“Erano i tempi della beatificazione. Comboni el g’ha trovà un bon Paròn! (Comboni ha trovato un buon padrone!) disse mio padre mentre gli mostravo un’immaginetta su cui era scritto ‘Il Servo di Dio, Mons. Daniele Comboni’; ed io pensai: Anca mi! (anch’io!)”.
Nato nel 1917 a Firenze, da una famiglia numerosa e profondamente cristiana, P. Giuseppe Furlanetto entrò nel seminario diocesano di Pordenone. La visita del giovane missionario comboniano P. Angelo Tarantino (ex seminarista di Pordenone e più tardi vescovo di Arua, Uganda) destò in lui la vocazione missionaria. A 18 anni Giuseppe entrò tra i Comboniani e nel 1943 fu ordinato sacerdote. Dopo alcuni anni di insegnamento nel seminario comboniano di Padova, nel 1949 poté salpare per la missione del Sud Sudan.
Sud Sudan
“Fui nella Prefettura Apostolica di Mupoi in Sudan Meridionale, tra gli Azande. Furono anni indimenticabili. Era quella, la vita missionaria che avevo sempre sognato: abitare in una casa coperta di paglia, mangiare cose semplici preparate da un cuoco locale. Un giorno mi lamentai perché il cibo era troppo salato e lui: ‘Non è colpa mia; è il sale che è salato’. Viaggiare nella foresta a piedi, in bicicletta, in moto, visitando i cristiani e i catecumeni nelle cappelle e scuolette disseminate nella savana. Ho avuto anche paura quando – cosa assai frequente – incontravo gli elefanti o i leoni.
Il popolo Azande era molto aperto al vangelo, veramente desideroso di conoscere Gesù. La festa di Natale era un grande avvenimento religioso al quale tutti partecipavano, cristiani e pagani. Arrivavano a gruppi, dai luoghi più distanti per visitare il Dio-Bambino nel presepio. Lo contemplavano estatici e commossi e ritornavano ai loro villaggi con il cuore convertito, e subito chiedevano di essere preparati al battesimo”.
Ecco cosa ci raccontano i diari di due delle missioni in cui ha lavorato P. Giuseppe (da “La Missione del Cuore” di P. Giovanni Vantini).
Nzara. Il 31 ottobre 1951 P. Ugo Riva e Fr. Erminio Caldarola vanno a Nzara per costruire il minimo indispensabile. Nel frattempo abitano in una casetta in affitto a circa tre chilometri dal luogo assegnato. È anche difficile trovare operai pronti a compiere due volte al giorno quel tragitto a piedi. (le industrie offrivano paghe più alte ed attraenti di quelle che i missionari potevano dare). Fr. Erminio cuoce mattoni e cerca contatti con quanti cristiani incontra. A metà dicembre inizia i lavori, ma un attacco di malaria mette a letto tutti e due. Superato l’’attacco, vanno a Rimenze per riposo. Per fortuna arriva P. Giuseppe che aiuta nelle confessioni e, subito dopo, viene anche P. Vincenzo Carradore che celebra il Natale, la festa cristiana più popolare. Le conversioni sono sempre più numerose. Ormai un sacerdote non basta più per portare avanti il lavoro così bene iniziato. Ritorna P. Giuseppe, designato coadiutore. Ha studiato arabo classico in Libano e può comunicare con i cristiani provenienti da Wau. Ma, racconta P. Igino Benini, P. Giuseppe parlava un arabo troppo aulico per i sudanesi del Sud e dovette imparare bene lo zande.
Ezo. La stazione di Ezo è cronologicamente l’ultima aperta nella prefettura di Mupoi, nel 1954-1955. Dopo quell’anno, nessun permesso fu dato per nuove stazioni. Avuta l’approvazione di erigere una missione, il 2 novembre 1954 partono da Mupoi P. Giuseppe e Fr. Carlo Mosca con la benedizione del prefetto apostolico e, verso mezzogiorno, arrivano accolti trionfalmente dai ragazzi della scuola e da un gruppo di cristiani, accorsi a recar loro il primo saluto. Il 28 novembre 1954, è suggellato da una festicciola per l’arrivo del prefetto apostolico, che conferisce anche 125 cresime. Scrive il diarista, P. Giuseppe: “È uno spettacolo commovente, sufficiente da solo a far dimenticare tutte le fatiche e sofferenze passate: vedere tanti cristiani che, dopo periodi di sbandamento, ‘ritornano’, cioè fanno il matrimonio sacramento. A Natale, vidi dinanzi a me una marea di teste nere protese in devoto ascolto: vidi il deputato cattolico Cosma Rababe, il gran capo Diko, i sottocapi e tutti gli impiegati statali. Essendo solo, non potei accontentare tutti: alcuni vennero a confessarsi dopo Natale, altri tornarono a casa senza ricevere i sacramenti”.
Quando sembrava che tutto procedesse bene, la persecuzione si abbatté anche su questa missione, così l’esperienza di P. Giuseppe terminò presto. Nel 1956 il Sudan divenne indipendente. Il regime musulmano iniziò subito la persecuzione contro i cristiani. Per gli arabi, politica e religione si identificano, per cui non si poteva essere bravi sudanesi se non si era musulmani. Il sistema oppressivo provocò la ribellione di diverse tribù africane. La reazione del governo di Khartoum fu drastica. Nel 1957, il sacerdote africano Gabriele Duatuka, che era con P. Giuseppe nella missione di Ezo, fu arrestato e torturato. P. Giuseppe lo accompagnò fino alle prigioni di Yambio e il giorno seguente, con il coraggioso vescovo mons. Ferrara, riuscirono a liberarlo, ma nel 1958 P. Giuseppe, con altri due sacerdoti, fu processato e poi espulso dal Sudan. Nel 1964 avvenne l’espulsione di tutti i missionari dal Sudan meridionale, 300 persone tra missionari e suore. Da quel momento ebbe inizio quella situazione di guerra che è durata per molti anni.
Oltre quarant’anni in Brasile
Le notizie che seguono, come pure le frasi riportate, sono tratte da un’intervista fatta a P. Giuseppe, nel 1999, da P. Lorenzo Gaiga.
P. Giuseppe fu subito assegnato al Brasile, dove ha lavorato 42 anni. “I Comboniani erano arrivati in America Latina nel 1951. Il primo a giungere in Brasile fu P. Rino Carlesi, diventato poi vescovo di Balsas. La venuta dei missionari aveva due scopi: aiutare il clero locale, molto scarso, nell’opera di rievangelizzazione (la maggior parte della gente era solo battezzata); secondo: creare spirito missionario nelle rinnovate comunità cristiane, specialmente per mezzo delle Comunità Ecclesiali di Base (CEBs). Io vi sono arrivato nel 1959”.
Nello Stato di Espírito Santo. P. Giuseppe lavorò per i primi quindici anni nella diocesi di São Mateus. Appena arrivato, ebbe la gioia di partecipare alla presa di possesso del primo vescovo della nuova diocesi, Mons. Giuseppe Dalvit, comboniano. “Sentivo una grande nostalgia dell’Africa dove ho lasciato un pezzo di cuore, ma quasi subito la cordialità dei brasiliani mi ha rimarginato la ferita. Visitavo le comunità in un raggio di 60-80 chilometri. Andavo a cavallo. Solo più tardi riuscimmo ad avere una jeep, macchina appropriata alle strade fangose e difficili del posto. L’ospitalità affettuosa e delicata delle famiglie era commovente. Ripetevano spesso, come un ritornello ‘Siamo poveri, ma non della grazia di Dio’. Mi sentivo missionario realizzato. Vivevo, creavo amicizia, riunivo i bambini per il catechismo (la catechesi è sempre stata la mia passione) e poi c’era l’incontro festivo con il popolo per la Messa. Priorità pastorale della diocesi era la formazione degli animatori di comunità e la creazione delle Comunità di Base. La comunità aiutava la gente a risolvere anche i gravi problemi sociali, quelli della terra, per intenderci”.
Nel 1961 era vice-parroco a Mantenópolis: “‘Nella nostra parrocchia, in sette mesi si sono avuti quasi dieci omicidi’, mi rammaricai con un amico. ‘Lo dicevo, io’, esclamò lui, ‘da quando ci siete voi Padri Comboniani la situazione è migliorata al cento per cento! Una volta, c’erano quasi quotidianamente dei crimini. Grazie a Dio, ora non è più così’”.
In Amazzonia. Dal 1975 al 1985 P. Giuseppe lavorò nello stato di Rondonia, prima a Ouro Preto e poi a Espigão. Fu un lavoro pionieristico, missionario al cento per cento, con viaggi interminabili a piedi e a cavallo o – a volte – con la macchina, su quelle strade fangose, appena aperte nel cuore della foresta. “L’incontro festoso con le povere famiglie dei contadini era motivo di profonda gioia e gratitudine a Dio per avermi chiamato ad un opera così bella come l’edificazione del Regno di Dio”. Grazie anche alla collaborazione di tante famiglie cristiane arrivate in cerca di terra, fu possibile ai Comboniani impiantare nella nuova diocesi di Ji Paraná una pastorale veramente avanzata che servì da modello nello sviluppo successivo della diocesi.
Taguatinga. A causa di un problema alla vista che non gli permetteva più di guidare, nel 1985 P. Giuseppe chiese ai superiori di poter lavorare in qualche periferia di città dove si può incontrare tanta gente senza eccessivi spostamenti. Fu mandato così a Taguatinga, una città di 400.000 abitanti, vicino a Brasilia. La sua principale attività era la catechesi, non solo a livello parrocchiale (bambini, adolescenti, adulti) ma anche a livello diocesano nella formazione dei catechisti e dei dirigenti mediante corsi di aggiornamento e di spiritualità. “Ora preparo alla prima comunione, alla cresima e al battesimo ragazzi e adulti e poi mi dedico alla pastorale degli infermi, visitando regolarmente i malati all’ospedale o nelle loro case. La nostra parrocchia della Sagrada Familia è un centro di spiritualità con frequenza altissima alle messe e ai sacramenti, anche nei giorni feriali. Ci sono tanti giovani. E questo ci fa sperare bene… Non è una pastorale solo sacramentaria (messa e sacramenti), ma diamo molto spazio all’evangelizzazione, alla Parola di Dio. La pastorale della famiglia è ben organizzata anche con tonalità missionaria. La missionarietà si traduce in carità. Abbiamo le mense dei poveri. Ogni giorno, gruppi di laici, a turno, preparano gran pentoloni di minestra con riso, pasta e carne, e vanno nei vari rioni della città a sfamare chi non ha niente”.
A proposito delle “piaghe” della parrocchia, diceva: “Come dappertutto c’è la violenza che si esplica con omicidi, aggressioni, furti, assalti, sequestri. Tanti giovani e anche adolescenti si uniscono in bande di malviventi e sono molto pericolosi. La causa di questo male è, soprattutto, la mancata riforma agraria già richiesta dai vescovi fin dagli anni sessanta. Terra ce n’è in abbondanza, e per tutti, basterebbe che i latifondisti fossero meno egoisti e fossero disposti a distribuirla. Il governo promette, promette, ma non si muove. Inoltre occorrerebbe dare assistenza tecnica ai contadini e fare una giusta politica dei prezzi. Mancando queste cose, i giovani si riversano nelle città, nell’illusione di trovare lavoro e vita migliore, invece finiscono nelle ‘gangue’, come dicono qui. Solo mettendo in pratica gli insegnamenti del Vangelo, la vita umana è degna di essere vissuta e diventa umana, prima ancora di essere cristiana”. E P. Gaiga aggiungeva: “È quanto sta facendo P. Giuseppe Furlanetto, nonostante i suoi 82 anni e gli acciacchi, ma con tanta grazia di Dio e con altrettanta giovinezza in cuore”.
Testimonianza di P. Pietro Bracelli
“Quando nel novembre del 1960 arrivai in Brasile, incontrai P. Giuseppe Furlanetto, arrivato pochi mesi prima. Il suo sforzo di inserimento in una realtà molto diversa da quella africana fu notato da tutti, ma P. Giuseppe seppe seguire ‘la Grazia’ lasciandosi trasformare nello spirito e nella disponibilità. Posso subito affermare che, a mio avviso, fu uno dei pochi comboniani che, avendo dovuto lasciare forzatamente la missione in Africa per poi essere destinato al Brasile, s’identificarono profondamente con la nuova realtà. Più ancora, lui s’identificò con il nuovo popolo, arrivando ad essere ‘un pioniere’ nella Provincia, sostenendo che bisognava impegnarsi anche con gli Indios. Chiese di essere destinato alla missione nello stato di Rondonia, dove abbondavano i problemi dei senza-terra, e in particolare dei numerosi gruppi di Indios ancora non coinvolti nel lavoro dei missionari. Il carattere perfezionista, quasi scrupoloso, se da una parte lo faceva soffrire, era però cammino d’impegno totale e di approfondimento dei temi della missione. Costò molto a P. Giuseppe anche il dover accettare l’orientamento dei superiori che ritenevano opportuno tornasse in Italia per l’età e le malattie. Ad Arco visse tranquillo, senza lamentarsi della situazione. Di lui, conservo un esempio di generosità e serenità che andarono crescendo con il tempo fino alla chiamata del Signore”.
Rientro in Italia
Verso la fine del 2000 ritornò in Italia per cure e fu quasi subito assegnato a questa provincia. È rimasto ad Arco, fino a quando, nel gennaio 2013, è stato mandato a Verona, al Centro Ammalati e Anziani, dove è morto il 22 dicembre 2013. I funerali si sono svolti martedì 24 dicembre presso la cappella del Buon Pastore in Casa Madre, poi P. Giuseppe è stato sepolto nel cimitero monumentale di Verona.
Da Mccj Bulletin n. 258 suppl. In Memoriam, gennaio 2014, pp. 161-165.