In Pace Christi

Negri Carlo

Negri Carlo
Data di nascita : 07/02/1921
Luogo di nascita : Trovo/Pavia/Italia
Voti temporanei : 15/08/1946
Voti perpetui : 15/08/1949
Data ordinazione : 15/08/1943
Data decesso : 14/03/2013
Luogo decesso : Rebbio/Como/Italia

La vocazione missionaria
P. Carlo era nato a Trovo (Pavia) il 7 febbraio 1921, primo di nove fratelli, da una famiglia di condizioni piuttosto modeste. A dieci anni entrò nel seminario diocesano. Nel 1936, mentre frequentava la quinta ginnasiale, ritornò dalla missione P. Pietro Vai, giovane missionario comboniano, anche lui di Trovo, sfinito dopo sei anni di vita missionaria in Sudan (morì sette anni dopo, a soli 36 anni). P. Carlo sentì che il Signore lo chiamava a sostituirlo e quindi a farsi missionario, ma per diversi motivi la sua risposta non poté essere immediata. Infatti, quando il suo padre spirituale, dopo averlo fatto attendere a lungo, si convinse che il Signore lo chiamava veramente ad essere missionario, si trovò davanti all’opposizione del superiore del seminario, del vescovo e della famiglia. “Troppo presto la mia felicità – annotava – si trasformò in lacrime amare e lotta faticosa, un processo di lotta e maturazione che sarebbe durato nove anni: sette di seminario a Pavia e i primi due, di vita sacerdotale in parrocchia… Pregavo che il Signore ‘convertisse’ il vescovo e i superiori”.

Era stato ordinato sacerdote il 15 agosto 1943, nella chiesa di Trovo, dal nuovo vescovo, con la dispensa del Santo Padre perché aveva solo 22 anni, cioè non aveva ancora l’età canonica. A ottobre dello stesso anno era stato destinato come coadiutore a Belgioioso, dove rimase fino al dicembre 1944. “Dopo un anno e mezzo d’intenso lavoro in parrocchia, con il consenso del vescovo e del padre spirituale, senza dire niente a nessuno, entrai dai Comboniani, a Venegono. Sorpresa nella parrocchia, malessere nel parroco, disappunto da parte dei genitori e familiari”.

Per P. Carlo il noviziato fu un periodo molto duro, anche perché i novizi erano una quarantina, quasi tutti fra i 16 e i 17 anni e quindi molto più giovani di lui. Non ebbe più l’opportunità di suonare l’organo e dirigere i canti, come faceva con competenza sia in seminario che in parrocchia. Solo più tardi, nella cattedrale di Wau, durante la messa pontificale, poté accompagnare i canti con la fisarmonica. Emise la prima professione il 15 agosto 1946.

In Sudan
Pochi mesi dopo la professione religiosa, partì per il Sudan con 18 confratelli. In realtà, erano tutti destinati all’Uganda ma, a causa delle difficoltà per ottenere il visto d’ingresso e anche per il fatto di non aver frequentato il corso di lingua richiesto per chi andava a lavorare nelle colonie inglesi, furono dirottati in Sudan. Qui coesistevano gli arabi del nord e i neri del sud che – come scriveva P. Carlo – “in comune avevano soltanto il fiume Nilo”.

In Sudan, lavorò nelle missioni di Bussere, Mboro e Deim-Zubeir. “Appena arrivato in missione – scrive – passai le prime settimane completamente scombussolato, in un mondo impensato e impensabile. Pregavo e piangevo per la visione desolante di tanta povera gente. Specialmente mi affliggeva la situazione della donna considerata una cosa che si comprava e si vendeva”.
Cominciò il lavoro missionario, finalizzato anzitutto a rendere più “umana” la condizione di quelle tribù. La missione cresceva con la scuola, il centro studi, l’assistenza sanitaria, il catechismo, le conversioni, i battesimi. La parrocchia si estendeva su un territorio di 180 chilometri. Il battello, unica via di rifornimento, arrivava da Khartoum in novembre e dicembre, cioè durante il periodo delle grandi inondazioni, quando poteva arrivare sul Nilo senza incagliarsi. Nell’arco di pochi anni la missione divenne molto fiorente.

Nel 1957, P. Carlo fu richiamato in Italia, per due anni, nel ministero e nell’animazione missionaria prima a Riccione e poi a Pesaro. Intanto, in Sudan, dopo l’indipendenza del Paese nel 1956, cresceva la pressione del governo contro le popolazioni nere del sud e la situazione politica si andava deteriorando. Nel 1959 P. Carlo fu inviato di nuovo in Sudan.

Secondo periodo in Sudan
Fu mandato per ministero prima nella parrocchia di Wau e poi nuovamente nella missione di Mboro. In questi cinque anni soffrì molto per la situazione estremamente difficile. Erano iniziate le persecuzioni da parte del governo musulmano, che non tollerava la presenza dei missionari cattolici, “colpevoli” di aver portato, con l’istruzione e il progresso, il senso della dignità alle popolazioni del sud. Finché il Sudan era stato sotto il dominio anglo-egiziano, i missionari avevano potuto vivere e lavorare in pace, perché il Sudan del sud era chiuso alla penetrazione degli arabi. Dopo l’indipendenza (1956) “gli arabi si fecero di nuovo prepotenti contro i neri del sud che, naturalmente, si ribellarono. La politica diabolica del governo ci rendeva la vita impossibile, vietandoci e proibendo tutto, affinché stanchi e demoralizzati lasciassimo il Paese”.
P. Carlo ha spesso raccontato, con le lacrime agli occhi, quali persecuzioni hanno dovuto subire i missionari e le comunità cristiane, con tutta una serie di prescrizioni e leggi governative che tendevano a neutralizzare l’azione missionaria, applicando dure sanzioni ai trasgressori. Cominciò così – nel 1960 – l’espulsione dei missionari. Racconta ancora P. Carlo: “Ho dovuto assistere, impotente, alla tortura e alla morte di molti cristiani: adulti, giovani e gruppi di scolari. Moltissimi gli esempi, commoventi ed edificanti, simili agli ‘acta martyrum’ dei primi cristiani. Ho così capito che la Chiesa era stata fondata su solide basi… Vi confesso una mia debolezza: da quel venerdì 28 febbraio 1964 (giorno in cui P. Carlo aveva dovuto assistere alla flagellazione con il ‘korbash’ e alla tortura – cospargevano con la paprika le ferite degli uomini, delle donne, dei ragazzi e ragazze delle scuole cattoliche), per anni non sono più stato capace di meditare i misteri dolorosi del rosario, soprattutto il secondo, in cui si ricorda la flagellazione di Gesù”.

L’espulsione
“Domenica 1° marzo 1964, terminata la santa Messa, mi ritirai in casa per mangiare qualcosa. Sentii il rumore di mezzi militari. Uscii. La casa era circondata da poliziotti. Non erano i nove poliziotti di sempre, che mi sorvegliavano da alcuni mesi e che avevo visto in cappella mentre ci spiavano per riferire poi ai superiori chi, fra la gente del luogo, aveva il coraggio di venire in chiesa, perché venisse punito”.

Così inizia il racconto di P. Carlo sui suoi ultimi giorni in Sudan. I militari lo trattennero fuori dall’abitazione, puntandogli contro un mitra, e misero a soqquadro la casa, come già avevano fatto un’infinità di volte. Terminata l’ispezione, il comandante diede ordine ai soldati di andare a prendere anche le suore. Avevano un’ora di tempo per raccogliere qualche effetto personale e niente più. Poi, furono condotti dai soldati nel punto in cui c’erano i loro camion, sotto un grande albero, mentre questi ultimi cercavano di tenere lontana dai missionari la gente che stava arrivando da ogni parte. “Restammo sotto l’albero fino alle quattro del pomeriggio, mentre il comandante, i soldati e i poliziotti si facevano beffe di noi insultandoci. Le tre suore, sedute sotto l’albero, piangevano, io, in piedi vicino ai poliziotti, mi sforzavo di essere sereno e forte. Tuttavia, dopo un po’, non ne potei più e iniziai anch’io a piangere amaramente. Intanto la gente si avvicinava sempre di più ai missionari, mentre i poliziotti si avvicinavano sempre di più ai soldati e al comandante. Gli alunni della scuola, ragazzi e ragazze (molti di loro portavano ancora addosso le ferite subite nei giorni precedenti, 24 e 28 febbraio), benché colpiti con il calcio del fucile o con la frusta perché non varcassero il limite, furono i primi a sfondare il cordone formato dai poliziotti e si sedettero accanto a noi, ai piedi dell’albero. Il comandante, i soldati e i poliziotti rimasero sorpresi dal coraggio di questi alunni che, nella loro lingua ndogo, ci rivolgevano parole commoventi: ‘Padre, suore, il Signore esiste ed è molto più forte di tutti questi soldati che vi portano via con le armi. Non abbiate paura’”.

P. Carlo riuscì a dire a tre ragazze, parlando nella loro lingua (che i soldati non conoscevano), di andare in chiesa e consumare le particole consacrate, in modo che non fossero profanate dai militari. Prima che P. Carlo partisse, le ragazze riuscirono ad avvicinarglisi e gli dissero di aver fatto ciò che aveva chiesto loro. Dopo pochissimo tempo, due poliziotti andarono in cappella, distrussero le statue dell’artista locale Angelo Mboro (Sacro Cuore e Immacolata) e, trovando il tabernacolo vuoto, spararono con rabbia e uscirono. “Durante il Capitolo Generale del 1969 a Roma, un comboniano proveniente dall’Uganda mi portò i saluti di tre religiose sudanesi della mia missione. Domandai i loro nomi: erano le tre ragazze che, dopo aver visto il male che avevamo dovuto subire, le suore e io, erano fuggite in Uganda per farsi suore e prendere il posto delle tre suore comboniane espulse”.

Verso le quattro del pomeriggio il comandante caricò i missionari sulle camionette militari e li portò a Wau. Poi arrivarono quelli di Mbili e, il giorno seguente, quelli di Bussere. Con i seminaristi di Wau rimase il giovane sacerdote sudanese Gabriel Zubeir Wako, attuale arcivescovo di Khartoum e settimo successore di Comboni a Khartoum. Nei giorni seguenti arrivarono tutti i missionari e le missionarie delle altre missioni. “Durante i cinque giorni di permanenza a Wau, potemmo uscire soltanto due volte per recarci in cattedrale e celebrare la santa Messa per i nostri defunti che lasciavamo lì. Per arrivare alla cattedrale dovevamo semplicemente attraversare la strada, ma sempre sotto lo sguardo dei poliziotti armati di fucili e mitragliatrici. Con il cuore addolorato, ma per nulla disanimato, perché ‘portae inferi non praevalebunt’, nella cattedrale di Wau, prima che i poliziotti ci caricassero sui camion militari per condurci all’aeroporto, cantammo piangendo ma pieni di speranza Christus Vincit, Christus Regnat, Christus Imperat”.

Si concluse così l’esperienza missionaria in Sudan di P. Carlo “con la convinzione che il Vangelo continua in modo misterioso la sua corsa”.

In Italia
Seguiamo ancora le sue parole: “Dopo 17 anni di lavoro missionario in Sudan, potei assistere mio padre moribondo. Mi chiese perdono per tutto ciò che era accaduto e, non sapendo che ero stato espulso, mi diceva spesso: ‘ritorna in missione, la tua gente ha bisogno di te, io no. Guarda come tutti mi assistono: tua madre, tutti i tuoi fratelli. Ritorna nella tua missione; non lasciare da sola la tua gente’”. P. Carlo faceva notare come al suo ritorno tutto era cambiato, tutti si rallegravano ed elogiavano il missionario che, grazie all’espulsione, veniva accolto come un eroe, con musica, banda e applausi: “Veramente il Signore non si lascia vincere in generosità”. In Italia P. Carlo rimase solo poco più di un anno come superiore della casa di Crema.

In Spagna
Nel settembre del 1965, fu mandato in Spagna. Questo periodo può essere suddiviso in due fasi: la prima – undici anni – corrisponde al suo impegno nella fondazione della provincia comboniana; la seconda – molto più lunga, ventisette anni – vissuta dedicandosi all’animazione missionaria nei conventi di clausura.
In realtà, P. Carlo avrebbe dovuto rimanere in Spagna per sei mesi. Infatti, dopo essersi ripreso fisicamente, aveva chiesto al Superiore Generale di essere mandato di nuovo in missione. Proprio in quel momento, P. Enrico Farè, responsabile della provincia iberica comboniana, aveva chiesto a Roma la presenza di P. Ivo Ciccacci, missionario con un grande carisma per trattare con i giovani e al quale affidare l’animazione missionaria nei seminari e nei collegi di Spagna. P. Ciccacci, responsabile di una parrocchia a Napoli e della rivista “Animazione Missionaria”, aveva chiesto sei mesi per sistemare i suoi impegni. Così fu mandato provvisoriamente P. Carlo. Come sappiamo, i sei mesi divennero quarant’anni.

Nei primi due anni, accompagnato da un confratello spagnolo, visitò tutti i seminari maggiori e minori del nord e del sud del Paese, che allora avevano molti seminaristi: “Sono entrati in tanti nell’Istituto comboniano”.
Nei successivi nove anni (1967-1975) ebbe l’incarico di economo, prima per la provincia iberica (Spagna e Portogallo assieme), poi per la provincia spagnola, visto che il Capitolo Generale del 1969 aveva creato due province distinte. In Spagna, era il periodo delle costruzioni: ad aprile del 1967 furono inaugurati il noviziato di Moncada (Valencia) e la residenza di Madrid; nell’ottobre del 1968 fu acquistata la casa di Barcellona e costruita la parte nuova per i Fratelli; più tardi, furono iniziati i lavori per la costruzione di un seminario minore a Santiago e dello scolasticato di Granada.

Trent’anni di animazione missionaria nei conventi di clausura
Nel 1975, terminate le varie costruzioni, P. Carlo lasciò l’incarico di economo per dedicarsi esclusivamente alla visita dei conventi di clausura, chiedendo preghiere per le missioni e per i missionari, convinto che “la vita contemplativa è l’anima della missione”. Così motivava questo incarico: “Il vero motivo che mi porta, come missionario, ad animare apostolicamente le contemplative sta nelle parole di Cristo ‘La messe è molta, gli operai pochi: pregate dunque il Signore della messe perché mandi operai’. Il pregare viene prima dell’andare; finché ci saranno nella Chiesa persone che pregano, non mancheranno mai persone che vanno. Il mio lavoro missionario, ora, in Spagna, è questo: suscitare nelle contemplative l’interesse per le missioni, facendole partecipi della grande avventura missionaria”. Sull’esempio del Comboni, che aveva 200 monasteri che pregavano il Signore per le missioni (Lettera alla Badessa Michela Müller, Scritti 1886-1891), poteva dire: “Oggi ci sono più di 1000 conventi di clausura in Spagna, Portogallo, Perù, Cile, Ecuador, Colombia e Italia che pregano e si sacrificano per le nostre missioni e case di formazione”.

Nuovamente in Italia
Nel 2004 P. Carlo, anche per motivi di salute, fu assegnato alla provincia italiana e mandato a Rebbio di Como, la comunità per confratelli anziani, dove è morto il 14 marzo 2013. Ospite della casa comboniana di Rebbio, ha sempre mantenuto contatti con molti suoi compaesani e, appena poteva, tornava a Trovo, dove festeggiò anche il 50° e il 60° anniversario di ordinazione sacerdotale; in entrambe le occasioni, fu Mons. Francesco Zanacchi, anch’egli nativo di Trovo e amico fraterno di P. Carlo fin dalla fanciullezza, a tenere l’omelia. In quella del 21 settembre 2003, sottolineò come i “17 anni di martirio” in Africa avevano permesso a P. Carlo di essere “veramente, a tutto tondo, missionario. Ricordo lucidamente il ritorno dall’Africa: disfatto dagli stenti, dalle fatiche, dalle angherie subite, ma indomito nello spirito, con il cuore traboccante di gioia per aver sofferto con Cristo e per Cristo”. E riferendosi al successivo impegno in terra spagnola, affermò che, in una “provvisorietà che dura da 38 anni”, P. Carlo ha svolto una missione “instancabile, fino a condurre un’attività che ha del miracoloso. I conventi, i monasteri, soprattutto quelli di clausura, hanno avuto il dono della sua parola, sempre eco di quella di Dio. […] E quali rapporti ha avuto e mantiene con queste anime – le suore di clausura – di cui qualcuna è già in paradiso e iscritta nell’albo dei santi della Chiesa universale, in particolare, Santa Maria Maravillas de Jesús, beatificata nel 1998 e canonizzata nel 2003. Non è davvero poca cosa!”.
La salma di P. Carlo è giunta nella chiesa parrocchiale alle ore 12 di domenica 17 marzo, accolta dal suono delle campane della chiesa in cui ha ricevuto non solo il battesimo, ma anche l’ordinazione sacerdotale, per l’imposizione delle mani di mons. Carlo Allorio. Ininterrotto è stato l’afflusso di amici e conoscenti che hanno voluto rendere omaggio a un gigante della fede.

Lunedì 18 marzo, le esequie sono state presiedute da Mons. Adriano Migliavacca, vicario generale, e concelebrate dal parroco don Carlo Grossi con numerosi sacerdoti, alcuni originari di Trovo, altri legati a diverso titolo alla parrocchia. Erano presenti anche due comboniani, che hanno ricordato alcuni tratti della personalità di P. Carlo e alcuni aneddoti relativi alla sua attività spagnola e alla sua permanenza a Rebbio. (Riccardo Colangelo)

Rebbio: le testimonianze
P. Luigi Generoso. Sono arrivato a Rebbio nel 2009 e P. Carlo faceva parte del gruppo dei magnifici novantenni: P. Tarcisio Agostoni, P. Bambino Agostino Galli, P. Antonino Orlando e P. Marcello Panozzo. Non poteva predicare né confessare per cui passava il tempo a tenere la corrispondenza con le comunità di monache conosciute nella sua lunga vita e con gli amici. Preparava le sue prediche per la comunità con scrupolo, le stampava e le passava alle suore. Il suo problema era il computer: se c’era un piccolo intoppo, bisognava aiutarlo a risolverlo “subito” perché non riusciva più a dormire. In comunità era un esempio di preghiera e di delicatezza verso tutti. Mai una parola fuori posto. Lieto, se poteva raccontare qualche episodio della sua vita in Sudan, o in Spagna. Ha scritto una relazione della sua vita. Ricordava tutto, date, numeri e giorno compresi. Era un piacere farlo parlare, ma era anche difficile fermarlo. Nel lungo periodo di rianimazione parlava in spagnolo e proprio quando sembrava ce la potesse fare – aveva ripreso a nutrirsi da solo – ci ha lasciati, quasi di corsa, come sempre di corsa camminava, ma questa volta è stata una corsa nelle braccia del Signore.

P. Pietro Bracelli. Arrivando a Rebbio nel maggio 2012 ho trovato anche P. Carlo. La sua, è una storia incentrata su vocazione e preghiera. Parlava sempre con entusiasmo dei suoi anni come sacerdote diocesano di Pavia, degli anni trascorsi in Sudan, dei 40 anni in Spagna, come promotore vocazionale nei seminari diocesani e visitatore dei conventi di clausura di tutto il Paese.

Riguardo alla seconda caratteristica, posso dire che pregava sempre. Anche in ospedale mi ripeteva: ‘qui non ho nulla da fare e posso recitare tanti rosari’. Il nipote, venuto a portarci l’immaginetta-ricordo, ci ha raccontato questo piccolo episodio. Un giorno, in attesa del pranzo, aveva chiesto a uno dei suoi tre figli, di soli dieci anni, perché se ne stava da solo in disparte, e aveva ricevuto questa risposta: ‘recito il rosario per lo zio che è ricoverato in ospedale’. Questo bambino leggeva ogni giorno il Vangelo perché gliene aveva parlato lo zio! P. Carlo viveva continuamente assorto in Dio. Questo suo fare m’impressionava come mi colpiva il suo volto sereno, rimasto tale anche nella bara.

Testimonianza di Don Tino Baini
Riportiamo questa testimonianza, pubblicata sul giornale parrocchiale di Belgioioso e Torre de’ Negri, Il San Michele, nell’aprile del 2013, nella rubrica Storie di vita.
Conobbi P. Carlo Negri più di trent’anni fa, quando ebbi l’occasione di fare un viaggio nella Spagna del sud, a Valencia, dove fui ospite dei Comboniani. Fui accolto da un religioso dal volto simpatico e cordiale, allora a me sconosciuto. Lo rividi molti anni dopo a Trovo e qui nacque un’amicizia sacerdotale rimasta inalterata nel tempo. Di Padre Carlo conservo moltissimi ricordi: le sue lettere, le sue telefonate frequenti, ma soprattutto gli incontri con lui e l’opportunità di ascoltare le com­moventi testimonianze sulla sua missione in Sudan dopo l’avvento del governo islamico. Dai racconti emergeva la storia di un vero martirio: catechisti torturati perché rifiutavano l’apostasia, lebbrosi bruciati, restrizioni imposte ai missionari cattolici, fino alla loro definitiva espulsione. Ma colpisce un fatto in particolare: costretto a lasciare la missione, mentre un camion li portava all’aeroporto per l’imbarco, il gruppo dei missionari lasciò il Sudan cantando “Christus Vincit”. La storia di P. Carlo potrebbe fare invidia ai personaggi dei racconti di Salgari. Infatti il viaggio dei missionari per raggiungere il luogo stabilito durava mesi perché il Nilo non era navigabile tutto l’anno, ma solo nei periodi di piena. Per questo, alcuni missionari, invece di aspettare l’occasione della piena, preferivano attraversare il deserto a dorso di cammello. P. Carlo aveva un grande spirito missionario che lo portava a fare ogni cosa con passione e piena dedizione. Nonostante i suoi novant’anni, manteneva un’attività intensa di corrispondenza e di rapporto con le persone. Non c’era data significativa che non fosse preceduta dalla sua telefonata, poteva essere il compleanno o l’anniversario di ordinazione sacerdotale o la sagra della parrocchia. Era missionario in ogni gesto che compiva: la missione era il suo respiro e l’unico scopo della sua vita. Persona umile, non ha mai fatto cenno alla fiducia di cui godeva nell’Istituto e al suo impegno nella fondazione della Provincia spagnola dei Comboniani. Fino a pochi anni fa si dedicava alla predicazione degli esercizi spirituali nei monasteri femminili di clausura spagnoli e cileni. Quando tornava a Trovo, suo paese di origine, si dedicava alla visita delle famiglie amiche con le quali aveva mantenuto uno stretto rapporto. Ora riposa nel cimitero del suo paese, accanto a molte persone che ha conosciuto e che l’hanno seguito nel suo percorso vocazionale di sacerdote e missionario, seguendo l’esempio dello zio, P. Pietro Vai, missionario in Sudan, morto all’età di 36 anni. Ma perché dedicare una pagina del San Michele al ricordo di P. Carlo? Perché, appena consacrato sacerdote, ha svolto a Belgioioso il suo ministero nel 1943, lasciando poi la diocesi per le missioni. In questo anno della fede, il ricordo di P. Carlo e la sua testimonianza missionaria sono un invito a fare nostri gli orizzonti missionari della Chiesa, che si sente inviata al mondo come custode della speranza che non delude.

Da Mccj Bulletin n. 258 suppl. In Memoriam, gennaio 2014, pp. 37-46.