Le notizie sulla vita di P. Fulvio Cristoforetti, riportate in queste pagine, sono tratte essenzialmente dall’autobiografia, scritta in occasione del suo 50° anniversario di ordinazione sacerdotale.
Primi anni
“Sono nato ad Avio (Trento) il 3 febbraio 1931. Grazie a Dio la mia è una famiglia profondamente cristiana. E questa è la base della mia vocazione. Sono un regalo di Dio ai miei genitori, assieme agli altri cinque tra fratelli e sorelle. La storia della mia famiglia meriterebbe un volume a parte. Crescere in una famiglia numerosa e soprattutto cristiana è davvero l’inizio di una vita in cui l’Autore principale resta solo Dio. Un ricordo d’infanzia è quello della maestra che ci preparava a ricevere la prima Comunione suggerendoci di chiedere a Gesù una grazia speciale. Poi ognuno di noi scolari andava alla cattedra e diceva sottovoce alla maestra la grazia che si voleva chiedere. Io ricordo di averle detto che chiedevo a Gesù di essere suo sacerdote.
A dodici anni entrai nel seminario diocesano di Trento ma, siccome c’era la guerra e a Trento era pericoloso per i bombardamenti aerei, i superiori ci mandarono in case canoniche di paesini di montagna. A me, con altri compagni toccò il paese di Drena. Solo di giovedì potevamo, durante il passeggio, giocare in un prato del castello di Drena. In terza liceo i superiori ci mandarono a Muralta, nella Scuola Apostolica dei Comboniani. Da allora è incominciato il mio desiderio di diventare missionario. Non sapevo se era una tentazione o la chiamata del Signore. Ad ogni modo continuavo in seminario. In quarta teologia, prima di essere ordinato suddiacono, mi consigliai con il mio padre spirituale che, dopo avermi ascoltato, mi disse chiaramente che la chiamata ad essere missionario era quello che il Signore voleva da me. Il permesso del Vescovo, il distacco dal seminario e dai familiari fu possibile solo per la grazia della vocazione in me e la conformità dei miei alla volontà di Dio”.
Preparazione con i Comboniani
“Nel settembre 1956 entrai nel noviziato di Gozzano ed ebbi la gioia di trovare altri giovani che venivano da vari seminari d’Italia. Quasi tutti erano stati ‘conquistati’ da Gesù attraverso la parola di P. Enrico Farè. Il nostro padre maestro era P. Pietro Rossi. Feci i primi voti il 21 giugno 1958: per me erano già perpetui.
Il 15 agosto 1958 fui ordinato suddiacono a Vilminore di Scalve (Bergamo) da Mons. Angelo Barbisotti, il vescovo comboniano di Esmeraldas. Per potermi ordinare m’incardinò nella sua diocesi. Il 24 giugno seguente fui ordinato diacono, sempre da Mons. Barbisotti: eravamo a Osio di Sotto, il suo paese natale e, quel giorno, egli salutava i suoi parrocchiani prima di ritornare in Ecuador. L’ordinazione sacerdotale venne conferita dal vescovo ausiliare di Trento, Mons. Oreste Rauzi, nella parrocchia del mio paese, il 14 settembre 1958, con grande gioia dei miei familiari e parrocchiani.
Una grazia speciale quell’anno è stata pure quella di poter partecipare al pellegrinaggio a Lourdes con tutti i miei ‘compagni’ che erano stati ordinati sacerdoti, anche se io e P. Serafino Di Sanzo eravamo ancora novizi. Al nostro ritorno dal pellegrinaggio, P. Francesco Cordero mi chiese di andare al più presto nella nostra comunità di Carraia per preparare l’ambiente in vista del nuovo anno scolastico. Passai quindi i primi tre anni con i nostri liceali che al mio arrivo erano 96 ed al terzo anno erano saliti a 127”.
Negli Stati Uniti (1961-1963)
“Nel 1961 il Superiore Generale, P. Gaetano Briani, mi diede la buona notizia della mia partenza per le missioni con queste parole: “Va’ negli Stati Uniti ad imparare l’inglese e così ti preparerai per andare in Uganda”. Partii con entusiasmo in aereo e fui accolto a New York da P. Amleto Accorsi. Dopo una breve permanenza a Montclair, andai a Cincinnati come aiutante di P. Alfredo Paolucci, parroco di St. Anthony Parish. Fui accolto con molta cordialità e ogni mattina celebravo la Messa in latino, come si usava allora. Incominciai a studiare l’inglese e ad impegnarmi in varie attività. In particolare aiutavo le famiglie di origine africana, i più poveri e gli ammalati. In quei sedici mesi ho avuto la gioia di battezzare degli adulti e di sentirmi come in una vera missione. Arrivò poi il permesso per entrare in Uganda: così lasciai la parrocchia e tornai in Italia. Dopo aver salutato i miei familiari, di passaggio a Roma potei incontrare in udienza pubblica papa Giovanni XXIII, già ammalato e debole”.
In Uganda (1963-1996)
“Giunto in Uganda, invece che a Gulu, dov’ero stato destinato inizialmente, fui inviato a Kasaala, nella diocesi di Kampala, dove in tutto rimasi per 27 anni. Fui accolto dalla comunità con molta gioia e cercai subito d’imparare la lingua e di conoscere i costumi di quel popolo. Il segreto di una buona riuscita è amare sinceramente la gente che Dio ti mette sulla strada. Amarli tutti come fossero la tua famiglia. Per me quegli anni sono stati un tempo di gioia indescrivibile, ed anche un periodo per rinsaldare la mia fede.
Nel 1983, venticinquesimo di ordinazione, venne per la festa l’arcivescovo di Kampala Emmanuel Nsubuga. Ricordo che durante la celebrazione della Messa egli lesse una lettera nella quale mi nominava decano della zona del Bulemezi e Buruli. Nonostante le mie riserve mi disse: ‘Accetta, il Signore ti aiuterà’”.
Riportiamo una testimonianza di P. Antonio La Salandra: “Ebbi modo di conoscere più a fondo P. Fulvio quando, come parroco di Kasaala, mi invitò a visitare i Logbara della sua parrocchia che formavano una nutrita colonia. I Logbara provenivano dalla mia zona del West Nile e quindi conoscevo bene la loro lingua. Mi trattenni nella missione per un mese. Apprezzai lo spirito missionario di P. Fulvio, che mi ha sempre dato l’impressione di un giovane missionario allegro ed entusiasta della missione. La parrocchia di Kasaala brulicava di catecumeni e alunni. Con soddisfazione mi conduceva a visitare la sue comunità. Aveva sviluppato il suo apostolato responsabilizzando alla partecipazione i laici e con l’introduzione delle nuove norme liturgiche, catechetiche e pastorali. Così P. Fulvio metteva in atto l’africanizzazione della missione coinvolgendo i laici ad essere corresponsabili dell’evangelizzazione e dell’organizzazione della cristianità. Tutto questo derivava da uno spirito di fede, di sacrificio e di dedizione totale di sé stesso agli altri”.
L’incidente che ha cambiato il corso della sua vita
“Dal 1980 era iniziata la guerriglia e Museveni, progressivamente, arrivò al potere come presidente nel gennaio del 1986. La nostra parrocchia era in una zona a rischio attentati e noi dovevamo informare la polizia del distretto per poterci muovere e uscire dalla missione a visitare i cristiani. Così il mattino del 28 settembre 1983, con P. Guglielmo Maffeis ci dirigemmo in macchina verso Magoma e Butiikwa. Avevamo informato i catechisti e i cristiani ed anch’essi ci avevano assicurato che la zona era sicura. Dopo la visita alla prima cappella riprendemmo la strada ma improvvisamente scoppiò il finimondo. Ero al volante della piccola Suzuki: i vetri furono infranti e io fui colpito alle gambe, al braccio destro e al sedere. Compresi che eravamo caduti in un’imboscata, quando un’altra pallottola mi colpì tagliando il cuoio capelluto. I guerriglieri, visto che avevo accelerato invece di fermarmi, aumentarono gli spari e uno di loro sparò un colpo di bazooka che colpì proprio il motore e la macchina si fermò. Con l’aiuto di P. Guglielmo, perché le mie gambe non volevano obbedire, riuscii a scendere dalla macchina che correva il pericolo di incendiarsi. Un’esperienza terribile. Soffrivo di dolori indicibili. Subito dopo vidi davanti a me alcuni giovani con i fucili spianati. Sembravano interdetti e, dopo un breve dialogo tra loro, uno mi disse: ‘Ci dispiace padre, non volevamo ammazzare te…’. E poi sparirono. P. Guglielmo, che si era buttato dietro la macchina, visto che i guerriglieri se n’erano andati venne di nuovo in mio soccorso. Eravamo lontani dall’abitato ed egli non riusciva a trascinarmi. Decise di andare a cercare aiuto. Lo supplicai: ‘Prima di andar via ascolta la mia confessione perché voglio andare diritto in paradiso…”. Quale grande cosa la fede in quei momenti: ti apre orizzonti infiniti. Ricordo di avere incominciato la mia confessione dicendo che perdonavo di cuore a quei giovani che mi avevano sparato. Prima che P. Guglielmo mi lasciasse ho aggiunto: ‘Ti prego di salutare mio papà Francesco che ha 85 anni, tutti i miei parenti, i confratelli e i cristiani: assicuro loro che in paradiso pregherò per tutti’. Quindi rimasi solo con gli insetti che a sciami erano attirati dal sangue. Cercavo di allontanarli con il solo braccio che riuscivo a muovere. In quei momenti, umanamente parlando, tragici, feci un’esperienza unica della presenza di Dio. Ancora oggi, ripensandoci, gusto quei momenti mai sperimentati prima d’allora. Ripetevo in tutte le lingue che sapevo: ‘Nelle tue mani Signore affido il mio spirito’. La presenza di Dio m’infuse tanta gioia, pace e serenità che mi sembrava di essere già in paradiso.
Dopo un po’ di tempo arrivarono i soldati dell’esercito che, temendo un nuovo attacco, incominciarono a sparare in tutte le direzioni. Poi mi soccorsero trasportandomi su un asse per 2 km fino a Magoma. Da lì continuammo il viaggio su un camion militare: la strada dissestata mi procurava indicibili sofferenze. Arrivammo al dispensario governativo di Luweero. Il medico suggerì di portarmi subito all’ospedale di Kampala ma io rifiutai e chiesi di essere portato alla mia missione di Kasaala. Da lì potei proseguire il viaggio verso l’ospedale su una nostra macchina attrezzata con alcuni materassi per attutire i sobbalzi.”
Tragico dono
“Così giungemmo al Kampala-Nsambya Hospital, gestito dalle Suore Missionarie Francescane irlandesi. Arrivammo alle 15.30 e mi avevano sparato alle 10,30. Mi portarono in una stanzetta e intravidi Sr. Cotter, primario dell’ospedale. Essa si consultò con Sr. Miriam Duggan, chirurgo, e compresero che stavo morendo dissanguato. Perciò decisero di chiedere a dei volontari di donarmi il sangue, perché in ospedale non era disponibile. Anche in questo caso ho visto la volontà di Dio e ho ringraziato più volte chi mi ha donato il sangue salvandomi la vita, sebbene mi sia stato trasmesso il virus HIV. Persi i sensi e mi svegliai a notte inoltrata sentendo che qualcuno mi toccava. Era P. Ponziano Velluto, che mi aveva già aiutato all’arrivo ed era rimasto al mio fianco per assistermi.
Nell’ospedale di Nsambya sono stato curato per quarantacinque giorni e poi dimesso quando potevo muovermi con due stampelle. Per la prima settimana d’ospedale, ogni giorno, venivo portato in sala operatoria dove un medico ugandese mi faceva l’anestesia e Sr. Miriam mi operava alle ferite e alle fratture. Ogni giorno c’erano anche le medicazioni eseguite da due infermiere: due ore di calvario per i dolori che dovevo sopportare, specialmente quando disinfettavano le ferite profonde e toccavano qualche nervo. Io stringevo i denti e guardavo il crocifisso che probabilmente era stato portato tanti anni prima dall’Irlanda e che per me era di grande conforto ed incoraggiamento. Cercavo di offrire quelle mie sofferenze unendole a quelle di Cristo per la salvezza del mondo. Secondo le migliori previsioni dei medici, potevo sopravvivere ma con tutta probabilità sarei rimasto paralizzato. Invece, dopo un periodo con le stampelle, riuscii progressivamente a muovermi ed ora riesco a camminare normalmente”.
Ecco una seconda testimonianza di P. Antonio La Salandra che andò a far visita a P. Fulvio all’ospedale: “A quei tempi non si conosceva bene l’Aids ed i suoi micidiali effetti, per cui il sangue per la trasfusione non fu esaminato. Così, dopo alcuni mesi, quando gli effetti dell’Aids si manifestarono, ci si accorse della gravità del caso. Da quel momento P. Fulvio ha vissuto – questo è il mio pensiero –, come un condannato fra la vita e la morte. Ma non si perdeva d’animo: la fiducia nella volontà di Dio l’ha sempre sostenuto. L’offerta di se stesso a Dio per gli africani è continuata fino alla morte”.
In Uganda fino al 1999
“Quando mi sono rimesso in salute sono tornato in Italia per l’operazione all’orecchio destro, danneggiato durante la sparatoria. Il Signore mi ha concesso di poter tornare in Uganda tra la mia gente a Kasaala, dove ho continuato a condividere le loro difficoltà nella difficile situazione di guerra. Nel settembre 1985 un gruppo di soldati, già sostenitori di Amin, vennero nel nostro distretto di Luweero con l’ordine preciso di sterminare la popolazione. Solo con la fuga notturna, nonostante ci fosse il coprifuoco dalle 19.00 alle 7.00 del mattino, siamo scampati alla loro furia. Dio ci ha protetti. Chiede, prima, la nostra collaborazione e dopo Lui compie i miracoli e a noi non resta che annunciare le sue meraviglie”. Durante gli anni 1990-1996, da Kasaala P. Fulvio venne assegnato alla comunità di Kampala.
In Italia
Nel 1997 P. Fulvio fu trasferito al CAA di Milano, dove rimase circa un anno, poi ad Arco, fino al 2007: “vivo nella nostra comunità di Arco, periodicamente faccio i controlli clinici e vedo come in una visione tutto il passato, ricordando l’Uganda che rimarrà per sempre nel mio cuore come mia seconda patria”.
All’inizio del 2008, P. Fulvio ritornò al CAA di Milano per il peggiorare della malattia e qui ha trascorso gli ultimi mesi della sua vita. Ascoltiamo ancora P. Antonio La Salandra: “Era domenica 14 settembre 2008. P. Giuseppe Ceriani gli portò la comunione e P. Fulvio fece il ringraziamento a voce alta. Fu come un testamento davanti a due testimoni: un ringraziamento e lode a Dio d’averlo fatto sacerdote e Missionario Comboniano per i più poveri del mondo, per cui dava la sua vita fino in fondo con gioia. Parlammo in quell’ora della missione, dell’Uganda, dei cristiani, dei catechisti così bravi e buoni. Mi confidò: ‘Senza di loro avremmo fatto quasi niente’. Mi accomiatai da lui dicendogli: ‘Ricordati di me quando sarai nella gloria eterna’. Quel letto è stato il suo altare, su cui ha offerto il suo sacrificio con quello di Cristo sul calvario. P. Fulvio si è immedesimato in Cristo sulla Croce come offerta gradita a Dio. L’Istituto e tutti i Comboniani sono orgogliosi di tale esempio in questi momenti nei quali sono importanti i testimoni autentici del Vangelo”. P. Fulvio è spirato a Milano il 19 settembre 2008. I funerali sono stati celebrati nella nostra chiesa di Milano e il giorno seguente al suo paese natale di Avio.
Potremmo concludere la sua vita con le parole che P. Fulvio stesso ha scritto parlando degli inizi della sua esistenza in una famiglia profondamente cristiana: “È l’inizio di una vita in cui l’Autore principale resta solo Dio”.
Testimonianze riportate da P. Giovanni Battista Bressani
“Ho notato in P. Fulvio un formidabile spirito di fede: tutto ciò che capitava, nel mondo o nella sua vita, per lui veniva dal buon Dio. La sua fiducia in Dio era totale, senza limiti: la comunicava nelle omelie che faceva nella nostra cappella o in altre parti. Una volta, commentando con lui la conversione di un uomo che si trovava nella sua stessa stanza all’ospedale di Milano, gli dissi ‘Vedi? se tutto ciò che ti è capitato (spari, malattie, menomazioni, ecc.) fosse servito anche solo a questa stupenda conversione, ne valeva la pena!’. E lui: ‘Si è vero, ma spero che sia servito anche per tanti altri’. A parer mio, sono state molte le persone ritornate a Dio per mezzo della sua amicizia, preghiere e sofferenze.
Aveva un modo di fare così delicato, umano, affabile, cordiale, che attirava la gente come una calamita e lui tutte indirizzava verso Dio. Basta ricordare quante persone venivano a fargli visita o gli telefonavano e le migliaia di lettere che riceveva. Naturalmente questo suo spirito di fede era alimentato continuamente dalla preghiera, alla quale era fedelissimo ogni giorno, anche quando si sentiva stanco. La sua era una preghiera semplice; ma solida e profonda.
Vorrei far notare anche la sua enorme pazienza nel sopportare le sofferenze che erano continue e spesso forti, conseguenza delle lacerazioni che aveva subito durante la sparatoria e delle conseguenze dell’Aids, contratto dalla trasfusione di sangue. Spesso ci rideva sopra e diceva, per esempio, ‘Sono mezzo sordo, ma nella risurrezione avrò un timpano perfetto’; oppure ‘l’osso (sacro) che mi manca sarà d’oro puro’. Nonostante tutto, quando è stato costretto a rientrare in Italia, si è dedicato senza risparmio all’animazione missionaria. Ha accettato anche di sottoporsi alla sperimentazione di farmaci e terapie contro l’HIV, accettando ripetuti ricoveri in clinica a Milano: ‘Io la mia vita l’ho vissuta intensamente con l’aiuto e la grazia del Signore. Ora mi sento a disposizione dei medici per aiutarli a trovare la cura giusta’.
Sopratutto negli ultimi sei o sette mesi le sue sofferenze erano in continuo aumento in varietà e in intensità, fino al punto da dover essere imboccato per nutrirsi, oppure essere alimentato artificialmente. Lui cercava di dissimulare per non molestare nessuno.
Perfino l’ultima notte di vita (quella tra il 18 e 19 settembre) rifiutò energicamente che lo assistessero la sorella e la nipote ‘per non disturbarle troppo’: ‘Andate a casa e riposate – aveva detto loro – perché qui ci sono le infermiere che mi accudiscono benissimo’. Una testimonianza commovente mi è stata data da Viviana, la caposala del nostro centro di Milano. La ringraziai per ciò che lei e tutte le altre avevano fatto per P. Fulvio e lei mi disse testualmente: ‘No, Padre, siamo noi che dobbiamo ringraziarvi per averci mandato P. Fulvio. Facevamo tutte a gara per servirlo’.
Un’altra testimonianza è quella di Mons. Lauro Tisi, vicario generale della diocesi di Trento, durante la celebrazione funebre. ‘Uomo di preghiera e di brillante umorismo, P. Fulvio era un missionario felice di esserlo’. Il segreto di una buona riuscita – aveva spiegato a 500 giovani della diocesi che lo ascoltavano in silenzio in un convegno diocesano – è amare sinceramente la gente che Dio ti mette sulla strada. Amarli tutti come se fossero la tua famiglia’.
Voglio pure sottolineare il suo amore ‘viscerale’ per le missioni. Non solo della sua missione di Kasaala, dove aveva vissuto la maggior parte della sua vita e dove aveva coltivato parecchie vocazioni sacerdotali e religiose (più di una quindicina), ma anche di tutte le missioni comboniane, dove mandava gli aiuti che poteva e che lui stesso raccoglieva tra parenti ed amici. Non posso tacere infine il bene che ha fatto nella nostra comunità di Arco col suo esempio, con i suoi consigli che aiutavano, sostenevano, incoraggiavano coloro che ne avevano più bisogno. Quanta serenità ha saputo dare a molti di noi!”.
Da Mccj Bulletin n. 239 suppl. In Memoriam, ottobre 2008, pp. 83-91.