Pio Santo Canova, figlio di Giuseppe e di Angela Sozzi, nacque il 22 maggio 1921 a Castione della Presolana, in provincia di Bergamo, e fu battezzato lo stesso giorno nella parrocchia della SS. Trinità, in località Dorga, dello stesso comune di Castione. Fu cresimato il 9 giugno 1929. Tra i due nomi ricevuti nel battesimo, sarà sempre conosciuto con quello di Santo.
Dopo quattro anni di scuola elementare al suo paese, entrò nel seminario diocesano di Bergamo dove frequentò la scuola media e il ginnasio. Continuò in seminario fino alla seconda liceo che concluse nel 1941 con una buona pagella e un bel “lodevole” in condotta.
Durante l’estate di quell’anno maturò la decisione di diventare missionario e, con la buona presentazione del suo parroco e le migliori informazioni del rettore del seminario di Bergamo, si mise in contatto con i Missionari Comboniani, chiedendo di entrarvi “per potersi preparare alla conversione degli infedeli”.
Il 22 settembre 1941 entrò nel noviziato di Venegono Superiore, vestì l’abito religioso il 7 ottobre e, sotto la guida del padre maestro P. Antonio Todesco, arrivò, dopo due anni di intensa formazione, alla prima professione dei voti il 7 ottobre 1943. Leggiamo il giudizio del padre maestro: “Generoso e di buona volontà. Il suo profitto fu buono e la sua buona volontà fu sempre in aumento. È attaccato alle Regole e alla vocazione; ama la preghiera e il sacrificio. Come carattere è un tipo allegro, socievole, adattabile, sincero e molto buono”. Nella domanda per l’ammissione ai voti, Santo dice: “In questi due anni di noviziato il Sacro Cuore mi ha mostrato la vetta della perfezione su cui voglio salire e mi ha indicato i mezzi che devo usare per raggiungerla….”.
Ripresi gli studi di filosofia e teologia a Rebbio di Como e a Verona, dove emise la professione perpetua il 7 ottobre 1946, fu ordinato sacerdote il 31 maggio 1947 per l’imposizione delle mani del vescovo di Verona, Mons. Girolamo Cardinale. I suoi sentimenti nel corso della formazione furono sempre orientati alla perfezione religiosa. “In questo tempo mi sono sempre trovato contento della mia vocazione datami dal Signore, solo ho constatato quanto ne sia indegno per la mia incorrispondenza… Prometto di praticare ciò che ho promesso… Il Signore saprà fare qualcosa anche con uno strumento inadatto come me…”.
Nell’esame per il sacerdozio i superiori lo giudicarono: “Giovane di buona volontà, di sentita pietà e docile. I suoi costumi furono sempre illibati e la salute fisica e psichica ottime”.
Da sacerdote novello, la prima destinazione fu Venegono Superiore come economo della comunità per quasi tre anni, fino al febbraio 1950, quando fu assegnato alla missione del Mozambico, previo studio della lingua portoghese che imparò in Portogallo presso i Missionari Comboniani di Viseu.
In Mozambico
Partì finalmente per il Mozambico con il terzo gruppo di Missionari Comboniani che arrivavano nel territorio missionario, loro affidato, della diocesi di Nampula. Lì, fin dal 1946, si trovava già P. Giuseppe Zambonardi, rappresentante del Superiore Generale. Al suo arrivo, il 22 gennaio 1951, P. Santo fu assegnato a Mossuril, una delle più antiche missioni del Mozambico con quasi 500 anni di fondazione, dove superiore e arciprete era lo stesso P. Zambonardi. P. Santo lavorò in questa missione, dedicata alla Madonna Immacolata, come vicario cooperatore, per circa tre anni. Il suo primo impegno fu quello di imparare la lingua del posto, il makùa.
All’inizio del 1954, troviamo P. Santo come superiore della missione di Carapira e Matibane fino al 1957. Dal 1958 al 1962 fu il responsabile della parrocchia di Cabaceira e Matibane. Negli anni 1963-1968 lavorò come cooperatore a Lurio. Poi, tornò nuovamente a Matibane per due anni, fino al 1970, anno in cui poté trascorrere un periodo di vacanza in Italia, partecipando anche ad un corso di aggiornamento, molto opportuno per prepararsi agli anni difficili che lo attendevano.
Nella guerra
Tornato in Mozambico per altri cinque anni (1971-1976), lavorò a Lurio. Erano anni di grande tensione politico-religiosa, di scontri armati fra i combattenti del Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico) e l’esercito governativo coloniale del Portogallo. Erano anche gli anni dell’imperativo di coscienza (1974) con il quale il gruppo dei Comboniani in Mozambico affrontò il periodo che precedette l’indipendenza della nazione dal Portogallo, ottenuta nel giugno del 1975.
Nel luglio 1976 P. Santo andò a Mirrote. Risalgono a questo periodo le sue risposte, che aprono uno spiraglio sulla sua personalità, ad alcuni formulari inviati dalla sede centrale dell’Istituto dei Comboniani di Roma per alcune statistiche sul personale. In queste risposte, P. Santo si dichiarava semplicemente un “cristiano”, un “missionario stoppabuchi”, un “prete” adatto solo all’apostolato diretto. Infatti, proprio a Mirrote, sempre nella diocesi di Nampula, si fece carico di una missione con oltre 43.000 abitanti, dei quali solo 6.000 erano cattolici, sparsi in oltre 40 cappelle. P. Santo vi lavorò con l’aiuto di un Fratello Comboniano e tre suore.
Nel 1980 lo troviamo a Memba come vicario cooperatore nella parrocchia “Sacra Famiglia” con una popolazione di 52.000 persone, di cui solo 7.500 erano cattolici, mentre 37 mila erano musulmani. Il parroco era un Comboniano portoghese con il quale P. Santo collaborò, insieme a tre religiose e una trentina di catechisti per altrettanti centri di preghiera nel bosco. A Memba c’era anche un ospedale dove spesso era richiesta l’assistenza dei missionari. P. Santo vi andava spesso e volentieri. Diceva che l’ospedale era il posto della caccia grossa.
Dal 1982 al 1992, insieme ad un altro Comboniano, fu incaricato della parrocchia “Maria Assunta” di Necuburi, di recente fondazione.
Pagare col sangue
Anche per P. Santo giunse il momento di pagare col sangue il prezzo della sua presenza missionaria accanto alla gente, divisa tra i due fronti: il Frelimo, ormai al governo, e la Renamo (Resistenza Nazionale del Mozambico). In mezzo, appunto, c’era la gente che veniva fatta oggetto di contesa, catturata, liberata e catturata di nuovo, punita e spesso uccisa durante più di 15 anni di guerra civile. Anche i cristiani erano divisi tra due fronti. La Chiesa, missionari compresi, era vittima e martire di entrambe le parti che si combattevano.
Il 5 settembre 1984, mentre trasportava una donna in gravi condizioni da Mecuburi all’ospedale di Nampula, P. Santo cadde in un’imboscata della Renamo, almeno così si suppose dato che, a quel tempo, non si sapeva da quale parte arrivassero le pallottole. Fu ferito ad un piede e alla regione lombare. Perse molto sangue, ma riuscì a salvarsi grazie alle cure ricevute all’ospedale di Nampula. Tornato a casa ebbe la consolazione di sentire dei musulmani che pregavano Allah per la sua salvezza. In un altro attentato del 1987 fu ferito gravemente ad una mano e dovette farsi curare a Verona, dove i medici rimasero sorpresi del suo coraggio nel sopportare il dolore.
Dal 1992 al 2001 P. Santo lavorò nella missione di Alua che serve anche la parrocchia di Lurio, nel territorio che ora appartiene alla nuova diocesi di Nacala, creata nel 1991. Ormai non guidava più l’automobile, ma visitava ugualmente le cappelle più vicine al centro. Ha speso gli ultimi anni nella missione di Carapira e poi di Namapa.
Gli ultimi giorni
Così P. Emilio Franzolin racconta gli ultimi momenti di P. Santo: “A Nampula, nella casa di accoglienza di Mwaviri, era l’alba della domenica 12 marzo quando P. Santo ci ha lasciato. Malaria e qualche disfunzione cardiaca sono state le cause del suo decesso. Volitivo com’era, pensava di farcela ancora una volta, tant’è vero che il sabato aveva preso le refezioni con la comunità. Era stanco e pensava di ritornare in Italia temendo di essere di disturbo ai confratelli, invece è andato a prendere la ricompensa di 55 anni di missione.
È morto riconciliato con tutti. P. Arlindo Ferreira Pinto e P. José Carlos Mendes da Costa, che l’anno assistito, parlano di una litania nella quale P. Santo ricordava tutti e pregava per tutti a cominciare dai suoi confratelli di comunità, P. Firmino Cusini e P. Antonio Campanini. Pregava per gli animatori di comunità e per i catechisti.
Era una colonna storica della fondazione comboniana in Mozambico, dove era arrivato nel 1951. A quei tempi i missionari, per fondare una missione, portavano sulle spalle gli arnesi da lavoro, raggiungevano il posto stabilito, sempre vicino ad una fonte d’acqua, e cominciavano a disboscare, a pulire il terreno dai sassi e a tracciare le fondamenta dei futuri fabbricati. Innalzavano la chiesa, le scuole, le officine e l’ambulatorio. P. Santo è passato in varie missioni; famosa è rimasta quella di Lurio, cresciuta poco a poco tra mille difficoltà.
Durante la guerra rimase fermo al suo posto. In quel periodo soffrì molto e fu ferito due volte mentre esercitava la carità verso i poveri e quando, per stare accanto alle persone, visitava le comunità cristiane. Nel suo lavoro apostolico era metodico e generoso. Continuò a visitare le comunità del bosco fino all’ultima settimana di vita.
Lo chiamavamo ‘il cinghiale del bosco’ e lui era contento. Voleva un gran bene alla gente, anche a quella di altre religioni. Nel 2005 venne decorato dal Presidente della Repubblica Italiana, Ciampi, come italiano esemplare. In occasione dei suoi 80 anni di vita e cinquanta di vita missionaria aveva ricevuto un riconoscimento anche dal Papa. Sono medaglie ben meritate. Per noi missionari rimarrà il simbolo del missionario autentico che, per amore di Cristo, spende tutto se stesso per la salvezza del mondo”.
Cacciatore di anime e di gazzelle
P. Giuseppe Brunelli nota che P. Santo “se n’è andato di mattina all’alba, come era solito fare quando partiva per il suo giro missionario. Tipo di missionario ormai in estinzione, grande cacciatore di anime ma anche di gazzelle e facoceri. ‘Ti porto io ad Alua’ mi disse appena giunto in Mozambico 34 anni fa. Partimmo all’alba e fu un viaggio indimenticabile durante il quale trovammo tanta gente e tante situazioni umane, e P. Santo aveva una parola per tutti e tutti rimanevano contenti. Aveva mandato avanti alcuni cacciatori per prendere selvaggina per i ragazzi della scuola di Alua. ‘Ricordati che i ragazzi devono mangiare, altrimenti è inutile riunirli in missione per farli studiare’. Questa frase mi suona ancora nelle orecchie.
Dopo tante peripezie e strade impossibili arrivammo nella savana e nel posto stabilito trovammo alcuni cacciatori che avevano squartato due enormi impala. Si vedevano più mosche che carne ma a queste cose, qui, non ci si fa caso. Caricammo tutto, insieme alle mie valigie e via. Arrivammo alla missione di Alua verso il tramonto e i ragazzi sentirono subito l’odore della carne “matura”, come la chiamavano quando già stava invecchiando, ma fu una festa.
Incontrai ancora P. Santo nel 1978, il terzo anno d’indipendenza del Mozambico. Come responsabile della scuola di Nampula fui chiamato dal commissario politico del Frelimo. ‘Padre, deve trovare carne per i nostri ragazzi per fare una bella festa: è il terzo anno dell’indipendenza. Vi diamo armi e munizioni. Trovate selvaggina!’. ‘Certo – risposi – i ragazzi devono mangiare!’. Mandai a chiamare P. Santo da Mirrote. Ma appena vide i fucili tutti scassati si mise a ridere, non risparmiando frasi ironiche sulla situazione. Prima di arrivare al posto dei facoceri, ci fermammo nei pressi di un baobab. ‘Cosa fai Canova?’. Senza rispondere provò il fucile contro il baobab e mancò il bersaglio. Dopo vari aggiustamenti col cacciavite e il martello e qualche imprecazione tipica, l’arma sembrava utilizzabile. Arrivammo al posto dei facoceri. Gli spari iniziarono. Anche coi fucili sgangherati Canova riuscì ad abbattere quattro facoceri e due gazzelle. E per i ragazzi fu di nuovo festa.
Per giustificarsi di qualche colpo andato a vuoto, mi raccontò di quando aveva dovuto rifugiarsi sotto la jeep per salvarsi da un attacco della Renamo, ma fu comunque colpito da uno sparo che gli rovinò una mano, quella del cacciatore”.
Bisogna aggiungere che P. Santo fece della caccia uno strumento per raggranellare qualche soldo per le sue opere. In una lettera scritta da San Pedro do Lurio nel 1968 al Superiore Generale, leggiamo: “La chiesa va avanti poco a poco, ha bisogno di spintarelle per progredire e per questo ci diamo da fare a spese delle bestie della selva. Visto che lei aveva espresso il desiderio di avere una pelle di leone, e dato che la fortuna mi ha assistito sfacciatamente, gliene mando una bellissima… Spero di poterle mandare qualche altra pelle a condizione che le bestie si rassegnino a perderla. Lei, poi, da buon alchimista, trasformi la pelle in un pezzo di chiesa”. Il Superiore Generale, ringraziandolo e mandandogli una buona offerta, gli raccomandava prudenza con le bestie.
“Trovai ancora P. Santo nel 1996, ma stava male – prosegue P. Brunelli. Era caduto da una scala riportando una grave lesione al cranio. Lo accompagnai a Johannesburg e fu un’avventura farlo salire sulla scaletta dell’aereo. Non riusciva a fare nemmeno un gradino. Lo portai a spalle.
Si rimise bene non solo per le medicine e il buon trattamento, ma anche per l’uva che gli portavo. Finita la cura, il medico gli raccomandò di prendere certe pillole ma lui, imperterrito, rispose che non ne sentiva il bisogno. ‘Allora, padre, se vuol vivere ancora un po’, non si metta più su scale pericolose’. ‘Dottore, le assicuro che seguirò questo suo consiglio’”.
Le testimonianze dei confratelli
Tutte le testimonianze dei superiori e dei suoi compagni di missione sono concordi nel riconoscere i molti meriti di P. Santo. “Una dedizione totale alla missione, un uomo consacrato a tempo pieno all’evangelizzazione, un missionario classico, un apostolo della prima ora nel bosco o, come egli stesso amava definirsi, un javali do mato (cinghiale del bosco)”.
“Non è stato un gran costruttore con i mattoni, ma un missionario della gente, occupato nelle conversioni, fedele al catecumenato dei ragazzi e degli adulti”.
“Ha spinto molto perché ci fossero gli edifici per le scuole elementari e per assicurare l’insegnamento in ogni villaggio”.
“Si è sempre preoccupato da vicino della salute della gente, aiutando in quanto poteva, soprattutto nelle emergenze”.
“Il suo modo di trattare la gente poteva alle volte sembrare duro, rude, non certo per cattivo cuore, ma piuttosto per il suo temperamento e le sue origini montanare”.
Un suo provinciale in Mozambico conclude: “Ho sempre ammirato P. Santo per il suo coraggio nell’affrontare situazioni difficili e nel vivere con fedeltà la Missione”.
P. Santo è deceduto a Nampula il 12 marzo 2006, all’età di 85 anni con 55 anni di missione. Fr. Pietro Martin scrive: “P. Santo è stato per tutti noi un esempio autentico di Missionario Comboniano, un servitore della Chiesa locale e del popolo mozambicano. Ha amato gioiosamente la sua vocazione cristiana, sacerdotale e comboniana, e l’ha vissuta con entusiasmo ed eroismo. È stato un vero uomo apostolico secondo il carisma di Comboni. Ora ha terminato di scrivere la pagina della sua vita, della sua fede, della sua dedizione missionaria. Ci ha lasciato in eredità la gioia di appartenere alla famiglia comboniana, il suo amore per i più poveri ed abbandonati, il coraggio di lottare per il bene comune e di essere non solo uomini di azione ma anche di contemplazione”.
La provincia del Mozambico e l’Istituto comboniano hanno in paradiso, insieme a Comboni e ad una grande schiera di Comboniani, un nuovo intercessore presso il Padre. Da Nampula la salma è stata portata a Carapira dove il 13 marzo 2006 si sono svolti i funerali in un clima di festa. È stato sepolto a Carapira, accanto ad altri nostri confratelli e alle Suore Missionarie Comboniane.
(P. Lorenzo Gaiga, mccj)
Da Mccj Bulletin n. 232 suppl. In Memoriam, ottobre 2006, pp. 18-25