Scriveva P. Angelo D’Apice (†2012) che anche P. Giuseppe Andreon era entrato tra i Comboniani già maturo: infatti, era già studente di teologia e diacono nel seminario diocesano di Pordenone. Frutto, come tanti altri giovani dei seminari diocesani, delle visite dei missionari comboniani autorizzati da Propaganda Fide. Ricordiamo alcuni nomi: P. Egidio Ramponi, P. Enrico Farè, P. Elio Boschetti, P. Mario Mazzoni, P. Antonio La Salandra e altri. Questi seminaristi si univano così ai loro coetanei che venivano dalle cosiddette Scuole Apostoliche che i Comboniani avevano nelle diverse regioni dell’Italia.
P. Giuseppe, entrato nel noviziato di Gozzano, fu ordinato sacerdote nel 1959. Fu poi mandato a Sunningdale, UK, per lo studio della lingua inglese.
Uganda
Nel 1960 era pronto a partire per le missioni dell’Uganda, la “perla dell’Africa”, così chiamata da Henry Morton Stanley (1841-1904). Vi rimase per ben ventiquattro anni, lavorando nelle missioni di Patongo, Anaka, Opit, Pajule, Palabek. Infatti, dopo il Corso di Perfezionamento a Roma, terminato nel maggio 1968, ritornò in Uganda, a Pajule, Patongo e Pabo. Nel 1976, proprio da Pabo, scriveva ai superiori maggiori informandoli che anche il suo nome era nella lista di quelli respinti dal ministro degli interni. Fortunatamente la sua situazione si risolse bene.
Decimo anniversario di ordinazione
Attingiamo allo scritto di P. Giuseppe in occasione del suo decimo anniversario di ordinazione. “Ogni sera, tirando le somme, devo accettare deficienze, mancanze, obblighi compiuti a metà e tanta stanchezza. Prete da dieci anni! Sono contento di esserlo, ma vi assicuro che, quando a 24 anni feci la generosa offerta della mia vita a Dio per servire i fratelli, ero molto lontano dalla realtà. Com’è difficile vivere per gli altri senza pretese, senza ripiegamenti, senza stancarsi... Eppure sono contento di essere missionario qui in Uganda. Colui che si sacrifica per gli altri, non domanda mai se ne vale la pena: dà e nulla aspetta. Solo chi crede in Dio e nella bontà dell’uomo, nell’uomo nero come nell’uomo bianco, può pensare all’Africa come roba sua, da sistemare perché cresca e produca frutti abbondanti. Quando la gente diventa rabbiosa e minacciando ti getta in faccia gli errori dei secoli passati (schiavitù, colonialismo, sfruttamento, superiorità...), la medicina per tutti è sorridere sempre, per così risparmiarmi molte spiegazioni. Giunto in Uganda nel 1960, quando nel vicino Congo si tagliavano a pezzi i missionari per gettarli nel fiume, sperimentai subito la grande difficoltà di comprendere il mondo africano in rivolta contro i bianchi. I missionari anziani, scoraggiati e sconvolti di fronte al nuovo fermento, profetizzavano catastrofi. Non basta leggergli il Vangelo perché il pagano rinunci al passato e si converta al Dio-Padre di tutte le tribù. Perline di vetro, pezze di tela e polvere da sparo hanno incantato gli uomini molto più che il Vangelo.
Quante scoperte anche per me in questi dieci anni! La prima notte che dormo nella foresta africana, le termiti mi divorano i sandali e mi vergogno di essere rimasto scalzo come la mia gente. Un sasso lanciato ingenuamente contro un tronco secco della foresta mette il giovane missionario in fuga precipitosa: non si disturbano impunemente le api! I sentieri della foresta, disegnati dai piedi nudi della mia gente, presentano dei ricami speciali: pura marca africana. Disteso sull’erba, con le gambe sotto la moto, il prete si consiglia: “Bepi, va piano nelle curve”.
A Olyelowidyel, vicino al fiume Agago, erano in due: uno in moto e l’altro a piedi. Tutti e due correvano, però, con intenzioni molto diverse: erano il missionario Bepi e il coccodrillo. Il missionario aveva valorosamente lottato con i serpenti, aveva anche diviso la sua stanza da letto con loro, senza tante pretese: ora però…
Bepi con suo padre, in quel di Venezia, aveva sudato nei campi, ma ancora non aveva imparato a sollevare tronchi nella foresta equatoriale, per costruire la grande capanna al Dio vivente! Caldo+sforzo=febbrone oltre 40°. Conclusione: una bella malaria. Per la prima volta, dopo Adamo, nel mio villaggio si fanno le votazioni. Ottantamila abitanti attendono i risultati, anch’io attendo con ansia. I discorsi dei neo-politicanti sono poco entusiasmanti. Penso agli aviatori italiani di Kindu, ai 22 missionari che riposano nel fiume Lualaba... Sto celebrando la Messa: urla indescrivibili si avvicinano alla chiesa. “Vittoria!”. Signore, che roba! La folla entra e... “Padre nostro che sei nei cieli...”: ha vinto proprio lui, Jino, l’ex-seminarista! I maliziosi raccontano che ad Anaka, una sera, nel buio, partì una rimbombante pistolettata... Il vecchio parroco sconcertato, tremò a lungo e, come si dice, non ci vide più! Era venuto in Africa deciso a sacrificare la vita per i neri! Anch’io ero venuto per dare la vita, ma alcuni spavaldi giovinastri da un pezzo non la smettevano di disturbare impunemente la missione. Un poderoso petardo bastò ad impaurirli, ma anche a mettere in moto il parroco, all’oscuro di ogni cosa. Poco dopo facemmo la pace, poi, instancabili, insieme tutti i giorni nella foresta, perché i nostri neri possano crescere.
È già da qualche anno che abito nella foresta: ormai mi sono innamorato della vita selvatica che ogni missionario è costretto a condurre. La mia parrocchia è da anni che cresce mostruosamente in numero di cristiani. È nata meno di venti anni fa, ma ora conta oltre 40.000 abitanti, dei quali circa 20.000 cattolici, sparsi in una zona più estesa della provincia di Venezia. Ogni giorno, da 60 a 80 km nella foresta, in cerca dei dispersi. Oltre mille battesimi l’anno! Dove andremo a finire? Posso battezzare ancora o devo rifiutare il battesimo anche a chi lo chiede? Quando ci penso sul serio, mi viene da piangere. Ma dicono che anche le lagrime sono necessarie per il futuro della Chiesa. Non pensiate che i battezzati siano tutti perfetti cristiani. Ma come posso continuare a battezzare, se non riesco a custodire i battezzati? Siamo qui in due padri: quando P. Tarcisio Pazzaglia torna dalla foresta, tocca a me partire, e viceversa. Avete provato quanto è brutta la vita da soli in missione? Ci si incontra assieme così di rado!
Una mattina, entrando nella mia povera chiesa, ho provato un senso di orrore: il tabernacolo era coperto da un enorme mucchio di terra! Signore, pietà. Al chiaro di una candela mi metto subito al lavoro: scavo e scavo terra, fino a liberare la porticina. La apro... Lui è là, alle prese con le sue creature: le formiche bianche. Che strage. Che traffico. Tutte al lavoro: chi porta terra, chi macina legname, chi divora veli... e Lui lascia fare!
Ecco: vorrei che la mia gente fosse come le termiti attorno al tabernacolo, a disturbare il solitario Padrone del mondo! Lui ha detto dì essere cibo per tutti ed io, felice, continuerò a preparare quel Cibo misterioso ogni mattina, Dio voglia, fino all’ultimo giorno della mia vita!
In Karamoja, nel nord-est dell’Uganda
Nel 1976, dopo alcuni mesi come economo a Pesaro, in Italia, ritornò in Uganda, questa volta a Morulem e a Kaabong, nel deserto del Karamoja, la zona più povera e arretrata del nord-est dell’Uganda.
Nel Natale del 1980, scriveva ad amici e benefattori: “Grazie ai vostri aiuti e a quelli di vari enti internazionali, che sono in continuo aumento, questo Natale sarà molto meno triste di quanto sarebbe potuto essere per i nostri 380.000 Karimojong. Anche le condizioni dei miei 85.000 Dodoz (i Karimojong del nord, i più colpiti dal flagello della fame) sono assai migliorate. I morti di fame, da un centinaio al giorno nel periodo più nero, sono ora scesi a una decina soltanto. Essi ebbero il più alto numero di vittime perché, oltre ad essere senza raccolto, come gli altri, furono derubati anche di tutto il loro bestiame ed è dal bestiame che essi hanno sempre ricavato quello di cui abbisognavano per vivere, essendo sempre stati pastori seminomadi. La loro vera tragedia è stata causata specialmente dalla mancanza di bestiame. Calcoliamo che da marzo a luglio 1980, quando gli aiuti giungevano col contagocce, ne siano morti di fame un 10%, cioè diecimila circa. Per il futuro, direi che gli attuali sostanziosi aiuti (per Kaabong, sono tredici camion di cibo a settimana) dovrebbero continuare fino al prossimo raccolto, cioè fino a luglio o agosto, sperando che le piogge siano favorevoli. E fra tanta miseria una nota consolantissima. I miei Dodoz, che finora hanno costituito il gruppo Karimojong più restio alla conversione, si sono messi in massa a frequentare i vari catecumenati. Il fatto di essere rimasti per la prima volta senza bestiame, intorno al quale da sempre è stata organizzata tutta la loro vita, li ha fatti riflettere e li ha indotti a pensare a qualcosa d’altro. Sta di fatto che abbiamo cappelle e catecumenati traboccanti di gente che vuole il Battesimo. Saranno almeno tremila, in continuo aumento. Altri missionari hanno seminato per lunghi 26 anni, tra tanti sacrifici e scarso raccolto. Ora sembra giunta l’ora della mietitura. Mai come in questi mesi mi è parsa attuale l’affermazione di Gesù: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi”. Sì, perché se invece di cinque Padri fra i Dodoz, fossimo dieci o quindici, quanta più gente si potrebbe preparare al battesimo. Mi appello accoratamente anche alle vostre preghiere perché quest’ora di grazia continui e perché noi missionari possiamo essere all’altezza di questo momento e la Chiesa possa mettere solide radici anche in questa terra”.
E concludeva scherzosamente: “Vittorione (don Vittorio Pastori) e Mons. Enrico Manfredini (Varese) ci hanno portato la pasta e altri rifornimenti: saremo gli ultimi a morire di fame”.
Kenya
Nel 1984 i superiori lo mandarono in Kenya, dove per quindici anni lavorò nelle missioni di Mogotio, Katilu, Kasikeu, Kerio Valley e nuovamente Mogotio. Nel 1999, per motivi di salute, dovette “affittarsi” – come disse lui stesso – una stanza nel Centro Ammalati di Verona. Qui, i primi anni, a dispetto delle lunghe corse in moto sulle strade assolate e polverose dell’Uganda e del Kenya, dovette muoversi su una sedia a rotelle, a causa di un incidente di alcuni anni prima, a Kasikeu – era caduto da una scala – dal quale non si era mai ripreso completamente.
Ce ne parla P. Agostino Zanotto. “Non ricordo la data, ma ricordo l’episodio che mi scosse profondamente. P. Giuseppe era nella mia stessa missione di Kasikeu (nel periodo 1988-1992) da alcuni anni. Allora ero il superiore della missione, avviata da un altro grande missionario della nostra provincia, P. Adriano Bonfanti. Era di pomeriggio e, terminato il mio lavoro in ufficio, uscii per recitare il rosario passeggiando, come al solito, davanti alla casa. Quel giorno, però, avevo una strana sensazione e pensai – fu quasi un’ispirazione – di andare a pregare passeggiando su uno dei lati della chiesa. Mentre camminavo con calma in quella direzione, vidi una scala appoggiata a un albero, ma nelle vicinanze non c’era nessuno. Mi avvicinai e vidi a terra P. Giuseppe che non dava segni di vita. Istintivamente gli diedi la benedizione e provai a chiamarlo, ma non reagiva. Corsi a chiamare il cuoco e a prendere la macchina. Mentre lo adagiavamo in macchina capii che era ancora vivo. Andammo di corsa a Sultan Hamud, dove c’era una società italiana che lavorava per incanalare l’acqua dal Kilimanjaro Mountain e portarla a Machakos. Chiesi aiuto e siccome avevano un’auto adibita ad ambulanza, ci dirigemmo verso Nairobi. Ero seduto vicino a P. Giuseppe e pregavo, quando lo sentii singhiozzare: ‘lasciami morire, lasciami morire’, diceva. Cercai di consolarlo. Era come immobilizzato. Dopo tre ore di viaggio arrivammo a Nairobi. I medici intervennero subito. Fu tenuto in terapia intensiva per tre giorni e poi trasportato in Italia per l’operazione”.
A Verona
Ritorniamo alla testimonianza di P. Angelo D’Apice. “Ebbi la gioia, mista a tristezza, di fare visita a P. Giuseppe a Verona. Era steso a letto. Mi ci vollero dei buoni minuti per fargli capire chi ero: ‘Padre Giuseppe, sono padre Angelo. Siamo stati insieme diversi anni a Mogotio’. Quando finalmente riuscì a capire, mi afferrò le mani e cominciò a piangere. Pregammo insieme. P. Giuseppe è ancora missionario e più di prima, perché le anime si salvano con la sofferenza, con la Croce. Non ci ha salvati così il Figlio di Dio? Non è questo il chiodo fisso di san Daniele Comboni: le opere di Dio nascono ai piedi della croce e prosperano con la croce? Molte le qualità che Dio e madre natura hanno donato a P. Giuseppe: facilità nello studio delle lingue, cosa che gli era molto utile per diffondere la parola di Dio, dimestichezza con martelli, badili e zappe... aveva un debole per il giardino e per i fiori... è proprio il caso di dire che aveva le mani d’oro!”.
P. Giuseppe è morto a Verona il 29 ottobre 2013.
Da Mccj Bulletin n. 258 suppl. In Memoriam, gennaio 2014, pp. 119-125.