Gran parte delle notizie che seguono sono tratte dalla memoria autobiografica scritta dallo stesso P. Aldo. Nato il 10 aprile 1935, da Luigi Accorsi e Adele Macchion, era il terzo di quattro fratelli.
Ricordi d’infanzia
“Mio padre – scrive P. Aldo – aveva una salute di ferro, lavorava fin troppo e già alle cinque e mezza del mattino era a lavorare nel campo che aveva in affitto. Alle sedici andava nello zuccherificio per valutare la qualità delle barbabietole che i contadini portavano per la produzione dello zucchero. Poi a sera inforcava la bicicletta e percorreva i dieci chilometri che ci separavano da Rovigo dove continuava il lavoro come controllore dei biglietti all’entrata di una sala cinematografica. Fece molti sacrifici per passare dalla campagna alla città. Venne il giorno del trasloco, di cui ricordo solo quel primo viaggio in camion con gli alberi che ci venivano incontro a grande velocità e poi sparivano dietro al mezzo che ci trasportava. La nuova casa era tutta nostra ed era situata a pochi passi dalla stazione ferroviaria. Per andare alla chiesa parrocchiale c’era un bel po’ di strada da fare per attraversare la città e giungere alla chiesa di San Francesco, una delle due parrocchie di Rovigo, a quel tempo. Ricordo la mia preghiera un giorno in duomo, così fervorosa da dimenticare lì i quaderni appena comperati... pazienza! Mi ripromisi che la prossima volta sarei stato più attento”.
Quando l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania, il papà, che aveva fatto la guerra del 1915-1918, fu richiamato come carabiniere. Nel 1943, tenuto conto del pericolo costante per la loro casa, che era nei pressi della stazione ferroviaria, la famiglia si trasferì presso degli zii. Pochi mesi dopo, nel 1944, la stazione di Rovigo fu bombardata pesantemente; i vagoni dei treni furono scagliati sulle case vicine, distruggendo anche la loro casa, costruita con tanti sacrifici.
“Volevo recuperare l’anno scolastico 1944-1945 perso per causa della guerra. Al mattino frequentavo la quarta elementare, ma quando seppi che la quinta si faceva al pomeriggio, chiesi alle maestre se potevo frequentare entrambe e recuperare l’anno perso”. Le maestre furono d’accordo. “Ricordo un episodio curioso: la maestra ci disse di portare a scuola un lavoretto artigianale fatto da noi; volli fare le statuine del presepio. Avevo abilità nel lavorare l’argilla e riuscivo a dare delle belle forme. Misi a cuocere le statuine sul focolare e poi le dipinsi per bene. Fui orgoglioso del risultato e quando le portai alla maestra, questa rimase incredula e mi chiese dove le avessi comperate. A nulla valsero le mie spiegazioni e mi presi un otto invece del bel dieci che pensavo di meritare. Avrebbe potuto incoraggiarmi e dirmi che potevo diventare un buon ceramista”.
Aldo, crescendo, desiderava diventare un bravo ingegnere per costruire ponti, perché era stato colpito da una frase dell’arciprete che parlava di un ponte speciale da costruire per unire gli uomini a Dio. Fu proprio quel pensiero che piano piano maturò in lui e gli fece desiderare di entrare in seminario, dove frequentò il ginnasio. “Ero nell’età dello sviluppo e crescevo magro come uno stuzzicadenti ma alto sempre di più. La mia mente spesso fantasticava anche ad occhi aperti e non mi ritrovavo sempre di buon umore. Mio padre veniva a farmi visita ogni domenica e con lui non mi lamentavo mai, dicendo che andava tutto bene”.
Il desiderio di farsi missionario
Aldo cominciò a sentire in sé il desiderio di essere missionario. Nelle sue note autobiografiche descrive come nel 1957 lasciò il seminario di Rovigo, dove stava per iniziare la terza teologia, ed entrò dai Comboniani. Nel settembre di quell’anno, ci fu, a Padova, il Congresso Nazionale Missionario e Aldo era ben deciso a parteciparvi, nonostante la ritrosia del rettore del seminario, Mons. Ferdinando Frison. Partì facendo l’autostop. Il secondo giorno del congresso chiese un incontro con il Superiore Generale dei Comboniani, P. Antonio Todesco, nativo di Rovigo, cioè suo compaesano, e gli raccontò che da tanto tempo pensava di farsi missionario ma che era stato trattenuto dal contattare l’Istituto perché alla fine di ogni anno scolastico si ritrovava ‘spossato’. Terminato il congresso, Aldo andò alla basilica del ‘Santo’ per chiedere a S. Antonio di aiutarlo in questo cammino vocazionale. Per seguire il suo desiderio nel modo migliore, andò a prendere informazioni presso diversi istituti missionari. Nel frattempo si era accorto di avere qualche problema di salute e anche questi istituti, percependolo, lo fecero sottoporre ad alcune visite mediche, dalle quali emerse il seguente risultato: “non adatto alla vita missionaria”. P. Antonio Todesco, invece, pur essendo al corrente di tutto, non ritirò il suo appoggio e disse che lo avrebbe messo alla prova, iniziando col mandarlo per un mese e mezzo sui monti della Lessinia, dove Aldo poté rimettersi in forze. Così, dopo la quarta teologia, venne ammesso all’ordinazione. Fu ordinato a Carraia dal vescovo di Lucca il 19 settembre del 1959.
“Ringraziai il Signore – scrive P. Aldo – per P. Antonio Todesco, perché seppi che era stato lui a disporre tutto presso il mio vescovo di Rovigo, Mons. Mazzocco, affinché fossi ordinato sacerdote prima del noviziato, perché riteneva fosse bene per me farlo già da sacerdote. Nel corso del noviziato ebbi due padri maestri, e tutti e due diedero parere positivo nei miei confronti”.
Terminato il noviziato, P. Aldo fece la prima professione e ricevette la lettera di assegnazione al Portogallo.
In Portogallo
Il 13 ottobre del 1961, dopo un pellegrinaggio a Fatima, si mise in viaggio per la sua destinazione, Faleiro, il “luogo cui avrebbe attaccato il cuore”. “La nostra casa di Faleiro si trovava nel fondovalle del fiume Vouga. Si trattava di una fattoria e terreno donati da un capitano, che d’estate diventava luogo di vacanze per i nostri studenti. Per il resto dell’anno la fattoria serviva come casa di formazione per aspiranti Fratelli… Nel mio lavoro di animatore ero coadiuvato da brave zelatrici che si occupavano delle adesioni all’Opera del Redentore e alla diffusione della stampa missionaria che portavo con me. Ricevemmo così molti aiuti e si poterono attrezzare al meglio le due officine di falegnameria e meccanica per la formazione dei futuri Fratelli. Tutti in casa mi incoraggiavano… A dir la verità, non avevo bisogno di essere spronato per il lavoro, ma piuttosto trattenuto… Per andare nella zona di maggior impegno, cioè nella regione montana di ‘Tras os Montes’, dovevo passare quattro valli fino ai confini con la Galizia spagnola e percorrere oltre trecento chilometri… Avrei dovuto prendere atto dei miei limiti e fare solo l’indispensabile per il mantenimento della casa e tutto sarebbe corso liscio. Restavo in quella regione montuosa dal sabato a tutta la settimana successiva, passando da una parrocchia all’altra, fino alla seguente domenica e ritornavo a casa il lunedì”.
Impegno missionario e malattia
“Intanto si avvicinava anche per me il tempo della partenza per la missione del Mozambico, ma il diavolo ci mise la coda in una maniera che non mi sarei mai aspettato. Oggi, dopo alcuni decenni, rileggo e rivedo la mia vita con altri occhi e capisco che Dio, nostro Padre, scrive dritto anche sulle righe storte”.
P. Aldo, infatti, era stato destinato in missione ma, invece di prepararsi alla partenza, continuava a buttarsi a capofitto negli impegni, come al solito. E ogni volta si ritrovava esaurito per il troppo lavoro. Finché un giorno i confratelli dovettero chiamare un’ambulanza e farlo portare in ospedale. Dopo quindici giorni, ripresosi abbastanza, fu mandato in Italia. “Appena tornato in Italia dal Portogallo ero molto euforico, perché pensavo che tutto fosse finito”.
P. Aldo fu inviato a far parte della comunità comboniana di Thiene (provincia di Vicenza). Dopo un primo periodo di ‘parcheggio’, il superiore ritenne opportuno dargli una possibilità di ripresa, inviandolo nelle parrocchie a fare delle Giornate Missionarie. Percorreva – con neve, nebbia, pioggia o sereno – le diocesi di Padova, Modena, Bologna, Vicenza e Belluno, in cerca di nuovi impegni. Tutto filava liscio ed era stimato dai confratelli. Poi le cose cambiarono.
P. Gaetano Briani, allora Superiore Generale, gli comunicò che, ora che stava bene e non aveva bisogno di medicine, poteva partire per il Mozambico. Tutto contento, P. Aldo parlò alla gente della sua prossima partenza per la missione e si impegnò a raccogliere fondi da destinare a un progetto in Mozambico. “Mi tuffai a capofitto in questo impegno; con l’aiuto di volontari, organizzai mostre a Rimini, Recoaro, Cortina d’Ampezzo. Erano i mesi di maggio e giugno e tutto mi sembrava roseo. Andai a Verona per farmi stampare i manifesti di diverse misure per reclamizzare l’iniziativa, in ben quattro lingue. Entusiasta del mio lavoro facevo festa ai confratelli. Ma la mia euforia e le battute spiritose li misero in allarme, capirono che sarei in breve caduto in uno stato di esaltazione maniacale. Quindi presero la decisione di scongiurare questo pericolo fermandomi subito”.
Così P. Aldo fu nuovamente ricoverato e rimase in ospedale per ventiquattro giorni, fino a quando cioè il provinciale si prese la responsabilità di farlo uscire firmando il registro e lo assegnò alla comunità di Verona Casa Madre. Trascorse un periodo a Verona, poi fu mandato a Limone sul Garda e ad Arco, dove serviva come cappellano. Sfumata nuovamente – perché sconsigliata dagli stessi medici – la possibilità di partire per la missione, “chiesi al superiore provinciale che mettesse a buon frutto il carisma che mi sentivo di effettuare, cioè assistere le persone ammalate in qualche ospedale… C’era bisogno di cappellani soprattutto nel nord Italia. Andai a Milano e mi incontrai con il vescovo degli operatori sanitari che mi mandò come cappellano in seconda negli istituti clinici di perfezionamento, tra cui il reparto di maternità ‘Mangiagalli’. La prima idea che lanciai fu quella di fare degli incontri con tutti gli operatori sanitari, anche ausiliari e personale della cucina, non in chiesa ma nell’Aula Magna, in occasione delle grandi festività di Natale e Pasqua, seguendo i temi del documento conciliare Gaudium et spes. L’iniziativa ebbe ottimi risultati”.
Al termine di questa esperienza – siamo intorno alla metà degli anni settanta – la vita di P. Aldò proseguì – come racconta – “ fra alti e bassi, dentro e fuori dall’ospedale di Borgo Trento a Verona” e nel 1994 ottenne l’invalidità civile. Da quel momento, recuperò una certa stabilità e riuscì a mantenerla anche grazie ai controlli medici cui si sottoponeva regolarmente.
Missione con la ‘m’ maiuscola
“Questo è quello che volevo raccontarvi – conclude P. Aldo – rivedendo la mia vita di missionario sotto il peso della croce della malattia. Sento di aver camminato sulla strada del Calvario con Gesù e di essere stato missionario. Anche questa è missione, e direi Missione con la ‘m’ maiuscola”.
Riportiamo le parole di P. Angelo D’Apice – scritte nel 2009, per il 50° di sacerdozio di P. Aldo – che riassumono un po’ il dramma della sua malattia: “Quattro anni di lavoro missionario in Portogallo e poi sarà missionario alla maniera di santa Teresina del Bambino Gesù, con la preghiera e la sua sofferenza. Oggi, membro della comunità del Centro Ammalati di Verona, assieme agli altri confratelli, feconda con la sua sofferenza il lavoro apostolico dei missionari che lavorano in prima linea, i quali, senza i loro sacrifici, come quello di Cristo sulla Croce, farebbero dei buchi nell’acqua”.
P. Aldo è morto a Verona il 3 febbraio 2015.
Da Mccj Bulletin n. 266 suppl. In Memoriam, gennaio 2016, pp. 9-15.