In Pace Christi

Benini Igino

Benini Igino
Data di nascita : 18/02/1916
Luogo di nascita : Mizzole
Voti temporanei : 07/10/1940
Voti perpetui : 07/10/1943
Data ordinazione : 28/06/1942
Data decesso : 28/09/2005
Luogo decesso : Milano

Ultimo di undici figli, Igino proveniva da una famiglia profondamente cristiana di lavoratori della terra. Nell’ambito di questa famiglia e della parrocchia, è nata la sua vocazione. Egli stesso ci traccia un profilo dei suoi genitori: “Mamma Domenica Campara era una santa, tutta sacrificio, molto religiosa e guidata spiritualmente da quel santo prete che fu Don Giuseppe Zanetti. Il suo ministero sacerdotale fece sbocciare e fiorire da quel piccolo paese tante vocazioni maschili e femminili. La mamma aveva una particolare sete della Parola di Dio, ma non sapeva leggere speditamente. Allora io, mentre lei preparava il cibo in cucina, le leggevo ad alta voce il catechismo e il Vangelo. Come mi ascoltava volentieri!

Avevo undici anni quando vinsi il premio Roma nella gara catechistica dell’Associazione Fanciulli Cattolici d’Italia e fui scelto a rappresentare la diocesi di Verona davanti al papa Pio XI. Ogni diocesi d’Italia doveva mandarne uno. Io andai con la mia mamma, perché papà Battista non voleva che andassi da solo, così piccolo.

Tornato da Roma, sentivo in me un intenso desiderio di diventare sacerdote. Allora terminai le elementari privatamente aiutato dal parroco di Moruri. Quanti sacrifici dei genitori e di tutta la famiglia! Però imparai la lezione che per aver qualcosa dalla vita occorreva tanto sacrificio, tante rinunce. Così, nell’ottobre 1919, a 13 anni, potei entrare nel seminario diocesano.

Durante le vacanze estive in famiglia, lavoravo sodo nei campi per ricompensare almeno un po’ i sacrifici della famiglia. Questo mi è servito, senza saperlo, ad imparare a servire e non ad essere servito, come deve fare ogni missionario e diciamo anche ogni buon cristiano.

In seminario, col tempo, maturò in me la vocazione totale, quella missionaria. Invidiavo i seminaristi Comboniani che venivano a scuola con noi e mi parevano tutti dei santi che custodivano nel cuore l’ideale più grande che si possa immaginare: portare Gesù agli uomini che non lo conoscono. Il loro ideale finì per affascinarmi. Per alcuni anni resistetti alla voce del Signore, poi mi arresi e la diedi vinta alla voce dello Spirito.

Il sì della mamma fu eroico. Era il giorno di santa Lucia e lei venne a portarmi con tanto amore il suo povero regalo: della frutta conservata in solaio, un cartoccio di arachidi comperato al mercatino di Verona. Mangiammo insieme parte di quel dono, poi le dissi: ‘Mamma, ho da chiederti un altro dono, un dono come quello che Maria diede a Gesù all’inizio della sua vita pubblica… Ho deciso di farmi missionario’.

‘Me l’aspettavo’, disse singhiozzando. Abbiamo sfogato nel pianto il nostro duplice sì al Signore. Dopo alcuni minuti di silenzio, lei mi disse: ‘Se il Signore vuole così, vai. Hai la mia benedizione’. L’abbracciai e la baciai ripetendole il mio grazie. Poi, un altro sì: ‘Aiutami, mamma, a persuadere il papà, i fratelli e le sorelle’. Me lo promise, pure tra i singhiozzi”.

La figura del padre
“Ed ora, con viva riconoscenza ad amore, devo parlare del mio papà Battista. Lavorava da mattina a sera e qualche volta anche di notte. Alla mattina, alle 5.00, era già al lavoro per governare la stalla. Quando ero in vacanza dall’Africa, veniva a svegliarmi perché mi preparassi alla Messa delle 7.30. Qualche volta gli facevo osservare che c’era ancora tempo e che non avrei perso la Messa perché ero io che la celebravo. Mi diceva che bisognava prepararsi alla Messa, sia per ascoltarla e più ancora per celebrarla. Entravamo in chiesa quando non c’era ancora nessuno. Egli si sistemava su un banco un po’ al buio e pregava per un’ora intera. Il suo comportamento era una lezione per me, una catechesi.

Quando stavo per partire per la missione, una delle ultime volte, mentre eravamo seduti uno accanto all’altro sotto un ciliegio, mi disse: ‘Hai fatto tanti anni d’Africa, potresti rimanere in Italia’, ma poi si corresse e disse: ‘Anche se ho 84 anni e non ti vedrò più su questa terra, va’ dove il Signore ti chiama. Quella è la strada giusta per te’. Lo lasciai sulla porta di casa mentre con la mano mi salutava ed io mi allontanavo verso l’Africa. Non l’ho più visto su questa terra”.

La salvezza delle anime
Nella domanda per entrare tra i Comboniani, scritta dal seminario di Verona il 2 luglio 1938, Igino scrive: “Unico mio fine in questo passo che sto per fare non è che la gloria di Dio e la salute dei poveri Neri”. Poi precisa che ha terminato con successo la prima teologia e lascia il seminario con la benedizione dei superiori.

Il 16 agosto 1938 entrò nel noviziato di Venegono Superiore e il 7 ottobre 1940 emise i primi voti, quindi, andò a Verona per continuare la teologia. Poco prima dell’ordinazione sacerdotale il Superiore Generale, P. Antonio Vignato, scrisse: “Durante il noviziato, il padre maestro Antonio Todesco diede sempre buone informazioni di Benini. Dopo la professione e fino ad ora si è sempre comportato da buon chierico religioso, amante della preghiera e dello studio, osservante della regola, docile, desideroso di giungere al sacerdozio per procurare la salvezza delle anime. Nulla vi fu mai in lui da eccepire circa la castità, la temperanza, l’ortodossia della fede. Tanto testificano anche P. Agostino Capovilla, superiore, e P. Enrico Farè che vivono nella casa, i quali ritengono con me che abbia vera vocazione al sacerdozio”.

Da una lettera del 1° agosto 1941 possiamo vedere come P. Igino sentiva la vita religiosa: “Ringraziando il Signore e la Madonna le posso attestare candidamente e con sommo contento che la vita religiosa ha accentuato in me sempre più la riconoscenza al Signore per tante grazie, e il desiderio di vivere e morire figlio il meno indegno possibile della nostra diletta Congregazione…”.

In Sudan meridionale
Il 28 giugno 1942 fu ordinato sacerdote a Verona e poi, dato che non era possibile partire per la missione a causa della guerra, fu mandato a Venegono Superiore come propagandista e addetto al ministero. Vi rimase fino al 1946. Finalmente arrivò il momento di partire. Ecco come egli stesso ci descrive la sua partenza: “Un giorno di fine aprile 1946, mentre la banda del paese suonava in un clima di festa, sulla strada poco lontana da casa mia, a bordo di un calesse ornato con fiori e bandierine ci fu l’ultimo pianto e l’ultimo abbraccio con la mamma e poi la mia benedizione con la percezione che non ci saremmo più visti su questa terra.

Dopo alcuni anni d’Africa arrivò, infatti, la triste notizia: ‘La mamma ci ha lasciato con il tuo nome sulle labbra’, mi hanno scritto i fratelli. Allora ho pensato che il giorno della mia morte sarà bellissimo per me perché, oltre Gesù e Maria incontrerò la mamma e tutte le mamme che dopo aver visto i loro figli e figlie allontanarsi da casa nel pianto per donarli al Signore, ora li rivedono in un eterno sorriso”.

Dopo un periodo di rodaggio nella missione di Mupoi, una missione che contava 200 fabbricati e 14 pozzi con scuole, laboratori, officine, tipografia, dispensario e piantagioni di alberi per avere il legname, P. Igino fu dirottato a Naandi. Egli stesso racconta il secondo Natale passato in missione, quello del 1947: “Fu la mia prova del fuoco: ero giovane di 27 anni; la lingua zande la biascicavo appena per farmi intendere, ma avevo il prezioso aiuto del chierico zande Girolamo Bidai. Per nove giorni, mattina e sera, amministrazione dei sacramenti, incontri con i ragazzi delle scuolette di villaggio, con catecumeni giovani e adulti che si preparavano al battesimo.

Il giorno di Natale cominciai alle 5 del mattino ad ascoltare le confessioni e terminai alle 2 del pomeriggio, mentre la folla sul piazzale della chiesa cantava, giocava e ballava al ritmo dei tamburi. Come Dio volle, terminai la santa Messa di Natale alle 3 pomeridiane. La mia gente volle che portassi il viatico ad una donna inferma, verso la sorgente del fiumicello Naandi, a circa mezzo chilometro. Ritornai al centro per la processione e la benedizione eucaristica. Poi, stanco e barcollante, mi feci irreperibile… ma ero felice”.
Nel 1949 si aggiunse al gruppo di missionari Fr. Nicola Schiavone, costruttore. Appena arrivato si scusò di essere soltanto cuoco. “Benissimo – rispose P. Igino – insegna alle donne a cucinare, poi farai
gli altri lavori”.

Fondatore e superiore a Nzara
Il 19 gennaio 1952 P. Igino venne dirottato a Nzara. Cinque o sei anni prima Nzara non esisteva e nessuno, allora, avrebbe immaginato che quella zona, ricoperta di fitta foresta, si sarebbe trasformata in un centro commerciale di primaria importanza.

All’arrivo di P. Igino, Nzara contava 6.000 abitanti, in gran parte zande provenienti da Wau e da Juba. Un centinaio erano arabi del nord. A Nzara c’erano le fabbriche per la lavorazione del cotone, dotate di macchinari moderni, c’erano anche un oleificio, un saponificio, una segheria e, in una località vicina, un piccolo zuccherificio.

La fondazione della missione datava dal 31 ottobre 1951. Prima esisteva a Nzara una cappella dove si radunavano pochi cristiani per le preghiere domenicali. La cura di questi cristiani era affidata a P. Filiberto Giorgetti il quale, dopo la fondazione di Yambio, si recava ogni domenica a celebrare la seconda Messa a Nzara.

Notiamo che Nzara si trovava nella zona riservata ai protestanti e perciò il governo non concesse il permesso di fondare una missione cattolica, ma soltanto l’autorizzazione ad un unico sacerdote di stabilirsi in città e aprire una chiesetta per l’assistenza dei cattolici già presenti.

Il 31 ottobre 1951 P. Ugo Riva e Fr. Erminio Calderola arrivarono a Nzara per iniziare i lavori e andarono ad abitare in una casetta presa in affitto. Inizialmente le difficoltà furono immense: la casa era a due chilometri dal cantiere e non si trovavano operai, essendo tutti occupati nei lavori commissionati dal governo. Ad ogni modo, P. Riva e Fr. Calderola si rimboccarono le maniche e, mentre quest’ultimo si dedicava ai lavori materiali, il primo cominciò a radunare un gruppo di catechisti.

A dicembre arrivò P. Giuseppe Furlanetto da Mupoi per dare man forte e confessare in arabo i cristiani provenienti da Wau o Juba. A Natale, si aggiunse al gruppo anche P. Vincenzo Carradore da Mupoi.
Con l’arrivo di P. Igino, i missionari lasciarono la casa in affitto per stabilirsi nel garage della nuova costruzione. Contemporaneamente iniziarono le conversioni. Le prime a chiedere il battesimo furono le mogli dei cristiani che vivevano il matrimonio more pagano. Più difficile fu il lavoro tra i ragazzi perché frequentavano le scuole protestanti. Ma ben presto i gruppi di battezzandi si susseguirono a breve distanza facendo aumentare il lavoro dei missionari.

Esplosione di opere
Altri missionari che hanno lasciato il segno a Nzara sono Fr. Giulio Raimondi, P. Paolo Busnelli, Fr. Emilio Bertoldi, Fr. Aldo Morandini, Fr. Tarcisio Calligaro, Fr. Ulderico Menini e, soprattutto P. Ernesto Firisin, l’uomo della Parola di Dio. Se P. Giorgetti conosceva i pregi e i difetti degli azande (anzi fu l’unico che poteva correggerli e qualche volta insultarli perché li amava moltissimo), P. Firisin fu il primo vero apostolo, padre nella fede dei medesimi, formatore di catechisti e di cristiani esemplari. P. Giorgetti, compositore ed esecutore di musica, seppe cogliere le sfumature musicali degli azande.

P. Firisin era conosciuto con il nome di Basangbambòri l’uomo dalla parola di Dio. È lui che ha aperto la strada del paradiso agli azande. Nei suoi 57 anni di vita missionaria, nessuno lo eguagliò nello zelo apostolico, nell’assoggettarsi agli sfibranti safari per l’erezione dei catecumenati e la visita periodica ai cristiani, nell’insegnare quotidianamente il catechismo, nel visitare gli ammalati a domicilio. In tutta la sua vita non nutrì altra ambizione che insegnare la Parola di Dio.

Il 28 gennaio 1953 il prefetto apostolico Mons. Domenico Ferrara, mandò ai missionari una bella Chevrolet. P. Igino scrisse. “Ora potremo visitare la zona a noi recentemente affidata”.
Il diario di missione riassume l’attività di P. Igino e dei confratelli con queste parole: “Lavorano di comune accordo e con tanta gioia insistendo sulla formazione dei catechisti, sulla spiegazione del catechismo, sulle visite ai villaggi e ai lebbrosi e nell’esercizio della carità”.

Una delle prime iniziative di P. Igino a Nzara fu la Legio Mariae, sicuro che la Madonna avrebbe fatto prodigi. E così fu. Poi fondò il Bino Eklesia (il campo della Chiesa). Ogni cristiano doveva ritagliare un pezzetto del suo campo per coltivare prodotti che sarebbero andati in beneficenza.

Per l’inaugurazione della chiesa-santuario della Madonna di Nzara (il 2 agosto 1953 costruita in 18 mesi da Fr. Emilio Bertoldi e altri confratelli), “i Padri distribuirono più di 1000 comunioni mentre P. Giorgetti batteva le vie della città con la sua banda musicale”. Il 17 dicembre si fecero i preparativi per l’ordinazione sacerdotale di P. Gabriele Duatuka, primo vescovo di Rumbek.

Intanto era stata costruita la casa delle suore, quella dei missionari, le scuole e il dispensario. Ogni settimana P. Igino radunava i missionari, le suore e i catechisti per un’agape fraterna durante la quale si discutevano i problemi della missione. “Talvolta litigavamo sulle opinioni – scrive P. Igino – ma poi si faceva pace”. Nzara, sotto l’impulso di P. Igino, fece passi da gigante.

L’arrivo delle suore, il 22 maggio1954, contribuì a risolvere il problema della formazione delle donne e delle ragazze. La peregrinatio Mariae che P. Igino volle in tutti i villaggi servì ad incrementare la fede e la devozione alla Madonna. I pagani e anche i musulmani, oltre ai cattolici, naturalmente, si prostravano al passaggio della statua. Tutto questo fervore era sottolineato da gruppi sempre più numerosi di giovani che chiedevano il battesimo.

P. Remo Armani, provinciale del Sud Sudan, scrisse a proposito di P. Igino: “Uomo di grande spirito di apostolato, amante del ministero, pieno di attività e pratico. Ha saputo dare uno sviluppo grande alla sua missione e si è circondato di bravi cooperatori indigeni fedeli ed entusiasti. È amato e seguito dai suoi cristiani con i quali forma una bella famiglia”.

Il segreto dell’apostolato di P. Igino
“In Sudan - scrive P. Igino - trovai il testo del catechismo di San Pio X, quello che avevo imparato a memoria da piccolo. Era scritto nelle varie lingue e dialetti locali, per lo zelo industrioso e intraprendente di P. Armando Ciappa e Fr. Michele Sergi. Lo usai ogni giorno per tanti anni nei miei catecumenati. In ogni famiglia esisteva il Vangelo, il Piccolo catechismo di San Pio X e il libretto Guida al matrimonio cristiano, messo insieme da me e dai miei collaboratori laici, scritto in inglese e in zande.

Quando venivo in Italia per un po’ di riposo, rimanevo dolorosamente sorpreso dell’ignoranza religiosa di tanta gente, e mi auguravo che venisse composto un compendio del catechismo della Chiesa, chiaro, essenziale, completo e alla portata del popolo, da mettere in mano ai sacerdoti, ai catechisti, ai laici e a tutto il popolo di Dio. Ed ora, grazie alla sollecitudine dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ho la gioia di leggere, studiare, meditare ed usare nel resto della mia vita missionaria questo grande dono della Chiesa. È un dono dello Spirito Santo alla Chiesa che Lui assiste e guida nella via della salvezza.

L’amore al catechismo mi è stato inculcato, in Africa, da P. Ernesto Firisin, uno dei più grandi interpreti del carisma comboniano, umile, zelante apostolo, d’intensa vita spirituale, che sapeva davvero fare causa comune con tutti”.

Odore di tempesta
“Malgrado il clima di festa - scrive P. Igino - già da mesi a Nzara si percepiva odore di tempesta. In città, e soprattutto nel cotonificio la tensione fra arabi e africani aumentava. I primi si credevano classe superiore e padroni, e lo dimostravano nel disprezzo verso i secondi; nei salari, poi, la discriminazione bruciava. Uno schiaffo dato da un dirigente nordista ad un impiegato sudista fu la proverbiale scintilla che accese l’incendio. Un grido echeggiò nel reparto tessitura: tutti capirono. Si riversarono fuori dallo stabilimento e fu subito battaglia. Il primo ad essere massacrato fu il direttore, una degna persona. Seguì un fuggi fuggi generale, ma i sudisti davano la caccia all’uomo del Nord, senza distinzione.

Gli inglesi e i greci fuggirono con le loro auto nel vicino Congo. Solo noi missionari rimanemmo al nostro posto, anche se scossi nei nervi e incerti sul da fare. La nostra missione fu per tutti rifugio e punto di riferimento. Era rischioso aiutare, ospitare, dare consiglio senza compromettersi. Con l’aiuto di Dio e di Nostra Signora di Nzara, il peggio passò.

Dopo qualche settimana arrivarono le truppe del Nord e fu di nuovo battaglia. Uomini, donne e bambini furono uccisi o annegati mentre fuggivano. Una pattuglia dell’esercito con comandante e fucili spianati arrivò alla nostra missione. Li accogliemmo con calma, sorridendo e tendendo la mano al comandante. Questi fu incerto per qualche istante, poi anch’egli ci diede la mano e fece cenno ai soldati di abbassare i fucili. Finalmente se ne andarono con nostra grande soddisfazione. In quello stesso anno scoppiò la rivolta di Torit (1955) che diede origine alla guerra tra Nord e Sud”.

A Khartoum per ricominciare
Nel 1960 P. Igino fu espulso dal Sudan meridionale. Il Governo aveva cominciato a perseguitare i missionari che maggiormente influivano sulla popolazione. P. Igino era uno di questi e, inoltre, distribuiva medicine e vestiario ai poveri, cosa che era proibita. Tuttavia ebbe il privilegio di potersi fermare a Khartoum.

Nella capitale del Sudan P. Igino, pur dedicandosi al ministero che era la sua passione, occupò una buona fetta del suo tempo per la scuola. “Se c’è una cosa che fa impressione a Khartoum per chi vive e lavora tra la gente del popolo - scrisse - è il grande desiderio che tutti mostrano di imparare, grandi e piccoli. Anche la Chiesa cerca di stare al passo col governo che ha fatto sorgere tante scuole, ma sono enormi i sacrifici che essa compie per aiutare la gioventù a frequentare la scuola.

Le nostre scuole sono gremitissime e sono frequentate dai più poveri. Alcuni camion e alcune corriere fanno la spola tra il centro e i villaggi più lontani per portare gli studenti. Quelle che più impressionano sono le scuole serali per giovani, uomini e donne: gente che lavora fino alle 2.00 pomeridiane e poi va a scuola. Per l’accettazione non si fa distinzione di religione o razza. Oltre l’inglese, l’arabo e l’aritmetica, per chi vuole c’è il catechismo. Non disponendo di aule sufficienti, le lezioni si tengono all’aperto. Gli scolari scrivono tenendo il quaderno sulle ginocchia per mancanza di banchi. La lavagna è un pezzo di cartone incatramato o dipinto di nero, appeso a un palo. Una di queste scuole serali conta 1.400 alunni. Nonostante il numero c’è grande silenzio e ordine.

A Dio piacendo, nel prossimo luglio apriremo un’altra grande scuola a Hella Lamb, che sarà in futuro un’altra parrocchia, staccata da quella dei Santi Pietro e Paolo. Chi sa leggere e scrivere, almeno un po’, può sperare in un avvenire migliore economicamente, socialmente e anche spiritualmente. Ai cristiani la scuola consente di nutrirsi della Parola di Dio.

Questi giovani, tornando ai loro villaggi d’origine, avranno un lavoro e diventeranno i leader della loro gente. Parallela a questa attività ne abbiamo altre come la scuola di cucito e di arti domestiche per le donne e le ragazze. Altra opera sono gli asili per i piccoli. Al momento ne abbiamo tre che funzionano bene. Abbiamo, infine, dei dispensari nei quali le suore, oltre a curare le malattie, insegnano anche a prevenirle. Ci sarebbe ben più da fare, ma siamo obbligati e segnare il passo per mancanza di personale e di mezzi finanziari…”.

Nel 1977 troviamo P. Igino come parroco nella parrocchia di San Giuseppe, eretta canonicamente in quell’anno, anche se la sua origine è legata alla scuola tecnica, nella cui cappella i pochi cattolici del quartiere assistevano alle funzioni fin dagli anni Cinquanta. Arrivando molti cristiani dal Sud, il vescovo, Mons. Baroni, impossibilitato dalle autorità a costruire chiese nei quartieri popolari, eresse a parrocchia la cappella della scuola tecnica e nominò parroco P. Igino. Attualmente la parrocchia e la scuola tecnica è in mano ai Salesiani i quali hanno costruito un salone con 800 posti a sedere, che viene usato come chiesa e come sala per raduni.

Per 25 anni P. Igino diresse anche il gruppo di giovani (nadi) che fuggivano dal Sud a causa della guerra. Ad essi insegnava le preghiere e il catechismo e quando erano pronti, venivano battezzati.

Parroco a Tombora
A metà del 1989, P. Igino e Fr. Calligaro andarono a Nzara a rimpiazzare P. Elvio Cellana che tornava in Italia per cure e vacanze. In una lettera del 26 novembre 1989, P. Igino afferma: “Sono felice e contento di essere a Nzara a concludere la mia giornata missionaria, incominciata molti anni fa”.

A questo punto vale la pena seguire il diario di P. Igino: “Nzara, 20 aprile 1990: P. Abele Modi, provinciale, mi mette a disposizione del vescovo Mons. Gasi per sostituire, a Tombora, come parroco, P. Raymond Pax. Così il 27 aprile sono a Tombora accolto festosamente dal superiore di Nzara, P. Pietro Ravasio, che mi incarica di portare avanti il lavoro pastorale di quella comunità. Domenica 29 aprile celebro la Messa e poi faccio conoscenza con i presenti con robuste strette di mano. Con P. Ravasio cerco di incontrare la comunità di Tombora, di aiutare i catechisti a vivere la loro vocazione di collaboratori pastorali e di mettere insieme alcuni laici convinti per rianimare le comunità di base, l’Azione Cattolica, la pastorale familiare e il catecumenato, compresa la catechesi per la prima comunione.

Poi vado per una decina di giorni a Nzara per predicare gli esercizi spirituali al clero della diocesi e ad un gruppo di suore. Il vescovo Gasi è sempre tra noi a suggerire, ammaestrare e confermare.

La cittadina di Tombora è bella, popolosa. Fuori città la parrocchia conta 24 cappelle, alcune con scuola elementare, altre solo come centri di preghiera e catecumenato. In città, che è sede del vice commissario del distretto di Yambio, ci sono scuole elementari e medie, un tempo della Chiesa e ora governative, con possibilità di assistenza religiosa da parte nostra. Ci sono anche altre organizzazioni civili, c’è un ospedale abbastanza attrezzato, un aeroporto in terra battuta e negozi gestiti da greci e da arabi.

C’è poi un convento di religiose sudanesi con aspirantato del quale è responsabile P. Ravasio. Ci sono anche le Suore Comboniane con una piccola clinica, non lontana dall’ospedale”.

Sette mesi a Maringhindo
“Il 31 aprile vado a Maringhindo affidata dal vescovo alle nostre cure pastorali. La parrocchia è nelle condizioni spirituali di pecore senza pastore che fecero tanta compassione a Gesù.
Il vecchio catechista Proto dà un’esauriente relazione della situazione. Tra gli otto catechisti della parrocchia è il solo che abbia celebrato il matrimonio in chiesa. I tetti della sede parrocchiale sono cadenti, la chiesa è bella ma poco frequentata. Celebro la Messa e preghiamo insieme per la rinascita di questa comunità, poi visito i cristiani e cerco di organizzare il catecumenato”.

Precisa P. Ravasio: “È che, essendo lontana, Maringhindo sembrava abbandonata. Prima della venuta di P. Igino, P. Mario Riva, con vero eroismo, aveva passato diversi mesi da solo in quell’avamposto. Sia P. Riva che P. Igino vedevano in Proto, anziano e malato, il vero catechista della prima ora, formato da P. Ernesto Firisin. Anche lui, negli anni precedenti era venuto a Nzara per un corso di catechisti ed aveva dato un’ottima testimonianza ai catechisti più giovani”.

“Il primo maggio - prosegue Benini - sono di ritorno a Tombora dove c’era il vicario generale Mons. Girolamo Bidai, essendo il vescovo Gasi a Roma”.

P. Ravasio scrive: “15 agosto 1990: giornata dei battesimi. Non dimenticherò mai quel giorno, o meglio quella sera-notte perché la liturgia si svolgeva al tramonto con 39 battesimi e 44 prime comunioni e chiusura del corso per catechisti con 5 suore zande che rinnovavano i voti. Ho impresso nella mente sia il raccoglimento dei giovani neofiti come la contenuta e radiosa gioia di P. Igino. Mi sembrava proprio di vedere un ritorno ai tempi apostolici. Mi augurai, allora, che anche le nostre celebrazioni fra religiosi, per esempio in occasione dei voti, si potessero svolgere con la stessa intensa partecipazione.

Il nostro rapporto con i militari a Tombora era più che buono. La quasi totalità era di militari di carriera, nativi del Sud. Pochi gli ufficiali arabi. Non raramente ho visto alcuni di loro venire in chiesa ed appoggiare il fucile alla parete durante le liturgie o quando si confessavano. P. Igino era assiduo al confessionale - una sedia e un semplice inginocchiatoio - e usava indifferentemente la lingua zande o l’arabo o l’inglese. Ricordo che fummo invitati ad una festa alla moschea e ci dissero che veneravano la Madonna, anche se in modo diverso da noi”.

La chiesa di Tombora è dedicata alla Madonna Ausiliatrice la cui statua era posta nell’abside, in alto. Mons. Domenico Ferrara, forse unico caso, aveva dedicato tutta la parrocchia alla Madonna, con titoli diversi. A Tombora poi c’era un motivo storico per ricordare l’Ausiliatrice: lì viveva l’unica comunità delle Suore di Nostra Signora della Vittoria (Ausiliatrice-Lepanto) da lui fondata come prefetto apostolico.

Tifo, broncopolmonite e guerra
“Alla sera di quel giorno tanto bello - riprende P. Igino - non mi sento bene. Vado alla clinica delle suore e mi trovano il tifo e la broncopolmonite. Mi trattengono fino all’undici settembre 1990. P. Ravasio mi amministra l’olio santo, sennonché San Pietro non mi ha voluto grazie alle preghiere dei cristiani”.

Prosegue P. Ravasio: “C’erano già avvisaglie dello sfondamento da parte dell’esercito di liberazione che avverrà dopo pochi mesi. Nell’isolamento, due giovani Suore Comboniane infermiere, Sr. Amalia Melzani e Sr. Giovannina Zucca, ora entrambe in paradiso, fecero l’impossibile usando anche la radio per chiedere consigli riguardo alla malattia di P. Igino che nel delirio parlava di catechisti e safari e che era necessario fare in fretta. Come Dio volle, il vecchio leone si riprese”.

“Il 21 ottobre 1990 - prosegue il diario di P. Igino - amministro 263 cresime perché il Vescovo è malato e P. Ravasio in clinica, pure mal messo. E arriva l’ultima terribile prova: l’esercito di liberazione invade il territorio, il vescovo e tutto il personale della comunità si rifugiano a Obo nella Repubblica Centrafricana. Anche le nostre suore e quelle del convento partono per il Centrafrica. Noi due pensiamo di restare, ma poi ci consigliano di partire.

Domenica 2 dicembre 1990, con un vero crepacuore vado in chiesa a benedire e salutare la gente, consegno le chiavi del tabernacolo al capo catechista Albino e poi partiamo per quel viaggio avventuroso verso l’Africa centrale. Sulla strada, verso Yubu, capitiamo in mezzo a una grande e paurosa battaglia con tanti morti.

Abbandoniamo tutto e fuggiamo a piedi nella foresta. Attraverso la boscaglia e guadando fiumi e torrenti celebriamo la prima domenica di Avvento in piena foresta, con tanta gente che fugge come noi, tutti affamati e stanchi da morire. Finalmente arriviamo al primo posto di polizia del Centrafrica, bene accolti dalle autorità e poi più avanti incontriamo le nostre comunità sudanesi, i Comboniani e le Comboniane”.

P. Ravasio aggiunge: “Ciò che abbiamo vissuto si dovrebbe tramandare nei suoi dettagli a memoria della storia missionaria. Va detto, prima di tutto, che siamo sopravissuti miracolosamente. Quando ero alla guida della Land Rover, proponevo a P. Igino di tornare a Tombora. Egli mi diceva: ‘Va’ avanti. Ho pregato Comboni e so che ci è vicino e ce la caveremo’.

Ha avuto ragione anche perché avevamo con noi il seminarista Cirillo che era appena rientrato da una tremenda avventura. L’esercito di liberazione lo aveva prelevato da Rimenze, sede del seminario minore. Egli, però, era riuscito a fuggire rischiando la vita. Dietro suo invito, quando la nostra macchina venne crivellata di colpi (nessuno dei quali ci colpì) ci inoltrammo nella foresta che confinava con la Repubblica Centrafricana. Cirillo trovava il sentiero attraverso una fittissima vegetazione mentre le pallottole fischiavano attorno alle nostre teste.

Dopo circa 15 minuti, la sparatoria cessò all’improvviso. Cos’era successo? Un mese dopo venimmo a sapere che il responsabile dell’esercito dei liberatori che ci seguiva, aveva trovato il mio passaporto e così aveva scoperto che non eravamo arabi fondamentalisti in fuga, come credevano. Eravamo più di cento quando arrivammo a Barbuti, una cappella costruita in passato da P. Paolo Busnelli, superiore della missione di Obo.
Nonostante questo, P. Igino tornò a Nzara fino a quando l’esercito dei liberatori la mise a ferro e fuoco costringendoci a tornare in Italia.

Se posso formulare un giudizio su P. Igino, devo dire che è stato un autentico eroe sia nel Sud che nel Nord del nostro Sudan. Aveva il suo metodo pastorale che si esprimeva senza enfasi, ma per questo era più autentico e accattivante. Non alzava mai la voce, sorrideva quando capiva di essere di fronte a situazioni imbarazzanti e così, con il suo atteggiamento non drammatizzava ma faceva riflettere chi era coinvolto. Aveva una vera mania, quasi un culto nel compilare i registri, dopo aver amministrato i sacramenti. Purtroppo la guerra che ci colpì credo abbia, almeno in parte, annullato tanta fatica e impegno”.

Nuovamente a Nzara
Ecco che nel 1990 si riaprirono le porte del Sudan meridionale e in particolare di Nzara, il primo amore di P. Igino. L’esercito di liberazione aveva auspicato il ritorno dei missionari. Quando gli fu chiesto se era disponibile per quella missione, P. Igino rispose che sarebbe partito al più presto.

Il 3 ottobre 1991 i tre destinati a Nzara (P. Igino, P. Elvio Cellana e Fr. Valentino Fabris) si trovarono a Verona per accordarsi sui modi e tempi della partenza.

P. Igino si mostrò impaziente di partire e disse che avrebbe rotto ogni indugio pur di arrivare presto a destinazione, anche se non tutto era chiaro e c’era ancora pericolo di guerra. Con l’entusiasmo che lo aveva sempre caratterizzato nell’affrontare difficoltà e incognite della missione, alla fine di ottobre era a Nairobi, in Kenya. A metà novembre, a bordo di un traballante aeroplanino atterrò a Nzara con due Suore Comboniane e furono accolti calorosamente dall’esercito di liberazione e dalla popolazione.

Nella lettera che il Superiore Generale, P. Francesco Pierli, gli scrisse annunciandogli la possibilità di tornare a Nzara, disse: “Ti ringrazio per quanto hai fatto nel Nord, con impegno e dedizione; ti ringrazio dell’esempio che stai dando a tutti noi di fedeltà all’Africa per tutta una vita e di voler continuare nella frontiera della missione nonostante la tua non più verde età”.

Giunto a destinazione, P. Igino scrisse: “Confesso che il mal del Sud Sudan mi ha preso in pieno e, a dire la verità, non ho preso nessuna medicina per farmelo passare. Le arie del Sud, quelle di Nzara specialmente, mi hanno dato salute e vita; mi sento ringiovanito” (26 novembre 1989). Seguirono quattro anni di intenso lavoro.

Con il Sudan nel cuore
Nel 1994 la salute di P. Igino cominciò a venir meno per cui dovette rimpatriare. Venne ricoverato all’ospedale di Negrar e, appena ristabilitosi, cominciò a tartassare i superiori per poter ripartire. “Le scrivo ricordando che il mio desiderio di ritornare in Africa, nel Sud Sudan, a Nzara, non si è ancora spento. Sono pronto a partire quando i superiori decideranno, anche subito” (30 marzo 1994).

“Ammiro il tuo zelo, - rispose P. Pierli - ma il superiore di Nzara, P. Cellana, è preoccupato perché, nel caso di una tua malattia, non saprebbe come garantirti un’adeguata assistenza medica, visto che la missione è isolata. Laggiù c’è ancora la guerra e le strade sono interrotte, come ben sai. Perciò ti assegno alla provincia italiana. So bene che questa nostra decisione che tu accetti nella fede ti chiede un grosso sacrificio, cioè di lasciare l’Africa, terra da te amata e servita durante moltissimi anni. Ti siamo vicini perché tu possa vivere missionariamente questo momento. Continua a vivere con il Sudan nel cuore offrendo tutto te stesso perché il popolo sudanese trovi la pace” (6 giugno 1994).

Rientrato definitivamente in Italia, P. Igino fu assegnato alla comunità di Gozzano dove consumò gli undici anni di vita che gli restavano nel ministero sacerdotale (era affamato di ministero), nello studio dei Documenti della Chiesa e nella coltivazione dell’orto.

Come una spiga matura
Scrive P. Vittorio Farronato che fu con lui a Gozzano: “La sera stessa che il carissimo P. Igino era andato incontro al Signore, mi è arrivata la notizia in Africa. Subito sentii una botta dentro, ma se dicessi che la notizia mi ha reso ‘triste’ non direi la verità. P. Igino era entrato a far parte della mia vita e la privazione di questa presenza familiare lascia un vuoto, ma insieme c’è la fierezza di averlo conosciuto e di aver condiviso con lui gli anni di Gozzano. Il racconto degli anni del Sudan che portava dentro ci accompagnava con naturalezza perché la sua famiglia si era allargata e lui era di casa con tutti. E aveva interiorizzato la sua vita conservandola viva, come radici lunghe di una storia che i suoi occhi e le sue parole mostravano attuale. Lo ringrazio perché era contento di essere missionario, ed è sempre rimasto missionario senza mai diventare un ex, il cuore non è mai andato in pensione, e lui non è sopravvissuto a se stesso ma continuava a vivere. Lo ringrazio anche perché non era arrabbiato con l’età che lo impoveriva di forze, anche gli acciacchi sono frutti di stagione, e lui ha accettato di passare dalla vita attiva alla vita contemplativa, aumentando i rosari se diminuiva il ministero.

Continuava a leggere e a informarsi, a coltivare la mente e il cuore, prendeva nota e si preparava e, appena aveva fiato, si rendeva disponibile per il ministero. Le Suore Orsoline del Castello lo accoglievano volentieri per le celebrazioni, e sentirsi utile come prete gli dava coraggio.

Aveva quel senso dell’ironia capace di spazzar via quella malinconia che si deposita sulla vita: così riprendeva il suo cammino senza portarsi dietro nessun bagaglio di amarezze.

A Gozzano, dove la presenza degli immigrati africani si impone, voleva trovare il modo di avvicinarli, offrire accompagnamento ai cristiani, possibilità di catecumenato per chi si apriva all’esperienza cristiana; un po’ tentava lui stesso di farlo e un po’ incoraggiava chi vi si impegnava: per me erano preziose la sua presenza e la sua parola, e lui si rallegrava che a Gozzano e dintorni facevamo qualcosa di bello. In fondo gli dispiaceva partire da Gozzano; era come dire con Paolo apostolo ‘ho ammainato le vele’.

A Milano c’era posto per i malati e lui ha provato a rimandare, ma quando è stato il momento, ha subito trovato il suo luogo di apostolato tra i confratelli che ai suoi occhi erano tutti più malandati di lui: andava a trovarli, spingeva la carrozzella, ma soprattutto cercava di portare a galla quel vissuto missionario che era l’identità e la ricchezza di tutti loro. Alla fine della vita ciò che conta è avere amato. Ognuno di noi vorrebbe avere vissuto come chi, arrivato alla fine del cammino, capisce ciò che vale e ciò che finisce, e vorrebbe aver vissuto per ciò che vale e che rimane. P. Igino poteva andare incontro al Signore come chi dice: ‘Tu sai tutto, tu sai che io ti amo’, come Teresa d’Avila che diceva: ‘Io non ho paura del giudizio: il giudice è mio amico’. E alla sua famiglia voglio dire grazie perché ha dato ai Comboniani e al mondo P. Igino. Quando il grano è maturo, lo stelo può seccare e rendersi superfluo, ma il grano è stato raccolto ed è prezioso”.

“Ma i cristiani, dove sono?”
Anna, Laica Comboniana, racconta: “Dopo qualche settimana che P. Igino era Gozzano, mi ha chiesto: ‘Ma i cristiani, dove sono?’. Sono rimasta un po’ perplessa perché non capivo cosa volesse dire. Per lui, missionario d’Africa, tornare in Italia e trovare le chiese vuote, i cristiani che non si incontravano per crescere insieme nella fede, per fare comunità, è stata un’esperienza molto dolorosa. Era molto contento del nostro piccolo gruppo di Laici Comboniani, ma ci invitava a essere coinvolgenti, ad attirare altri e ci incoraggiava a fare il bene. Quando abbiamo iniziato a lavorare con gli immigrati ci ha ringraziati, perché finalmente avevamo capito qual’era lo spirito del Comboni: andare verso i più poveri ed emarginati e diventare per loro luogo di accoglienza.

Quando la sua salute è diventata più debole, quasi si infastidiva quando gli si chiedeva come stava. ‘Non riesco più a respirare bene e sono fiacco ma non conta niente, raccontami piuttosto quello che hai fatto’. Era proprio così: la sua salute, la sua vita non contavano niente, contava soprattutto il servizio reso ai fratelli nel nome di Dio”.

La testimonianza di P. Antonino Orlando
“Fummo insieme nello scolasticato di Verona, egli un anno più avanti di me. A quel tempo, anni di guerra (1939-1943), la dieta di noi giovani era insufficiente per cui alcuni si esaurirono, altri, più furbi, si risparmiavano. Nella classe del seminario (II, III, IV teologia frequentata insieme) c’era un posto in fondo, detto loggione, dove nella penombra molti studenti Comboniani dormivano durante certe lezioni. Tra questi c’era Benini che, però, riusciva bene nella scuola. Ci ritrovammo a Khartoum. P. Igino fu uno dei primi a partire per il Sudan dopo la guerra nel 1946 e fu destinato tra gli Azande dove rimase fino alla sua espulsione nel 1960. Fu, tuttavia, fortunato perché ebbe dal governo sudanese il permesso di rimanere nel Nord. Aveva imparato molto bene l’azande, un po’ di inglese e un po’ di arabo. Tuttavia, a poco a poco, migliorò e per circa 30 anni poté portare avanti un ministero intensissimo tra gli sfollati del Sudan giunti nella Capitale. Fu anche parroco per vari anni della parrocchia dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Era un missionario molto alla buona, ma di gran cuore e tutti gli volevano bene. Era un grandissimo lavoratore in un territorio alla periferia di Khartoum dove, spesso, doveva portarsi fuori per oltre una cinquantina di chilometri, fino a Gebel Aulia.

Non perse mai lo slancio missionario, tanto che, appena poté, ritornò nel 1990 tra gli Azande. Ritornato definitivamente in Italia nel 1994 fu destinato alla casa di Gozzano dove rimase per una decina d’anni, tutto dedito al ministero e al giardinaggio. Anche a Gozzano ebbi la grazia di stare con lui. È stato un vero amico sincero, accogliente con tutti, che ricordo con grande riconoscenza”.

Figlio autentico di Comboni
“P. Igino - dice P. Giuseppe Farina che è stato in missione con lui - è un missionario veramente straordinario, un figlio autentico di Comboni, ricco di zelo per l’annuncio del Vangelo ai più poveri e abbandonati. Quante volte gli ho detto di fermarsi un po’, di aspettare che le conseguenze della malaria passassero prima di impegnarsi nelle nuove visite ai villaggi, ma lui, silenzioso, continuava imperterrito come se nulla fosse e commentava: ‘Le anime ci aspettano, siamo qui per loro’. Incontrandolo a Milano poco prima della morte gli ho chiesto: ‘Cosa fai qui a Milano?’. Ed egli: ‘Mi sto preparando a contemplare per sempre il volto del Signore, e intanto passo in rassegna le persone che ho incontrato nei miei 50 anni di missione.

Le porto tutte nel cuore, come Comboni’. P. Igino è stato un missionario tutto d’un pezzo, non ammetteva mezze misure. Aveva una fede forte e trasparente, fondata sulla preghiera, sulla celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, sulla devozione alla Madonna, sul quotidiano insegnamento del catechismo per tante ore. Sono migliaia le persone di tante tribù e di tanti villaggi che ha portato al battesimo, alla Chiesa… ‘Pensa quale grazia questa notte! 320 battesimi… Tocco con mano che il Signore è con noi’. La sua predilezione erano i poveri, specie le mamme con tanti bambini, ricche solo di miseria e di fame, e inoltre i vecchi che vivevano abbandonati a se stessi a causa della guerra.

Tra i giovani da lui formati alla vita cristiana ci sono tanti sacerdoti e suore che hanno incrementato la Chiesa africana. P. Igino è stato anche l’uomo della carità che ha distribuito con le sue stesse mani. Ha curato tanti malati distribuendo le medicine e insegnando come usarle. Proprio per questo è stato richiamato più volte dalla polizia ed è stato anche processato ed espulso. La sua stanza era una farmacia, ha visitato quelli che erano nelle prigioni e ha pagato per liberare quelli che erano vittime di ingiustizie.

Appena giunto a Khartoum nel 1960, incontrò per la strada un ragazzo del Sud che, come lui, non conosceva l’arabo. Tuttavia riuscì a capire che quel ragazzo aveva lasciato la missione del Sud ed era arrivato al Nord in cerca di una scuola. ‘Vieni con me’ gli disse. E lo portò in seminario. Quel ragazzo è oggi Mons. Daniel Adwok, ausiliare dell’arcivescovo di Khartoum. Veramente di P. Igino - conclude P. Farina - si può dire con l’apostolo Paolo: ‘Ha combattuto la buona battaglia. Ha conservato e trasmesso la fede ad altri, ed ora il Signore lo ha accolto nella sua dimora’”.

Il ricordo di P. Luciano Perina
“Il ricordo di P. Igino è una cosa molto cara per quanti l’hanno conosciuto - scrive P. Perina, suo compagno a Gozzano e attuale provinciale del Sud Sudan. Mi viene da dire una frase sentimentale e, per il carissimo ricordo che ho di lui, mi permetto di scriverla: ‘Adesso coltiva i fiori che non appassiscono mai’. Come sappiamo, ai fiori dell’orto egli parlava, con parole che solo lui conosceva. Ma parlava di più alle persone che incontrava; col suo sorriso sempre giovane, che non conosceva età; con la sua parola sempre buona, che non ricordava le fatiche della vita; con quella delicatezza e quel riguardo per gli altri, di cui Dio ha riempito la sua vita.

È triste perdere un amico così caro, ma è bello ricordare la bontà che ci ha insegnato. Ha amato la vita, e Dio è stato generoso con lui. E lui, da parte sua, ci ha insegnato a conoscere e a credere nella bontà, nelle cose buone, nelle cose belle.

Apparentemente ora sembrerà che la casa di Gozzano sia diventata più vuota. Ma bisogna guardare a ciò che ognuno di noi può portare: una parola buona, un po’ di ottimismo nei confronti degli altri, considerandoli buoni (come li considera Dio), un’apertura verso gli altri, anche quando le delusioni della vita ci porterebbero a chiuderci in noi stessi. Credo che questo sia un aspetto dell’eredità che P. Igino ci lascia”.
Qualche mese prima di morire, P. Igino era andato a Milano per delle cure. Lì il Signore è venuto a prenderlo in maniera sorprendente. Possiamo dire che la sua morte è avvenuta come l’aveva immaginata e desiderata. Mentre recitava i vespri in chiesa con i confratelli, ha reclinato il capo sul banco nell’ora del tramonto ed è spirato in un ultimo atteggiamento di preghiera e di donazione di se stesso a Dio. Era pronto all’incontro col Signore. Sovente, quando era in missione e anche a Gozzano, ripeteva: “Dobbiamo essere vigilanti con la lampada accesa piena di olio e in più col vasetto di riserva. Non illudiamoci e non illudiamo gli altri”. Lui era pronto e la sua lampada brillava di vivida luce. E con la sua lampada in mano si è messo al seguito del suo Maestro e Signore.

Dopo il funerale a Milano, la salma è stata portata a Verona dove ha sostato per un giorno e una notte nella cappella Comboni e poi è stata inumata nella tomba dei Comboniani, nel cimitero cittadino.
(P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Da Mccj Bulletin n. 230 suppl. In Memoriam, aprile 2006, pp. 13-30.