In Pace Christi

Rinaldi Ceroni Francesco

Rinaldi Ceroni Francesco
Data di nascita : 13/10/1924
Luogo di nascita : Casola Valsenio
Voti temporanei : 07/10/1942
Voti perpetui : 07/10/1947
Data ordinazione : 06/06/1948
Data decesso : 22/03/2006
Luogo decesso : Verona, Italia

P. Francesco Rinaldi Ceroni proveniva da una famiglia di agricoltori benestanti, ma provati dalla sofferenza. Mamma Luigia Fabbri, aveva sposato Francesco che gli aveva dato quattro figli di cui uno, Alberto, morì in giovane età. Ma anche il marito lasciò questa terra molto giovane, stroncato dalla “spagnola” che imperversò dopo la prima guerra mondiale. Luigia, allora, si risposò col fratello del defunto marito, Antonio, con il quale ebbe tre figli: Franca, Francesco e Antonio. Gli ultimi due diventeranno Missionari Comboniani.

La pratica della religione era di casa in famiglia. Papà Antonio, per esempio, non mancava mai alla Messa neanche nei giorni feriali e non passava in prossimità di una chiesa senza fare una visita al Santissimo. Il rosario era d’obbligo anche durante la stagione dei grandi lavori in campagna e non si iniziava né si terminava la giornata senza la recita delle preghiere. Il Signore benedì quella famiglia. Basti pensare che ben sei, tra fratelli e cugini, abbracciarono la via del sacerdozio.

Dopo le elementari, esattamente il 1° ottobre 1935, Francesco entrò nel seminario di Imola con il proposito di diventare sacerdote. Nel cuore, però, sentiva già la vocazione missionaria. Infatti le sue letture preferite erano le riviste missionarie, in particolare “La Nigrizia” e la vita di Comboni, di P. Giuseppe Beduschi e di altri missionari.

Mentre Francesco frequentava le scuole medie (aveva 14 anni), P. Saturno Stefano Santandrea andò a visitare il seminario di Imola e parlò agli alunni della vocazione missionaria. Dopo la conferenza, il giovane Francesco gli si avvicinò dicendo che sarebbe diventato missionario. P. Santandrea gli rispose: “Se Dio vuole, allora ci vedremo in Africa”.

Il 16 maggio 1940 Francesco scrisse dal seminario di Imola al Superiore Generale dei Comboniani una lettera che esprime molto bene la sua personalità e l’esigenza di mettere le cose in chiaro: “Io, alunno di quinta ginnasiale del seminario diocesano di Imola, fin dalla seconda ginnasiale mi sento portato alle Missioni. Ho superato, due mesi or sono, l’esame di ammissione al liceo nel seminario regionale di Bologna. Desidererei, perciò, sapere da lei se debbo venire nell’Istituto per il noviziato subito o se devo aspettare dopo il liceo. Ora le esporrò le ragioni che sono favorevoli alla mia entrata adesso e quelle favorevoli all’entrata dopo il liceo. Io desidererei venire adesso perché temo che, aspettando, la mia vocazione si affievolisca. Questo è anche il consiglio del mio direttore spirituale perché, come mi ha detto, mi vede già maturo per una decisione così importante.

I miei genitori, in particolare la mamma, mi hanno detto: ‘Noi ci riconosciamo indegni di sì alta e nobile vocazione e ringraziamo il Signore che ti abbia ispirato un sì grande pensiero, però avremmo piacere che tu facessi il liceo a Bologna per comprendere sempre meglio la tua vocazione e specialmente perché, essendo debole e anemico, ti potresti irrobustire. Tuttavia ti lasciamo libero di fare ciò che vuoi’.

Anche il medico, che di religione è molto digiuno, mi ha detto che sono anemico e che ho bisogno di aria e di cibo, ma sulla mia entrata in Noviziato non si è pronunciato…”.

Novizio impegnato
Nel 1940 Francesco entrò nel noviziato di Firenze dove era padre maestro P. Stefano Patroni. S’impegnò nel cammino di formazione in maniera quasi esagerata, ma ciò corrispondeva al suo carattere che lo portava ad una donazione al Signore in maniera radicale. P. Patroni scrisse di lui: “Carattere troppo minuzioso nelle sue cose per cui appare pedante e meticoloso. È schietto con i superiori e si attiene ai consigli che riceve. Mostra molta buona volontà nel suo lavoro spirituale e combatte i suoi difetti. Osserva bene le regole e mette impegno nelle cose spirituali”.

Ai voti (7 ottobre 1942) gli fu consegnato il crocifisso di legno che si usava allora. Egli lo conservò come una preziosa reliquia, anche se in tanti anni di missione si ruppe più volte, tanto che lo teneva insieme mediante un filo di ferro. Alla sua morte lo volle nella bara.

Durante il liceo a Verona conseguì l’attestato di Infermiere e Aiutante di Sanità nell’Esercito Italiano che gli sarà utile in missione quando dovrà medicare tante piaghe ai lebbrosi. P. Agostino Capovilla diede di lui questo giudizio: “Capacità discreta, diligente ma un po’ confusionario, costumi illibati, pietà sentita, docile e di grande zelo per la salvezza delle anime”.

Nelle domande di rinnovazione dei santi voti, Francesco premetteva sempre il motto comboniano “o Nigrizia o Morte” e poi esprimeva sentimenti nobilissimi… “Il sacerdozio è sempre stato per me la meta fulgida a cui fin dai miei primi anni di seminario ho anelato con tutto il cuore, e questo desiderio è cresciuto in me specialmente in questi ultimi anni di teologia… Quanto più gli anni sono trascorsi, tanto più è cresciuto l’amore e la stima per questa grande vocazione e la brama di appartenere per sempre e interamente al Cuore di Gesù… Se grande è la mia debolezza, più grande è la potenza e la bontà di Maria e col suo aiuto spero di corrispondere a questa mia grande vocazione… Confido nel Signore che mi ha chiamato e nella Madonna che è la madre del mio sacerdozio. Ad essi ho affidato fin dall’inizio la mia vocazione sacerdotale e missionaria”.

Sacerdote
Il 6 giugno 1948 fu ordinato sacerdote a Verona, nella cappella di Casa Madre, per le mani di Mons. Girolamo Cardinale, vescovo di Verona. Sull’immaginetta-ricordo scrisse il suo programma: “Anime, non onori; anime, non amori; anime, non denari”. E poi si firmò: “P. Francesco Rinaldi Ceroni figlio del Sacro Cuore e Missionario Comboniano”. Nome inusuale quest’ultimo, a quel tempo, ma P. Francesco sentiva in sommo grado il suo essere figlio di Comboni che considerava già come un grande santo.

Sacerdote novello fu inviato nel seminario comboniano di Pesaro come assistente dei ragazzi che si preparavano al sacerdozio. Vi rimase poco più di un mese perché già nell’agosto del 1948 ricevette l’ordine di andare in Libano per lo studio dell’arabo, in vista della missione in Sudan meridionale.

Nel gennaio del 1950 era a Wau dove incontrò P. Santandrea. Il suo primo ministero fu quello di secondo vicario della cattedrale di Wau e di segretario di Mons. Edoardo Mason. Contemporaneamente studiò l’inglese e si diede anima e corpo al ministero tra la gente. Era famoso per la sua capacità di combinare i matrimoni e di aggiustare quelli che minacciavano di disgregarsi, tanto che fu chiamato “abuna matrimonio”. Alla domanda di cosa gli piacesse fare in missione, P. Francesco rispose: “Il pastore d’anime in mezzo alla gente”, incurante della fatica, della fame e della sete, tanto che il suo provinciale scrisse: “Ottimo religioso e missionario zelante. Strapazza un po’ troppo il fisico già debole”.

Dobbiamo dire che questo primo periodo sudanese fu il più bello, il più gratificante della sua vita. Lo porterà sempre nel cuore e sognerà di potervi ritornare.

Espulso tra i primi
Nel 1956, subito dopo l’indipendenza del Sudan, fu uno dei primi ad essere espulsi, esattamente il quinto. Il suo zelo e la sua capacità di influire sui giovani davano fastidio alle autorità islamiche. La partenza improvvisa cui fu costretto fu un colpo mortale per lui, “una condanna a morte”, come dirà. Ottenne, tuttavia, di potersi fermare al Nord, a El Nahud, ma trovandosi in un ambiente musulmano, non poté esercitare il ministero come desiderava e questo lo mortificò grandemente. P. Francesco, infatti, nutriva un’autentica passione per la missione. Non solo amore, ma vera passione, e questa passione lo portava ad essere estremamente zelante, a volte anche troppo, con qualche esagerazione. Safari, visite ai cristiani, catechesi, sacramenti, scuola… lo tenevano occupato dalla mattina alla sera. A El Nahud, quindi, questa sua passione veniva mortificata così, dopo un anno, chiese di cambiare posto.

Dal 1957 al 1959 fu a Rebbio come incaricato delle giornate missionarie ed economo. Ma la voglia di missione lo divorava, per cui nel 1959 chiese di andare in Brasile Sud, diocesi di São Mateus, anche se il suo cuore era sempre in Africa, nella missione di primo annuncio. Fu parroco nelle missioni di Guararema (1959-1964) e Agua Doce (1964-1967). Si distinse per il ministero che esercitava visitando i villaggi, insegnando il catechismo ai giovani, assistendo gli anziani e costruendo chiese. “La mia parrocchia di Guararema conta 33 cappelle, sette delle quali sono più grandi della chiesa di Casola Valsenio, con tante altre in costruzione (ne ricordo appena 12) e non è facile essere presente dappertutto”. Il Superiore Generale, pur lodandolo per il suo zelo, gli raccomandò “di essere prudente anche nel lavoro apostolico. Il Cuore di Gesù vuole che noi lavoriamo, ma non pretende l’impossibile”.

Intanto i Comboniani avevano fondato altre missioni in vari paesi dell’Africa (Congo, Burundi, Togo, Centrafrica…) e a P. Francesco non parve vero che si aprissero altre vie per l’Africa.

Apostolo dei rifugiati
Così, nel 1968, lo troviamo in Congo nella missione di Ndedu dove rimase fino al 1972. Il suo lavoro con i rifugiati fu enorme. Si trattava di organizzare i campi di raccolta, procurare cibo e medicine, assicurare l’assistenza religiosa. Le lettere che P. Francesco scrisse in quel periodo coinvolgendo i vescovi africani e anche la Chiesa italiana, i superiori e l’ONU, occupano una cartella di notevole spessore. Da esse traspare un amore grandissimo per questa povera gente. “Nella parrocchia di Ndedu, quindi in diocesi di Niangara, ce ne sono 20.000 in due campi a circa 30 km dalla missione; gli altri 30.000 resteranno nella diocesi di Duruma, quindi il personale di assistenza, sia Comboniani che preti sudanesi, dovrà essere distribuito equamente. La gente soffre, ha bisogno di tutto e non ha niente, e noi soffriamo con essa”. Lavorò con dedizione totale fino a logorarsi la salute. Scrive P. Roberto Ardini: “P. Francesco è sempre stato un uomo di assalto, non temeva di prenotarsi per i posti più caldi. Là dove il grido sofferente del popolo saliva con più insistenza verso il cielo, lui c’era. E da Verona mi ha scritto: ‘Ora devo imparare a fare il missionario nella sofferenza, nell’incontro ormai vicino con il Padre che mi ha amato e mi ha chiamato ad essere missionario fino in fondo’”.

Dopo una tappa in Italia, precisamente a Rebbio dal 1972 al 1974, tornò definitivamente in Congo nella zona degli Azande, nelle diocesi di Dungu e più tardi in quella di Isiro, missione di Rungu. Più volte, trovandosi in prossimità del confine tra Congo e Sudan, inforcava la bicicletta e raggiungeva Nzara (in Sudan) per dare una mano, specie in occasione delle grandi festività dell’anno, ai confratelli di quella missione. Era lo zelo che lo spingeva ma anche una grande passione per il Sudan.

Stando in Congo spinse il suo raggio d’azione a Gombari, Duru, Bomokandi. Rimase in missione fino al 2005 per un totale, tra Brasile e Africa, di 58 anni. Quando compì 80 anni, temendo di essere di intralcio agli altri confratelli a causa dell’età, scrisse ad un confratello chiedendo se doveva lasciare la missione. Il confratello gli rispose: “Lascia fare alla Provvidenza e intanto lavora; penserà il Signore, attraverso la malattia, a farti capire quando sarà il momento di ritirarti”. Questo momento arrivò il 21 giugno 2005, quando dovette partire per l’Italia per sospetto tumore al pancreas.

Tutto d’un pezzo
Uomo di profonda preghiera, amante anche delle formule, era fedele all’orazione personale e comunitaria. Nella sua missione, i tre membri della comunità erano abituati ad alzarsi alle 5.30 per poter premettere un’ora di meditazione alla Messa. Ebbene, concordemente stabilirono di alzarsi alle 5.00 in modo da dedicare mezz’ora in più alla preghiera, prima di iniziare il lavoro. Un punto forte per P. Francesco fu l’obbedienza, la volontà di Dio, che non escludeva delle lunghe discussioni con i superiori in cui non si arrendeva alla prima obiezione, ma voleva arrivare al fondo delle cose; alla fine, però, l’obbedienza aveva l’ultima parola.

Con il suo carattere da romagnolo, e lo diceva scusandosi di essere a volte troppo impetuoso, prendeva di petto le difficoltà e, pur essendo uomo di grande obbedienza, non taceva di fronte alle cose che, secondo lui, non andavano. Mentre era in Brasile, si lamentò con i superiori perché non si poteva vivere la vita di comunità come prescriveva la Regola di Vita: “Qui si lavora sempre da soli perché mentre uno è fuori, l’altro resta in casa, e quando l’altro ritorna, parte quello che era rimasto a casa. Ci fosse qualche fratello, si potrebbe dedicare alle costruzioni consentendo ai sacerdoti di attendere al ministero. Sono soddisfatto del Brasile, ma quando penso al nostro caro Sudan mi viene da piangere”.

Nel 1968 difese i confratelli che studiavano francese a Parigi e che erano malamente ospitati presso i Lazzaristi. Scrisse ai superiori facendo presente che: “Questi confratelli sono senza denaro per pagare la pensione. Tre di loro volevano andare a lavare le stoviglie nei cabaret di Parigi dalle 11 di notte alle 4 del mattino. Non si possono trattare così i giovani Padri e poi ci si lamenta se qualcuno protesta, contesta o fa peggio. Io ho dato loro i soldi che avevo raccolto per la missione del Congo”.

Un giorno, trovandosi a San Giovanni in Laterano, ascoltò una conferenza tenuta da un illustre monsignore, nella quale gli parve che gli Istituti missionari fossero messi in second’ordine nell’attività missionaria della Chiesa. Dopo la conferenza, affrontò il conferenziere esprimendo il suo disappunto. Non soddisfatto della risposta, gli scrisse una lettera, ma non essendo ancora soddisfatto, scrisse al Cardinale Ruini il quale gli rispose “che la CEI e i Vescovi italiani non ritengono affatto che gli Istituti Missionari e le Pontificie Opere Missionarie siano superati”.

Quando sorse la questione della “pittura blasfema” nei confronti di Maometto, che si trova a San Petronio di Bologna, scrisse al cardinale dicendo che con un colpo di pennello si poteva nascondere quello sfregio e così non urtare la sensibilità dei nostri fratelli musulmani.

Ebbe molto a soffrire per il suo carattere forte e anche a causa dei guerriglieri: “In un agguato mi hanno preso la jeep, nel secondo la moto e nel terzo la bicicletta. Mi hanno preso tutto e mi hanno puntato il fucile addosso. Io mostravo loro il mio crocifisso e mi lasciavano andare”.

Ma ebbe anche giornate di grande gioia. Ricordiamo quando una giovane Missionaria Comboniana che emise i primi voti nel settembre 2005 venne a trovarlo a Verona per ringraziarlo della vocazione. Federica era una bambina di 8 anni quando aveva ascoltato una predica di P. Francesco sulla bellezza della vocazione missionaria e, in cuor suo, aveva deciso di farsi Comboniana. Quando il suo sogno si realizzò, venne a dire il suo grazie a P. Francesco che quel giorno fu particolarmente contento perché c’era chi continuava la sua vocazione.

Nella sua vita e nelle sue lettere sono infiniti i casi in cui appare il sacro fuoco dello zelo missionario che lo dominava, tutto per la gloria di Dio e il bene delle anime. Il suo provinciale, P. Fermo Bernasconi, scrive: “P. Francesco ha sicuramente amato la gente e ha donato per essa tutto ciò che possedeva. Non ha mai accettato che si potesse dire: ‘Noi non c’entriamo’, perché si sentiva parte integrante del popolo”.

Il sacerdote congolese Francesco Gbakumoke, battezzato e formato da P. Francesco, ha mandato sette pagine manoscritte per dire come P. Francesco fosse un uomo di intensa preghiera comunitaria e personale. Era lui a tenere la chiave della chiesa perché era il primo ad arrivarvi e l’ultimo a lasciarla, curava i catechisti e seguiva quelli che erano avviati al sacerdozio. Amava il lavoro manuale e si teneva informato sul cammino della Chiesa ascoltando la radio in italiano, in francese, in inglese e in arabo e leggendo tutti i documenti che uscivano dal Vaticano. Con i poveri e i bisognosi si era fatto voce di chi non ha voce. Amava la catechesi e non perdeva alcuna occasione per spiegare la Parola di Dio a tutti, in particolare ai giovani. Fu un esempio luminoso di sacerdote donato totalmente a Dio e ai fratelli. Certamente P. Francesco resterà nella mente e nel cuore di tutti coloro che l’hanno conosciuto e che hanno attinto dalla sua santità.

Scrive Fr. Duilio Plazzotta
“Negli ultimi tempi a Rungu P. Francesco sentiva che la sua ora era ormai prossima e, riferendosi al salmo 90, diceva: ‘Gli anni della nostra vita sono 70, 80 per i più robusti. Ho compiuto gli ottant’anni, quindi bisogna che sia pronto per la chiamata del Signore. Il mio tempo è compiuto’. Spesso ha manifestato alla gente il desiderio di morire qui in Africa, magari di essere sepolto accanto a tatà Tshembete, il primo cristiano e catechista di Rungu. P. Francesco era un uomo dalla fede forte, tutto d’un pezzo, senza tentennamenti o dubbi. Viveva immerso in Dio. Al mattino era sempre in chiesa prestissimo per pregare e meditare. Si immedesimava nella preghiera dei salmi, vivendoli parola per parola, e nella celebrazione eucaristica, durante la consacrazione, si commoveva sempre davanti al sacrificio di Gesù, versando lacrime. Viveva il suo sacerdozio con entusiasmo e sempre proteso all'apostolato, all’annuncio della parola fatto con forza ed entusiasmo.

In chiesa non aveva bisogno di altoparlanti. La gente sapeva che poteva trovarlo sempre disponibile per il sacramento della riconciliazione e del perdono, nel suo angolo in fondo alla chiesa. Ha sempre avuto un’attenzione particolare e predilezione per i poveri e gli ammalati. Quando sapeva che nel villaggio qualcuno era ammalato, inforcava la bicicletta e correva a fargli visita, a confortarlo con la Parola e i sacramenti e ad aiutarlo concretamente. La sua presenza in ospedale accanto a Gesù sofferente nelle persone era costante e la sua disponibilità totale; non conosceva riposo. Anche se lo chiamavano père Nkoko, (P. Nonno in senso affettuoso) in segno di rispetto per la sua età, è stato per tutti un padre e così è stato sentito, in particolare, dai più poveri e dagli ammalati. Aveva una grande attenzione anche per i giovani, soprattutto per i ragazzi che andavano a scuola, facendo l’insegnante di catechesi, fedelissimo a questo impegno che riteneva fondamentale per la formazione cristiana e umana dei giovani. Insegnava loro anche il lavoro concreto per il bene comune. Era un vero vulcano di iniziative e impegni, con una grinta da fare invidia ai giovani.

Molto spesso, si faceva lui stesso promotore della manutenzione delle scuole, delle strade, delle cappelle mettendosi alacremente a lavorare con carriola e badile a fianco dei giovani, tanto da meritare l’appellativo di ‘Père Office des routes’, che in Italia potremmo tradurre in ‘Padre ANAS’. Voleva che i giovani non fossero dei ngoi-ngoi (fannulloni) e che imparassero a realizzare il bene comune. Si teneva sempre molto informato sugli avvenimenti del Congo e del mondo, sul Papa e sui suoi discorsi e si faceva portavoce di tutto per la comunità, traducendo poi le sue preoccupazioni e sofferenze per il mondo nella preghiera comune e personale. Pur amando il Congo e la nostra gente ha avuto sempre un debole per il Sud Sudan, che fu la sua prima missione.

Forte era la sua devozione a Maria. In ogni grosso centro (Ndedu, Duru, Dungu, Rungu) ha lasciato una bella e grande statua di Maria, per affidare a lei la protezione della nostra gente e stimolare la devozione verso di lei, Madre di tutti. La statua lasciata a Ndedu, l’aveva ricevuta in dono da P. Bernardo Sartori. Prima di partire da Rungu aveva invitato tutti a coltivare la devozione a Maria con la recita del rosario nelle famiglie, come aveva sempre insegnato negli incontri delle comunità di base. Fin che ha potuto, ha visitato ogni villaggio affrontando grossi disagi nei viaggi su strade impervie e pericolose. E in ogni villaggio ha lasciato una forte testimonianza di vita.

In diversi villaggi, non potendo la gente venire al luogo del funerale, sono state fatte veglie come quella che abbiamo vissuto qui in sua memoria. E parimenti sono state celebrate S. Messe in suffragio in tutte le missioni dove P. Francesco ha lavorato”.

Vieni servo buono e fedele
Dopo aver scoperto la malattia che lo avrebbe portato alla morte, scriveva al Superiore Generale: “Oggi 28 luglio 2005 la Provvidenza di Dio mi ha fatto un regalo. Attraverso la risposta del direttore del nostro Centro Ammalati ho saputo che ho un tumore al pancreas, irreversibile. Eccomi fissata dal buon Dio l’ultima parte del mio apostolato dell’ormai lunga vita di missionario: fiat voluntas Dei”. E aggiungeva: “Rinnovo con tutta la mia fede la mia volontà decisa e irrevocabile di morire nella santa Chiesa cattolica di cui mi sono sempre sentito figlio nonostante le mie mancanze e i miei tanti peccati e di morire nella cara Congregazione dei Missionari Comboniani. E prego il Signore perché mi usi misericordia in quel giorno confidando nella materna assistenza di Maria”.

Annunciando ai confratelli la visita a Verona di sua sorella aveva detto: “Domani verrà mia sorella, dovrò farle coraggio perché è un po’ depressa per la mia prossima morte”. Carattere sempre allegro e ottimista, non ha mai conosciuto parole come pessimismo o stanchezza. Anche in punto di morte si è dimostrato sereno e contento di incontrarsi con il Signore che aveva fatto conoscere agli uomini in Africa e in Brasile. È spirato alle ore 14.22 assistito dall’infermiera Graziella a da Fr. Simone Della Monica. “In quell’ultimo istante – scrive Graziella – ci siamo dati la mano e ci siamo detti arrivederci… Mentre ti tenevo la mano hai risposto sì al mio invito a pregare, poi il tuo respiro si è fatto flebile e così ci hai lasciato”.

P. Francesco aveva preparato due libri di memorie missionarie, uno in francese per i giovani congolesi e uno in italiano, in vista di un’animazione missionaria e vocazionale. Aveva messo da parte anche i soldi per la stampa. Voleva essere missionario fino alla fine, anche dopo la morte. Speriamo che queste sue testimonianze di missione vedano la luce.

Il funerale, che cadeva proprio nel giorno dedicato ai martiri missionari, si è svolto in Casa Madre, poi la salma è stata portata nel Duomo di Imola dove, alla presenza del vescovo e di moltissimi sacerdoti e fedeli, si è tenuta una serata di preghiera. Il giorno seguente, ha avuto luogo una seconda cerimonia funebre. Entrambe le celebrazioni sono state una festa, perché tutti hanno percepito che si stava dando l’addio ad un santo. Anche in Africa, le cerimonie funebri non sono state meno solenni.

Oltre un migliaio di persone ha partecipato durante la notte alla veglia in memoria di P. Francesco, sul sagrato della chiesa, con uno stile ispirato alle veglie funebri tradizionali. P. Lorenzo Farronato ha tracciato un profilo delle tappe della vita di P. Francesco in famiglia e come Comboniano, insieme a suo fratello Antonio. Poi c’è stato un susseguirsi di ricordi, preghiere, canti e danze animati dalle differenti realtà della parrocchia, seminaristi, suore, volontari, scuole, comunità di base, e persino protestanti. Ogni gruppo aveva a disposizione tre quarti d'ora da organizzare come voleva. Molti anche i ragazzi e i bambini che hanno accompagnato la veglia per tutta la notte. È stato emozionante rivedere alcune immagini filmate di P. Francesco in mezzo ai giovani. Tutti hanno ringraziato il Signore per aver dato al Congo un missionario della levatura di P. Francesco. La veglia si è conclusa con la celebrazione eucaristica domenicale.

La sepoltura, avventa al suou paese nella tomba di famiglia, ha avuto l’accompagnamento della banda musicale e un dispiego di bandiere. P. Francesco e il fratello, P. Antonio, morto nel 1995, sono un onore per il paese, per la diocesi di Imola e rappresentano due colonne per l’Istituto comboniano, veri missionari sullo stile di Comboni. Dal cielo ci ottengano vocazioni del loro calibro.
P. Lorenzo Gaiga, mccj
Da Mccj Bulletin n. 232 suppl. In Memoriam, ottobre 2006, pp. 37-48.