dio che riconosciamo e incontriamo presente in quest’assemblea e nondimeno abita anche i nostri spazi. Veniamo qui per non perdere questa memoria. In guardia, dunque, dalla tentazione di circoscrivere, di restringere, ridurre.

I giudei di cui ci parla il Vangelo intuiscono che il gesto di Gesù non è soltanto un’operazione di pulizia, ma porta molto più lontano, va letto più in profondità. I discepoli stessi lo comprenderanno solo quando Gesù fu risuscitato dai morti. Cosa c’è dietro questo gesto di Gesù?

Dire: via gli animali dal tempio – e perciò i correlativi cambiavalute – significava dichiarare concluso quel rapporto religioso improntato ad una logica di prestazione: a tanto, tanto. Hai fatto questi gesti, hai detto queste parole, hai dato questa offerta, hai adempiuto il precetto, poco importa se tutto ciò era senz’anima, hai assolto il tuo debito con Dio, hai comprato Dio; ma, ahimè, hai ridotto la fede a mercato. E la casa del Padre, segno per eccellenza della gratuità di Dio, dove tu non sei accolto per le tue capacità, i tuoi meriti, le tue benemerenze, ma perché sei amato, ridotta ad uno scambio di cose. Quel culto antico non aveva più niente da offrire. E tuttavia lo si portava avanti, scrupolosamente.

Ma ecco la collera di Gesù che facciamo fatica a comprendere. Collera che è tutta da apprendere. Ci è più facile misurarci con il Gesù che dice di essere mite e umile di cuore. Molto meno con il Gesù “ribelle”, con il Gesù che non si rassegna ad uno status quo che ha pervertito il rapporto tra Dio e l’uomo. Quando c’è di mezzo Dio e quando c’è di mezzo il rapporto dell’uomo con lui per Gesù è necessario ribellarsi. Anche con forza. L’indignazione: quel sentire e quella pratica che noi non riusciamo più ad esercitare finendo per ingoiare tutto e tutti, impunemente. Se, infatti, non si adirasse egli si renderebbe complice di quello scandaloso commercio di denaro e bestiame che si compiva nel tempio durante la Pasqua.

Dio non si compra. Al linguaggio di Dio non appartengono parole come vendere e comprare, ma una parola ben diversa: donare. E per ribadirlo non ricusa di buttare all’aria tutto il mercato. Violenza usata mai contro qualcuno ma contro monete, banchi. E animali cacciati via. Più che gesto quello di Gesù è un grido, grido pieno di dignità, il grido che dice la volontà di non sottomettersi alla meschinità e all’arroganza della classe sacerdotale che pretendeva di gestire il rapporto con Dio senza conoscere più nulla di ciò che a quel Dio stava veramente a cuore. Quando si finisce per gestire, “amministrare” le cose di Dio ma con quel Dio non si ha nessuna frequentazione!

Gesù grida per rivendicare ciò che era un diritto e che, invece, veniva gestito, venduto, negoziato e con arroganza posseduto. È il grido di un povero che irrompe nel silenzio che vorrebbe mantenere l’ordine precostituito del tempio ufficiale. È il grido che irrompe in un ordine apparente del gioco inventato dai sacerdoti tra sacro e profano: quello che era un evento di liberazione – la Pasqua – era diventato motivo di dissanguamento del popolo in nome di Dio: non trasformate… Gesù dà voce, così, al grido di tutti coloro che salivano al tempio per trovare grazia, per fare esperienza di misericordia. Il grido di Gesù attesta la nostalgia di altro, l’alternativa al tempio: parla di casa (la mia casa), luogo per eccellenza di relazioni libere, franche, nel segno della fiducia e della gratuità, luogo del linguaggio confidenziale (casa di preghiera) e parla di corpo, cioè di vita, non di strutture. Un corpo da ricostruire al più presto: in tre giorni. Al tempio sostituisce l’uomo. Ecco la novità, ecco qual è il luogo di Dio. Non c’è uno spazio sacro accanto a quello profano.

Non è questione, allora, di dare semplicemente una ripulita, un’aggiustatina al vecchio culto facendolo diventare meno mercantile. Non è questione neppure di un abbellimento dei riti. No. D’ora in poi chi vorrà cercare un luogo dove trovare Dio non dovrà distogliere lo sguardo dall’uomo Gesù, dovrà guardare alla vita di Gesù: essa è, d’ora in poi, la manifestazione visibile dell’invisibile Dio.

Se il dio della religione necessita di un tempio e di un culto, il Padre, invece, ha bisogno di figli che gli assomiglino. L’assomiglianza al suo amore è l’unico culto che il Padre richiede.

Il culto, dunque, anche questa liturgia, non è un assoluto. Questa liturgia è subordinata alla nostra fede e alla nostra vita. La prima liturgia per ciascuno di noi è la nostra capacità di dedizione, la nostra capacità non di offrire qualcosa ma di offrire noi stessi. “Non hai voluto né sacrificio né olocausto” – dirà il salmo 39 – “un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto: Ecco io vengo”. Tutta l’esistenza – un corpo, cioè qualcosa di tangibile, concreto – reinterpretata come un vivere nell’amore.
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Nella Chiesa fuori i mercanti e dentro i poveri
Ermes Ronchi

In tutto il mondo i cattolici celebrano oggi la dedicazione della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, come se fosse la loro chiesa, radice di comunione da un angolo all’altro della terra. Non celebriamo quindi un tempio di pietre, ma la casa grande di un Dio che per sua dimora ha scelto il libero vento di sempre, e si è fatto dell’uomo la sua casa, e della terra intera la sua chiesa.

Nel Vangelo, Gesù con una frusta in mano. Il Gesù che non ti aspetti, il coraggioso il cui parlare è si si, no no. Il maestro appassionato che usa gesti e parole con combattiva tenerezza (Eg 85). Gesù mai passivo, mai disamorato, non si rassegna alle cose come stanno: lui vuole cambiare la fede, e con la fede cambiare il mondo. E lo fa con gesti profetici, non con un generico buonismo.

Probabilmente già un’ora dopo i mercanti, recuperate colombe e monete, avevano rioccupato le loro posizioni. Tutto come prima, allora? No, il gesto di Gesù è arrivato fino a noi, profezia che scuote i custodi dei templi, e anche me, dal rischio di fare mercato della fede.

Gesù caccia i mercanti, perché la fede è stata monetizzata, Dio è diventato oggetto di compravendita. I furbi lo usano per guadagnarci, i pii e i devoti per ingraziarselo: io ti do orazioni, tu in cambio mi dai grazie; io ti do sacrifici, tu mi dai salvezza.

Caccia gli animali delle offerte anticipando il capovolgimento di fondo che porterà con la croce: Dio non chiede più sacrifici a noi, ma sacrifica se stesso per noi. Non pretende nulla, dona tutto. Fuori i mercanti, allora. La Chiesa diventerà bella e santa non se accresce il patrimonio e i mezzi economici, ma se compie le due azioni di Gesù nel cortile del tempio: fuori i mercanti, dentro i poveri. Se si farà «Chiesa con il grembiule» (Tonino Bello).

Egli parlava del tempio del suo corpo. Il tempio del corpo…, tempio di Dio siamo noi, è la carne dell’uomo. Tutto il resto è decorativo. Tempio santo di Dio è il povero, davanti al quale «dovremmo toglierci i calzari» come Mosè davanti al roveto ardente «perché è terra santa», dimora di Dio. Dei nostri templi magnifici non resterà pietra su pietra, ma noi resteremo, casa di Dio per sempre. C’è grazia, presenza di Dio in ogni essere. Passiamo allora dalla grazia dei muri alla grazia dei volti, alla santità dei volti.

Se noi potessimo imparare a camminare nella vita, nelle strade delle nostre città, dentro le nostre case e, delicatamente, nella vita degli altri, con venerazione per la vita dimora di Dio, togliendoci i calzari come Mosè al roveto, allora ci accorgeremmo che stiamo camminando dentro un’unica, immensa cattedrale. Che tutto il mondo è cielo, cielo di un solo Dio.
Avvenire

La sfida di presiedere alla carità
Romeo Ballan, mccj

Oggi è la festa della Chiesa che vive nell’amore: la Chiesa che si alimenta e cresce nella carità, che diffonde l’amore nel mondo. Il punto di partenza storico della festa odierna è la consacrazione della Basilica Lateranense a Roma, dedicata al Santissimo Salvatore, sotto il duplice patrocinio dei santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. È la chiesa cattedrale del Papa, in quanto vescovo di Roma, e quindi anello di comunione con tutte le Chiese locali e i loro pastori nel mondo intero. Lo ricorda anche una scritta marmorea sulla facciata di questa Basilica: “madre e capo di tutte le chiese dell’Urbe e dell’orbe”. L’affermazione ha un alto valore teologico per la Chiesa. Un valore, però, che si deve interpretare e vivere alla luce di quanto affermava già, agli inizi del 2° secolo, S. Ignazio di Antiochia, mentre si apprestava ad arrivare a Roma per subirvi il martirio sotto i denti delle fiere (+107): la sede di Roma è la prima in quanto “presiede alla carità”.

Siamo invitati oggi a scoprire e vivere la dimensione missionaria della comunione di tutta la Chiesa nella carità. Una comunione che ha la sua radice nel Battesimo, che ci introduce nella comunità viva della Chiesa. Questo sacramento è simboleggiato nell’acqua abbondante che scaturisce dal tempio (I lettura), capace di immettere germi di vita nel Mare Morto e di risanare l’ambiente, seminando ovunque vita, alberi, foglie e frutti (v. 8-9.12). Per S. Paolo (II lettura) l’unico fondamento su cui si costruisce e si regge il tempio di Dio è Gesù Cristo (v. 11). Grazie a Lui, il cristiano diventa, per il Battesimo, tempio di Dio (v. 16-17). E S. Pietro insegna: avvicinandosi a Cristo, “pietra viva… quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1Pt 2,4-5). Sono parole che illuminano r i rapporti con Cristo, la vita nella Chiesa e il dinamismo missionario.

Il gesto audace -inimmaginabile, se non fossero i Vangeli a dircelo- di Gesù con la frusta in mano (Vangelo) nell’atto di cacciare i mercanti dal tempio (v. 15-16), mette in evidenza con quanta forza Egli introduce un modo nuovo di rendere culto a Dio, non più basato sullo scambio di opere e di compiacenze, ma sulla gratuità del dono del Padre, da accogliere e da adorare “in spirito e verità” (Gv 4,23). Il luogo nuovo di culto non è più l’edificio materiale fatto di pietre morte, bensì Colui che è la “pietra viva”, cioè il corpo crocifisso-risorto del Cristo (v. 19.21-22). E, uniti a Lui, i cristiani, pietre vive, rendono a Dio il loro “culto spirituale”, come esorta S. Paolo: offrite “i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Il tempio materiale, splendido o povero, è solo un contenitore esterno. I valori sono altri e più alti.

Abbiamo qui un’ulteriore conferma della novità del Vangelo, il quale ha il compito di illuminare ed, eventualmente, di purificare le espressioni religiose presenti nelle culture dei popoli. “L’attualizzazione di questa festa è dunque chiara: noi come membra vive della nostra Chiesa locale siamo corresponsabili perché essa diventi, a sua volta, come la Chiesa-madre, genitrice di altre Chiese e comunità, uscendo dalle sue mura o dai suoi confini geografici per aprirsi al mondo intero” (Enzo Lodi).

Il dinamismo di crescita e lo stile di espansione missionaria -da qualunque centro partano, piccolo o grande- dovranno configurarsi al Maestro che lava i piedi dei discepoli (Gv 13,5), perché “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita” (Mc 10,45). Espressione massima di carità! (Gv 15,12-13). È questo il progetto primigenio della Chiesa, sia a livello locale che universale. A questo ideale si riferisce S. Ignazio di Antiochia, quando afferma che la sede di Roma è la prima in quanto “presiede alla carità”. Ignazio unisce genialmente due valori inseparabili: presidenza e carità, autorità e amore. Il vescovo di Roma presiede alla comunione di tutte le Chiese; presiede alla comunione della carità; presiede nella carità. La carità è la legge suprema nella nuova famiglia di Dio, che è la Chiesa. La carità è il “comandamento nuovo” di Gesù; l’amore vicendevole è il distintivo dei discepoli (cf Gv 13,34-35). Per questo “il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa”. L’imperativo è esigente! Senza la carità la Chiesa, sia locale che universale, sarebbe una cattedrale vuota di senso; una struttura fredda, puntellata da codici sterili e da gerarchi incartapecoriti; un’agenzia di proposte che non interessano a nessuno… In qualunque latitudine, l’amore testimoniato ed annunciato è l’unico messaggio evangelizzatore che riscalda il cuore, da senso alla vita, può arricchire le culture dei popoli.

L’anticipazione
Gv 2, 13-22

Giovanni è un maestro di quella tecnica narrativa che si chiama anticipazione. Qui siamo appena al capitolo 2 e l’evangelista nel raccontare la storia di Gesù gli ha fatto dire, alle nozze di Cana, che non è ancora giunta la sua ora (Gv 2,4), ovvero sappiamo già che ci sarà un momento, più avanti, in cui invece accadranno cose grandi e ora, nel brano di vangelo che chiamiamo della purificazione del tempio, Giovanni ci parla direttamente della resurrezione.

Nel testo narrativo l’anticipazione serve a creare attenzione e attesa nel lettore. Anche qui. I vangeli sono storie raccontate e le regole sono quelle. Ma a Giovanni sembra interessare di più l’affermazione (teologicamente fondamentale diremmo oggi) che parole e azioni di Gesù possono essere comprese solo a partire dalla fine. Una fine smisurata rispetto alle attese.

Ci si aspettava la liberazione dall’oppressione, un popolo ricostituito nella sua libertà e invece arriva la morte del Messia. E poi la resurrezione. Qualcosa così difficile da accogliere che Giovanni ogni volta che può la anticipa, ancora e ancora.

Il gesto di Gesù che caccia i mercanti è teatrale e sorprendente. Avrebbe potuto predicare mettendo in guardia i discepoli, come farà a proposito degli scribi e dei farisei, senza la sferza di cordicelle. È un gesto che è proprio accaduto, lo riportano tutti i quattro vangeli. Solo Giovanni però, lo mette all’inizio della predicazione.

Qui si parla di Dio, ha scritto nel prologo. E ora chiede: dove si trova Dio? Nel tempio, risponde il buon ebreo credente che nella festa di Pasqua sale a Gerusalemme in un pellegrinaggio codificato dai capi religiosi. Nella persona di Gesù, risponde Giovanni.

Ai capi religiosi, spiazzati o arrabbiati per qualcosa che manda all’aria l’istituzione a cui appartengono, e chiedono segni, Gesù dà una risposta che non possono capire: Io sono il tempio. E nemmeno i discepoli capiscono, ma la ricorderanno dopo la resurrezione e intanto però restano con lui, non lo lasciano, imparano a credere che la fede è più grande di un mercato, fosse pure sacro.

Giovanni dice tutto e subito. L’unica cosa che conta è Gesù, la sequela, la relazione con lui che ci fa abitare insieme a lui il tempio della nuova relazione d’amore. Niente meriti per ottenere benevolenza da Dio, niente sottile devoto mercanteggiare, nemmeno attraverso prescrizioni consolidate e lecite: è così tutto nuovo che lo si può capire solo restando lì con Gesù, un giorno alla volta, ricordando e finalmente, almeno un poco, comprendendo.

Questo di Gesù è un gesto che istintivamente ci dà un moto di umanissima soddisfazione, perché sia pure in modo confuso siamo consapevoli del fatto che tutto quel mercato intorno alle cose di Dio non va proprio bene. Eppure siamo ancora così pieni di sacri mercati.
Mariapia Veladiano – L’Osservatore Romano

Dedicazione della Basilica Lateranense

La Basilica di San Giovanni in Laterano, di cui celebriamo la Dedicazione in questa trentaduesima domenica ordinaria, è la Cattedrale del Papa in quanto Vescovo di Roma. Essa è la prima, per origine e dignità, di tutte le chiese dì occidente. Ecco perché sul frontale centrale della sua facciata vi si trova il motto seguente: “Mater et Caput omnium ecclesia rum Urbis et orbis” (Madre e Guida di tutte le chiese di Roma e del mondo). Questa Basilica costantiniana eretta nel 320, cattedrale di Roma e del mondo, è dunque la madre delle altre chiese. Essa è ugualmente la custode della cattedra papale e conserva, nel baldacchino che sormonta l’altare maggiore, le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo. La festa della sua dedicazione ci ricorda, soprattutto, che il ministero del Papa, successore di Pietro, è di costituire per il popolo di Dio il principio e il fondamento della sua unità.

Al centro della liturgia della Parola c’è l’episodio dell’espulsione, da parte di Gesù, dei venditori al Tempio, in occasione del suo soggiorno a Gerusalemme durante la festa di Pasqua. Questa espulsione ha luogo non nel “Sancta sanctorum” ma nel cortile dei gentili, la parte meno nobile della spianata sacra, l’unica alla quale gli stranieri avevano accesso. Le sane tradizioni richiedevano che vi si comportasse con grande rispetto. Bisognava, per esempio, evitare di passarvi per il solo motivo di accorciare il proprio cammino. Ma tante di tali prescrizioni, soprattutto in prossimità della Pasqua, non erano affatto osservate. I sacrifici che dovevano offrire i pellegrini (un bue o una pecora i ricchi, una colomba i poveri) e l’offerta di mezzo siclo, da pagare esattamente secondo il siclo del Tempio, erano all’origine di un grande trambusto. I capannoni dei mercanti di buoi e di pecore, come pure i tavoli dei cambiavalute disposti qua e la trasformavano il recinto in un gran mercato. Lungi dall’opporsi a questa profanazione, i responsabili del Tempio vi scorgevano una fonte preziosa di guadagni.

Indignato per tale mancanza di rispetto verso il santuario, Gesù si sente obbligato a reagire. Si fece una frusta con delle corde per cacciarli tutti fuori dal Tempio, uomini e bestie. Rovescia i tavoli dei cambia denaro. Quanto ai venditori di colombe, di certo perché il loro commercio appariva meno offensivo, viene loro ingiunto di abbandonare il posto portando via i loro uccelli: “Togliete ciò di qua, non fate della dimora di mio Padre un luogo di commercio”.

Difatti, a partire dal Vecchio Testamento, il Tempio è considerato come casa di Dio (la sua dimora in mezzo agli uomini); è così che lo stesso Gesù la chiama in Mt. 12,4, Mc. 2,26 e Lc. 6,4. Se Giovanni sostituisce a questa espressione corrente quella, completamente inaudita, di “casa di mio padre”, è per mettere in rilievo la filiazione divina di Gesù. Questo modo di presentarsi di Gesù, chiamando cioè Dio suo Padre, equivale a una dichiarazione messianica. Si è dunque di fronte qui a una prima manifestazione messianica di Gesù, certamente velata per la maggior parte, ma di cui gli scribi e i farisei dovevano essere in grado di supporre.

Le ingiunzioni di Gesù ai rivenditori e ai cambia monete sembrano essere state immediatamente eseguite. Non è stato dunque necessario che i discepoli intervenissero; ma lo zelo di Gesù li impressionò vivamente, a tal punto che essi si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo della tua casa mi divora”. In altre parole, essi videro nel gesto energico di Gesù l’illustrazione impressionante di questo meraviglioso versetto del salmo 70. Questo testo si addice bene allo zelo di Gesù per il rispetto della casa di Dio, zelo che dovrebbe essere anche il nostro.

Quanto ai sacerdoti, essi non perdono tempo a entrare in scena per reclamare a Gesù un segno capace di giustificare il suo atteggiamento. Egli dice loro: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni io lo riedificherò”. Quando, cioè, il Tempio sarà distrutto da loro, egli lo ricostruirà. Queste parole non si riferiscono al tempio di pietre. Gesù non alludeva che al suo proprio corpo e al grande segno della Resurrezione, dopo che egli sarà stato ucciso. Infatti i lavori di costruzione del Tempio avevano necessitato di una considerevole mano d’opera (che Giuseppe Flavio valuta in circa 18.000 operai). Date tali condizioni, come un solo individuo poteva farsi garante di ricostruire, da solo, questo Tempio, e in tre giorni? Inoltre, la prova esigeva che si cominciasse distruggendo tutto! Lo stesso eccesso dell’assurdità avrebbe dovuto mettere i Giudei in guardia da una interpretazione troppo frettolosa e letterale delle intenzioni di Gesù. Ma tant’è, essi preferirono gridare all’assurdo. È, questo, un atteggiamento che tenta gli uomini di tutti i tempi.

Questa narrazione dell’Evangelista San Giovanni, in questo giorno in cui commemoriamo la Dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, ci invita fortemente a imitare l’atteggiamento dei discepoli: essi, con una fede generosa, credono in Gesù sull’autorità della sua parola. Tale è l’atteggiamento dei veri credenti. Questo brano ci proibisce, d’altra parte, di imitare l’incredulità dei capi dei Giudei, ostinatamente chiusi alla Luce e evidentemente impenetrabili alla Grazia. La fede è resa più facile da una docilità di spirito che non appartiene a coloro che sono imbevuti di se stessi, ma a coloro che sono umili.
Don Joseph Ndoum